Buongiorno a tutte e a tutti, grazie di essere qui e di essere in tante e in tanti, per testimoniare e rinnovare la nostra presenza e la nostra determinazione alla rappresentanza e alla mobilitazione.
Questa estate è cominciata nel segno – usuale ormai e terribile – di altre morti e altri incidenti sul lavoro. 
Usuale, perché sembra che non ci sia proprio modo di porre questo tema al centro di un’emergenza nazionale. 
E sentiamo ripetere frasi di rito. Leggiamo titoli su titoli.
Ma la musica, la partitura macabra non cambia. Un dramma a soggetto in cui le vittime predestinate sono i lavoratori e il regista è un mercato delle vite, dei corpi, della fatica e dello sfruttamento che sta inesorabilmente peggiorando.
Terribile perché ogni volta l’orrore si moltiplica: lavoratori asfissiati che muoiono tentando di salvare i loro colleghi in un gesto disperato dentro un silos o un condotto, corpi straziati nelle macerie, nei crolli, nelle cadute.
E adesso Satnam Singh, un povero bracciante, uno delle decine di migliaia di emarginati, irregolari, invisibili, che rimane orribilmente mutilato e poi viene gettato ancora vivo davanti a casa come un rifiuto umano, un animale agonizzante e ormai inutile.
Dobbiamo però dire una cosa, e dirla forte. Non bastasse l’orrore infinito, la cosa che ci scandalizza di più è sentire etichettare questi episodi come incidenti, come tragiche fatalità, come eccezioni. Quando sappiamo che la mancanza di rispetto per la vita dei lavoratori è la regola brutale e tacitamente condivisa da un’intera classe di imprenditori e dalle classi dirigenti che li favoriscono e li proteggono.
Ci scandalizza sentire un ministro dell’agricoltura affermare che “non si possono criminalizzare le imprese” quando è arrivato il momento di avviare una serie sistematica di controlli a tappeto, di verifiche, di incriminazioni e di arresti.
Ci scandalizza ascoltare il balbettio farneticante e disumano degli imprenditori che si trasformano in mercanti di morte e carnefici, e vengono intervistati in tv come personaggi del giorno.
Ci scandalizza un paese, un sistema, un ceto dirigente che vive voltato di spalle, che non vede, che non vuole vedere, che fa finta di non vedere, e quando questi episodi accadono magari tributa alle vittime un ricordo in parlamento con tanto di dichiarazioni ufficiali. Tutti in piedi, anche a malavoglia, dai banchi del governo, ad applaudire, e poi tutti di nuovo intenti a insabbiare e dimenticare. 
Ci scandalizza, ancora, sapere che non c’è solo ignoranza e incuria, ma c’è complicità tra questa classe politica e i ceti economici e i gruppi di interesse che la esprimono e la condizionano.
Ma questo scandalo continuo e inaccettabile, vedete, ci conferma, ci rafforza e ci indica qual è il nostro nuovo percorso di lotta, la traiettoria per una battaglia che segnerà gli anni futuri.
Non solo la negoziazione, la contrattazione, la rappresentanza, la stipula di contratti e l’affermazione di regole condivise, ma una più ampia mobilitazione che dovrà diventare permanente. Una lotta dura e tenace per l’etica, il diritto, la vita.
Quella che chiamiamo l’umanità del lavoro, e che sentiamo, affermiamo, proclamiamo, come scelta valoriale centrale del sindacato, proprio perché ne avvertiamo la disperata mancanza in un paese che ha perso il senso stesso della sensibilità umana, della solidarietà e della convivenza.
Dobbiamo presidiare, lottare, denunciare, in difesa dell’umanità del lavoro: dire a questi lavoratori che non sono soli, che non devono accettare con rassegnazione la schiavitù! Perché di schiavitù si tratta, non ci sono altre parole per definirla.
E dobbiamo ribellarci, affermare chiaramente che la rappresentanza non è un momento tecnico o un “corpo intermedio”, come qualcuno ancora la definisce, ma è il corpo stesso della società italiana, il motore centrale e vivo dell’umanità e della sua voglia di cambiamento. 
Noi sappiamo che non solo abbiamo mille ragioni per chiamare alla mobilitazione permanente su questi temi, ma abbiamo ragione davanti alla carta costituzionale, alla storia, alla civiltà.
E l’ultimo, straziante evento della morte di Satnam Singh mostra quanto e perché abbiamo ragione, quando diciamo che la denuncia dell’immigrazione clandestina e del suo sfruttamento brutale, la lotta per l’inclusione, il rispetto per tutte le diversità sono tutt’uno con gli impegni e gli obblighi del sindacato.
Quando diciamo che le narrazioni ufficiali sulla transizione ecologica, sull’economia immateriale, sulle tecnologie “smart” ormai non riescono più a nascondere l’orrore, a fermare lo sdegno per lo sfruttamento materiale e inaccettabile di milioni di lavoratrici e lavoratori.
Ma, vedete bene compagne e compagni, avere ragione non basta, non basta più. 
Dobbiamo avere forza, autorevolezza, e tenacia perché ormai è un intero sistema che va abbattuto e ricostruito.
Non sono singoli aspetti o dettagli tecnici del rapporto di lavoro il centro della questione. È una piramide di dominio e sopraffazione che è giunta al capolinea, un intero ordine di cose che va cambiato prima che tutta la nostra società venga trascinata dall’onda della rivolta.
Cercheranno di isolarci e di marginalizzarci, perché non siamo disposti a barattare i diritti e l’umanità delle persone, né con voti, né con concessioni temporanee, né con provvedimenti. 
Cercheranno di dividerci, per categoria, per classe contrattuale, per tipologia di prestazione, quando il loro sfruttamento e il loro dominio rispondono a una logica e a un progetto unico e condiviso: quello della deregolamentazione generalizzata e della affermazione di un nuovo capitalismo neobarbarico globale.
Cercheranno di strumentalizzarci, di scavalcarci, e forse anche di ridurci al silenzio.
Ma la nostra esistenza, e il nostro destino stesso, come associazione di rappresentanza, sono proprio qui.
È giunto il momento di alzarci in piedi e dire basta.
Basta! Il loro progetto va combattuto, va fermato, va abbattuto.
Questa che abbiamo convocato è dunque una giornata di verifica, di confronto, di consuntivo delle cose fatte e di nuova programmazione, ma anche una giornata di sdegno, dunque, e di riaffermazione delle nostre ragioni e della nostra più profonda ragion d’essere. 
Ma è anche giusto che, proprio mentre indichiamo tutte le caratteristiche e le tappe per questa nuova mobilitazione, guardiamo anche allo stato delle cose e ai risultati che abbiamo raggiunto.
I 16 mesi trascorsi dal nostro congresso sono stati per la Filcams mesi straordinari, andati, con ogni probabilità, ben oltre qualsiasi previsione, credo che questo ce lo dobbiamo riconoscere.
È stata una fase impegnativa, indiscutibilmente senza precedenti, di lotte e di conquiste.
Come abbiamo avuto modo di definire nel nostro piano di lavoro, il 2023 è stato l’anno delle mobilitazioni, nostra e di iniziativa confederale, e ancora come pianificato, il 2024 si sta confermando come l’anno dei rinnovi contrattuali. 
Abbiamo iniziato con il contratto nazionale della vigilanza privata e dei servizi fiduciari, rinegoziato due volte in pochi mesi, abbiamo proseguito con il contratto degli studi professionali, con i quattro contratti del terziario, con il contratto dell’acconciatura-estetica artigiani per poi approdare ai contratti della filiera del turismo, della ristorazione e della cultura, con il contratto della ristorazione commerciale e collettiva prima e con il contratto del comparto alberghiero di Confcommercio poi.
Una puntualizzazione crediamo sia doverosa porla.
La conquista dei contratti è senz’altro merito delle lotte sostenute dalle lavoratrici e dai lavoratori ma il ruolo, l’impegno, l’assunzione di responsabilità delle delegate e dei delegati sono stati cruciali. A loro, anche oggi, diciamo grazie per gli avanzamenti insperati che insieme abbiamo realizzato. Grazie!
Va però evidenziato - è grave, estremamente grave - che ancora oggi, ormai nel pieno della stagione estiva, manchino ancora all’appello una parte dei contratti del turismo; alcune associazioni datoriali del settore riconducibili ai perimetri Confindustria e Confesercenti si devono assumere la piena ed esclusiva responsabilità di mancati rinnovi contrattuali che continuano ad avere conseguenze per migliaia di lavoratrici e di lavoratori.

E naturalmente non ci dimentichiamo neanche di chi, prima, ha ostacolato con tutti i mezzi il rinnovo del contratto della ristorazione e poi, al momento della sigla, ha pensato bene di fuggire: vili e miserabili, metteremo in campo tutte le iniziative per costringerli all’applicazione del contratto. Il riferimento, giusto perché non ci sia incertezza è a Anir e a Angem e alle imprese associate.
Vedete bene che non ci sbagliamo quando diciamo che in questo atteggiamento degli imprenditori non c’è solo ignoranza o difesa di piccoli interessi di parte. C’è un disegno condiviso, una brutale affermazione del diritto del più forte, una volontà di sfilacciare, disperdere, deregolamentare per moltiplicare e incrementare una cosa sola: il profitto, a discapito della vita e dei diritti di milioni di persone.
E quindi, come ci siamo detti più volte, già dai prossimi giorni si renderà necessario prendere delle decisioni rispetto alla gestione dei rinnovi mancanti.
Non ci fermerà naturalmente neanche questa ulteriore responsabilità, che affronteremo e risolveremo come ogni singolo precedente rinnovo, come ogni singola precedente vertenza e quindi, avanti con determinazione ancora maggiore!
Del resto è questo l’impegno che ci siamo presi, tra di noi, nel rapporto con le lavoratrici e i lavoratori, un impegno che siamo intenzionati a mantenere a questo punto tenendo insieme i rinnovi che mancano con la necessità non più rinviabile di darci una prospettiva di medio e lungo periodo.
Ed è per questo che l’iniziativa di oggi è particolarmente importante, perché ci prepara all’avvio, dal mese di settembre, di una nuova fase di rivendicazione e di lotta, e ci permette di cominciare a definire i termini di gestione di una vertenza che coinvolgerà già nei prossimi mesi, per i prossimi anni, trasversalmente, i milioni di lavoratrici e di lavoratori dei nostri settori.
La si potrebbe definire, per quanto ci riguarda, come la “vertenza delle vertenze”, relativa alle condizioni di lavoro, normative e salariali, sempre più disperate, sempre più insostenibili, sempre più drammatiche di chi presta attività nel terziario, negli appalti, nei servizi, nel commercio, nella distribuzione, nella filiera del turismo, della ristorazione e della cultura.
Milioni e milioni di colf e di badanti, di addette e addetti alle pulizie, alle mense, alla ristorazione, di cameriere e camerieri, di cassiere e cassieri, di commesse e commessi, di cuoche e cuochi, di rider, di lavoratrici e di lavoratori delle piattaforme digitali. Una moltitudine di persone e le loro famiglie alle quali il Paese non è stato e continua a non essere in grado di riservare alcuna risposta, alcuna attenzione, alcuna considerazione, alcun interesse, alcun impegno, alcun riguardo ma soprattutto alcun rispetto.
Ribadiamolo con forza, la questione delle norme e delle normative, o meglio della loro violazione e della loro assenza, è tutt’uno con la questione del rispetto umano, del riconoscimento che queste moltitudini di persone meritano per il ruolo fondamentale che svolgono ogni giorno e ogni notte.
E invece sono sottoposte a una preventiva condanna capitale, senza motivo, senza senso, senza appello, che pesa da decenni; una condanna di colpevolezza, in assenza di un reato e di un processo; una condanna all’esclusione, alla solitudine, all’invisibilità.
C’è come un grande testo, una narrazione sociale, un contratto invisibile che determina questa situazione ormai intollerabile. 
È un contratto non scritto, forzoso e brutale, che conosciamo tutte e tutti, e dice più o meno così: “vuoi lavorare? Vuoi sostentarti in modo minimale, per riuscire a sopravvivere? Allora accetta le condizioni che ti dettiamo noi, accetta la mancanza di sicurezza, di dignità, di riconoscimento, di qualifica. Accetta l’invisibilità sociale, l’umiliazione, la precarietà. Perché se non le accetti e non fai come diciamo noi quella è la porta, quella è la strada, quella è l’emarginazione ancora più dura in cui possiamo ricacciarti. E soprattutto, non farti venire in testa strane idee di diritti, di rappresentanza, di contratti, di contributi, di problemi di salute o di incolumità, perché se ti azzardi a fiatare ci sono migliaia di persone ancora più affamate di te pronte a prendere il tuo posto domattina”.
Questa è la sostanza di una datorialità fuori controllo, ormai diffusa, di una cultura sprezzante spietata e condivisa, che quando non uccide o mutila i lavoratori, uccide e mutila quelli che ogni essere umano ha come beni più preziosi: la dignità e l’umanità. 
E allora ecco perché “Liberazioni”, il titolo dell’iniziativa di oggi, perché è in capo a noi il dovere etico e morale, ancora prima che politico e sindacale, di liberarci e di liberare da uno stato di reclusione, di prigionia, di carcerazione esistenziale a cui ci hanno relegato, a cui ci ha condannato la parte più scriteriata, irresponsabile, volgare e violenta della politica, delle istituzioni, dell’imprenditoria del Paese.
Senza alcuna volontà, lo precisiamo, di strumentalizzare, di svilire, di riferirci in modo inappropriato alle “liberazioni” storiche che ci hanno preceduto, alle quali tutto dobbiamo, perché ci riferiamo ogni giorno proprio a quei valori, alla forza, al coraggio che ci hanno consentito di crescere e di affrontare, oggi, discussioni come la nostra.
Ma proprio perché veniamo da là, da quei valori e da quelle nobili lotte e sacrifici, oggi lo diciamo e lo ribadiamo con forza, se questa situazione si è determinata e aggravata di anno in anno è perché politica, classi dirigenti e imprenditori sono coesi, solidali e complici nell’attacco all’umanità e alla dignità del lavoro, nell'attacco non solo ai valori costituzionali, ma alla convivenza democratica.
“Liberazioni”, dunque.
Certo “liberazione” rispetto all’asservimento a condizioni di lavoro insostenibili, umilianti, pericolose, tossiche.
Non ci stancheremo mai di ricordarlo. Schiere e schiere di lavoratrici e di lavoratori che hanno svolto e continuano a svolgere, anche nei periodi più disgraziati, attività, servizi, lavori fondamentali per l’intera economia nazionale, insostituibili per altri milioni di persone, spesso a loro volta in condizioni di fragilità, cruciali per l’intero Paese.

Ma nel contempo, lavoratrici e lavoratori part time involontari, in appalto, somministrati, a chiamata, a tempo determinato o stagionali per una vita, costretti a lavorare per poche ore al mese, per pochi mesi all’anno, per qualche manciata di euro al mese, senza alcuna forma di sostegno al reddito e ammortizzatori sociali adeguati.
Nella logica diffusa di questa classe imprenditoriale ci sono un inizio e una fine del ciclo assolutamente simili: clienti trattati come profili e segmenti di mercato, e definiti da un algoritmo. E lavoratori trattati come risorse materiali da sfruttare per rendere l’algoritmo sempre più redditizio.
Ottimizzare, lo chiamano, snellire. Alleggerire, efficientare. Il loro linguaggio non è solo falso, fa schifo. Perché non ottimizza, ma sfrutta e peggiora le vite di milioni di persone. Perché né snellisce né alleggerisce ma rende intollerabile e gravoso il lavoro. E di efficiente, lo sapete, non c’è proprio nulla. Guardate alle condizioni della ristorazione, del turismo, dei servizi: bassa qualità, bassa paga ma pretesa di prestazioni sempre più costrittive, precarie, rapide.
Nessuna qualifica, nessuna crescita, nessuna formazione, nessuna cultura, nessuna umanità del lavoro.
E quello che è peggio, la condanna all’anonimato sociale, allo squallore del dover fare i conti ogni giorno con paghe da fame, che non consentono neanche di immaginare un futuro per le proprie famiglie e i propri figli.
A questo siamo arrivati, questi siamo! Ma credo anche che dobbiamo aggiungere che questi non siamo più intenzionati ad essere! Che è arrivata l’ora di cambiare. Le “liberazioni” a cui dobbiamo mettere mano, dunque, sono irrinunciabili e urgenti.
“Liberazioni”, ecco: è innanzitutto questo, in tratti di estrema semplificazione, l’argomento che ci attende in questa due giorni di confronto.
In altre parole, ricorrendo ad un termine che rientra ormai nel lessico quotidiano della Filcams, quantomeno in termini di ambizione, di tensione, di aspirazione, l’obiettivo è di cominciare a praticarla realmente, a declinarla nei fatti, a realizzarla concretamente l’umanità del lavoro.  
Ma ancora in tema di “liberazioni”, abbiamo ritenuto di doverci cimentare in termini più generali.
Ne abbiamo discusso, la situazione in cui versa il Paese impone anche a noi, anche alla Filcams, un coinvolgimento diretto e sta in questo il senso del rafforzamento ancora negli ultimi giorni di alcune deleghe e responsabilità in capo alla struttura nazionale e conseguentemente di un’ulteriore assunzione di responsabilità di portata più complessiva e su temi di carattere trasversale.
Perché sulla questione del lavoro e della sua umanità poggiano una quantità di sfide, e dunque di politiche, diverse ma tutte collegate tra loro.
E quindi politiche della memoria, per la difesa della Costituzione e la salvaguardia dell’antifascismo. 
Cominciamo da qui, perché, è così che si chiama: non è “anti-post-fascismo”, scusate la licenza. Se i comportamenti, gli alibi, le connivenze, i silenzi delle istituzioni tollerano di fatto i costanti riferimenti al fascismo, se centinaia di saluti romani in piazza vengono osservati a distanza e lasciati correre come se fossero una ragazzata, se una parte dei più giovani del Paese, gli stessi che ritengono di dover essere prospettiva, prossima classe dirigente, futuro del Paese, ci riportano indietro di un secolo, allora è ora di rimettere al centro della nostra democrazia, prima che sia troppo tardi, l’antifascismo.
E a proposito di scandalo, curiosamente chi è al governo nei massimi vertici si risente perché un documentario di “Fanpage” fa il suo mestiere di denuncia e di verità: documenta, cioè nei fatti, nei comportamenti, nelle parole e nella violenza l’intero assetto giovanile di un ceto politico neofascista, intollerante, sprezzante verso i diritti, le diverse comunità del nostro paese, i migranti. Nostalgico del duce, del führer, della shoah, però allevato e forgiato dal partito di Governo per essere “la meglio gioventù nazionale”.
Destra sociale, la chiamano, con orgoglio, ma i loro riti e la loro cultura di sociale hanno molto poco. Sono antisociali, pericolosi e, quello che è peggio, sono convinti di avere in pugno il Paese. Noi dobbiamo denunciarli, contrastarli, combatterli, fermarli prima che sia troppo tardi.
E poi. Politiche dei diritti alla migrazione, dell’intercultura e dell’antirazzismo. Perché questo Paese non ha un progetto, non ha programmi di inclusione, ama raccontarsi plurale ma è chiuso e rancoroso, non si confronta né con la sua storia passata, né con il presente. E non progetta il futuro. Un paese che senza alcun senso celebra il successo di nostre atlete e atleti – nostri e del mondo che conquista – ma poi manda al Parlamento Europeo con mezzo milione di voti un generale farneticante che ribadisce che “loro non sono come noi”. Occorre non solo un lavoro di presidio, vigilanza e denuncia su questi temi, ma un lavoro politico e culturale profondo perché si accresca la consapevolezza, la sensibilità, la capacità di superare i luoghi comuni, prima che deflagrino conflitti sociali e ferite insanabili come già sta avvenendo in altri paesi d’Europa. 
E ancora. Politiche dell'intersezionalità, di genere, delle pari opportunità, dei nuovi diritti e della non discriminazione lgbtqia+. Questo è un campo di maturazione culturale e civile immenso: non possiamo delegarlo alla politica, che se ne fa gioco, né lasciare che siano i soggetti deboli e discriminati a occuparsene da soli, per cause di forza maggiore. Ci riguarda e ci interroga per il concetto stesso di dignità e di umanità che affermiamo ogni giorno.
E infine. Politiche antiabiliste per l’autodeterminazione delle persone disabili e della non autosufficienza. Dove ci sono disabilità, che di fatto disabilitano alla partecipazione sociale e civile, il mondo del lavoro e dei servizi deve farsi sempre più presente, mettere in campo le sue progettualità e la sua cultura inclusiva.
Un approccio più complessivo il nostro, rispetto al quale sono da mettere in relazione anche gli argomenti che affronteremo nella giornata di domani, sintetizzati, con un po’ di composta originalità, nelle cinque parole chiave – rivendicazioni, vibrazioni, mutazioni, emancipazioni, evoluzioni – che altro non sono che alcuni punti della traiettoria che alle “liberazioni” ci porti. 
Rivendicazioni per dire affermazione, vibrazioni per passione, mutazioni per innovazione, emancipazioni per riscatto, evoluzioni per progresso e quindi “liberazioni”, che è l’obiettivo che ci siamo posti di realizzare: l’umanità del, per e nel lavoro.
Temi complessi che abbiamo parzialmente affrontato in precedenti edizioni di “The New Order”, che riavvicineremo in queste ore e che poi riprenderemo da ottobre con maggior organicità.
È “un esercizio” funzionale ad una serie di impegni che ci siamo presi e che siamo intenzionati a mantenere, ossia di definire rispetto ai nostri temi, alle nostre priorità, alle nostre proposte, un rapporto più strutturato con le altre categorie e la Confederazione, con la politica e le istituzioni, di aprirci e di farci conoscere dal Paese.
Lo faremo sempre di più come stiamo provando a farlo oggi, ancora con la tensione unitaria che ci è propria, nel rapporto con i sindacati internazionali e proseguendo, con coerenza, la mobilitazione di iniziativa confederale.
Una mobilitazione che sta attraversando uno snodo cruciale, definita la fase volta alla raccolta delle firme per i referendum in tema di lavoro, all’avvio di quella per il referendum contro l’autonomia differenziata, con l’attenzione da porre ai termini di predisposizione e ai contenuti della legge di iniziativa popolare.
È quindi questo il momento di unire, di coinvolgere, di mobilitare tutte le forze e tutte le persone che ancora riconoscono l’urgenza e la centralità dei temi che abbiamo posto.
Chi sono costoro? 
Sono molte, sono molti.
Siamo molte, siamo molti.
Sono tutte le donne e gli uomini che vedono come noi il rischio che si imbocchi una via senza ritorno, dove la democrazia resterebbe come orpello unicamente formale di una società rancorosa e divisa, di un tessuto del lavoro sempre più povero di contenuti e valori umani. Dove all’autorità delle istituzioni e della Costituzione si sostituisca l’arbitrio e il dominio selvaggio su milioni di persone oppresse.
Rappresentare, in senso confederale, vorrà dire allora affermare la volontà di “liberazione” e le tante “liberazioni” oggi necessarie e urgenti a un corpo sociale immenso ma ancora indistinto e disorientato da narrazioni aberranti.
Vorrà dire riprendere voce e autorevolezza rispetto alla politica, dettare – non subire – l’agenda delle scadenze sociali più urgenti.
Vorrà dire non solo contrattare e mediare, ma imporre nuovi rapporti di forza e rendere visibili i volti, udibili le voci, agibili i passi di moltitudini oggi invisibili, ammutolite, prigioniere.
Altrimenti, un sindacato che accetti di rimanere confinato in una funzione di istituto di verifica tecnico-contrattuale sarebbe un sindacato che ha perduto l’anima e la visione stessa delle sue radici e della sua storia. Questo tipo di sindacato piacerebbe molto a imprenditori e politici di oggi, che finalmente potrebbero agire indisturbati per disperdere e annullare le forze del cambiamento e della trasformazione reale di cui ha bisogno questo Paese.
Sono cose che andiamo dicendo e denunciando da tempo, e siamo sicuri che su questo ci sia molto spazio non solo per discutere e costruire, ma per lottare e avanzare insieme.
Allora compagne e compagni, vedete bene che questa convocazione estiva non è stata solo un’occasione di consuntivo e di allineamento tecnico. Né solo una riunione di verifica delle tante cose buone che abbiamo portato a casa in questi mesi, con fatica, tenacia e passione.
Questo nostro incontro deve essere il punto di partenza di un laboratorio aperto. 
Aperto, perché se è vero che dobbiamo essere coesi e compatti al nostro interno, è anche vero che è arrivato il momento di tendere le mani e le braccia intorno a noi, e cercare tante nuove forme di partecipazione, di solidarietà, di iniziativa.
Le “liberazioni” a cui vogliamo lavorare devono colpire e spezzare tanti anelli di una catena di ingiustizie e di sopraffazioni che è molto più coesa di come l’avevamo immaginata.
Solo con lo sforzo di una grande intelligenza collettiva, aperta, dinamica, la rappresentanza potrà trasformare la catena dell’oppressione in una catena di solidarietà e crescita umana.
Il nostro laboratorio sarà aperto perché dovremo essere attrattivi verso le persone giovani in cerca di impegno e di cambiamento, verso le persone che migrano nel nostro paese e lo trovano brutale e ostile, verso le persone costrette alla marginalità, oppresse, invisibili.
Oggi ci riuniamo all'indomani di importanti consultazioni elettorali, che mostrano una dinamica conflittuale, turbolenta, drammatica, rischiosa, che sta attraversando tutte le società occidentali.
Ora, noi non facciamo né i commentatori politici né gli influencer, ma ci sono considerazioni che è doveroso fare per chi si occupa di rappresentare il lavoro, gli esclusi, i deboli, di difendere e riaffermare tutte le differenze, i diritti e le identità di una democrazia aperta.
Detta in sintesi: le recenti elezioni mostrano che ci sono ombre terribili che si formano e si allungano su questa Europa. Ombre di movimenti razzisti e xenofobi, crescite a due zeri di formazioni che non nascondono, anzi esibiscono orgogliosamente i propri legami ideali e valoriali con il passato nazifascista. Questi movimenti sono sostenuti da gruppi di interesse economico che hanno tutto l'interesse a far arretrare la democrazia, a distruggere la convivenza civile per trasformare la cittadinanza in un parco di semplici risorse lavorative disperse, deboli, disciplinate, obbedienti.
Ma ci sono anche movimenti, coscienze in rivolta, istanze di libertà e di trasformazione che stanno portando milioni di giovani, di cittadine e cittadini, di lavoratrici e lavoratori a rialzare la testa, a riaffermare il loro legame con la liberazione, con le lotte e le conquiste democratiche che hanno permesso di consegnare agli archivi della storia il nazifascismo.
E così salutiamo quella moltitudine di giovani, di cittadine e di cittadini che ha permesso di arginare l'onda montante del neofascismo xenofobo in Francia, rispondendo a una chiamata della propria coscienza prima ancora che della politica.
E una moltitudine solidale, plurale, aperta e attiva sta prendendo forma e sta rialzando la testa anche da noi. Sta discutendo, denunciando, reagendo in mille forme all’arroganza di chi è convinto di poter attaccare la costituzione, le libertà, le garanzie che in un paese civile dovrebbero essere acquisite.
C’è una ricchezza inespressa in questa immensa moltitudine, una ricchezza che va ascoltata e trasformata anche e soprattutto nella rappresentanza. E c’è la richiesta diffusa di un Paese diverso, più inclusivo, più civile, più umano di come lo immaginano e lo propongono i ceti dirigenti e gli imprenditori. Una ricchezza che va, appunto, liberata in mille forme, nuove e plurali.
Di questo, soprattutto, vorremmo che si discutesse da oggi in poi.
E allora a tutte e a tutti buona “liberazione”, buone “liberazioni”, buon lavoro.