Diamo inizio al nostro appuntamento di oggi – con il quale proveremo a definire alcuni punti di avanzamento e a condividere spunti per la riflessione e l’azione – con un ennesimo momento di sgomento, di indignazione, e anche di chiamata alla responsabilità.
Ovviamente mi riferisco al terribile episodio di Firenze, che con le sue cinque vittime suggella il bimestre orribile di questo inizio d’anno 2024, nel quale si sono già contate 200 morti sul lavoro.
Tutto questo avviene tra l'inattività della politica e le promesse mancate su investimenti, controlli, sicurezza.
A questo punto verrebbe da dire, e credetemi che non è solo una provocazione, che non si sa se rammaricarsi per le migliaia di posti di lavoro che mancheranno all'appello quando i nodi verranno al pettine e si vedrà che il PNRR non è stato speso neanche per metà, oppure rallegrarsi perché almeno senza cantieri aperti di fretta, con progetti presentati in modo raffazzonato, non salirà il conteggio delle vittime della solita guerra.
Sì, parliamo di una guerra. Una guerra apparentemente non dichiarata ma sostanziale, tra chi vede il lavoro come un semplice strumento di esecuzione tempestiva e disciplinata della sinfonia del profitto, e chi pensa che la vita, le aspirazioni, l'incolumità, la sicurezza di chi lavora non siano una questione collaterale ma siano il centro della società civile.
E su tutto questo, in mezzo a tutto questo ci siamo noi, la rappresentanza in tutte le sue articolazioni e forme, che continuiamo a dire e ripetere quello che anche nella prima ora di educazione civica a scuola dovrebbe risultare evidente, appena si legge l'articolo 1 della Costituzione.
Ma purtroppo quel Paese, quella Repubblica che i padri costituenti hanno voluto fondata proprio sul lavoro si ritrova ogni giorno vilipesa e offesa da un continuo attacco alle condizioni minime di garanzia e di dignità del lavoro stesso. È un attentato, un sabotaggio impunito alle regole stesse del gioco democratico.
Questa è mancanza totale non solo della grammatica ma dell'alfabeto stesso della dignità democratica.
Perché chi li chiama incidenti, disgrazie, tragiche fatalità, non parla la nostra stessa lingua.
Chi infila dentro ragionamenti astratti sulla deregulation anche il conteggio cinico dell’improvvisazione su contratti e controlli non parla la nostra stessa lingua.
Chi con la sua connivenza e la sua latitanza istituzionale si fa complice di una catena di morti ai danni di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie, non parla certo la nostra stessa lingua.
Chi si limita a dire “lasciamo che la magistratura accerti le responsabilità”, non parla la nostra stessa lingua.
Perché purtroppo sappiamo perfettamente che, indipendentemente dalla verità giudiziaria che verrà ricostruita nei tribunali, la verità storica è sempre e solo una: ed è che si tutela il conto economico datoriale e non il lavoro, si ha a cuore l'economia del tempo a scapito del tempo che si dovrebbe dedicare a mettere in sicurezza cose e persone.
Si continuano a consentire catene viziose di subappalti, e ancora subappalti di subappalti, in cui si perde contezza di chi fa cosa, e perché, e come, e con che autorizzazioni, e con che qualifiche, e con quali garanzie.
E poi, quando si ricostruisce la catena dei fatti, si trova il bandolo della matassa che è sempre lo stesso: lavoro sottopagato, sotto qualificato, contenimento dei costi che vuole dire sorvolare su garanzie elementari, drammatici conflitti di interesse tra chi dovrebbe controllare e l'azienda che esegue i lavori.
Sarà così anche stavolta? Si. È una storia già vista migliaia di volte, e sappiamo che è così sempre!
Perché, quando comanda la regola del profitto, non la regola del giusto profitto, le regole di umanità perdono vigenza e valore.
E così, questa volta ci sono voluti cinque giorni per individuare tutti i cadaveri; non per recuperarli, solo per individuarli. L’ultimo cadavere lo si è recuperato solo quando si è riusciti a sbriciolare il tanto cemento che lo avvolgeva.
Quella di Firenze, vedete, è una tragedia che ci riguarda, che ci riguarda da vicino; non che le altre non ci riguardassero da vicino ma qui è coinvolta un’azienda che seguiamo, un negozio dei tanti nei quali proviamo a migliorare le condizioni di chi ci lavora, che avremmo provato a sindacalizzare, probabilmente anche riuscendoci, nel quale avremmo eletto una nostra rappresentanza.
Ci saremmo arrivati senz’altro; ma c’è un tema in realtà più generale che ci riguarda, che riguarda il sindacato nel suo complesso e la Cgil in particolare: ci sono delle situazioni nelle quali potremmo e dovremmo arrivare prima.
Quante volte parlando di salute e di sicurezza, di appalti, di precarietà, di condizioni di lavoro disperate, ce lo siamo detti: inclusione, contrattazione di sito, di filiera, d’anticipo, termini ormai logori nelle nostre discussioni di anni e anni, a volte senza neanche renderci conto che in realtà soprattutto di vite umane, si stava direttamente o indirettamente parlando.
E quando la tragedia ti è più vicina, le riflessioni e le sollecitazioni che ti poni, e lo fai veramente senza retorica, sono più dirette, immediate e anche meno indulgenti.
Ecco allora quella che deve essere, da oggi, una nostra nuova missione e una chiamata alla responsabilità e all’azione. Dobbiamo porre e porci con forza queste domande:
1. Potremmo fare di più e meglio di quel che facciamo per impedire le tragedie all’ordine del giorno?
2. Potremmo prestare maggior attenzione?
3. Se tra di noi, se nel rapporto tra categorie, se nel perimetro confederale avessimo discusso, discutessimo con maggior concretezza, con maggior consapevolezza, con maggior convinzione, di ciò che accade ogni giorno negli appalti e delle condizioni drammatiche di chi ci lavora oggi qualcosa andrebbe diversamente?
Non a Firenze, o meglio non solo a Firenze; a Torino, a Venezia, a Roma, a Napoli, a Bari, a Palermo, ovunque nel Paese. Forse sì, oggi qualcosa andrebbe diversamente e qualche tragedia avremmo potuto contribuire ad evitarla, potremmo contribuire ad evitarla. Forse qualcuna delle quasi 1500 morti sul lavoro del 2023, delle circa 200 tra gennaio e febbraio del 2024, delle quattro ogni giorno, la si sarebbe potuta evitare, la si eviterebbe.
Non mi riferisco evidentemente tanto o solo all’appalto delle costruzioni dell’Esselunga di Firenze, ma alle migliaia e migliaia di appalti di servizi e di lavoro e di quanto fatichiamo a discutere delle condizioni di chi ci lavora, senz’altro con le imprese, e questo forse è comprensibile, ma anche tra di noi, nel rapporto tra categorie, tra chi segue le aziende committenti e chi quelle in appalto, tra chi rappresenta il lavoro povero e precario e chi, almeno allo stato, quello garantito.
Non c’è documento congressuale, contrattuale, organizzativo, programmatico, gestionale, di intenti, che tenga da questo punto di vista, tanto se ne è discusso, tanto se ne discute, tanto poco si è riusciti e si riesce ad essere conseguenti.
Però per chiarezza, ne ragioniamo noi, perché, se non lo facciamo noi, se non lo fa la Cgil, non lo fa nessun altro.
E allora, a partire da questo dato di fatto, diciamo anche che è giunto il momento di rimettere in ordine le parole, e poi di rimettere in ordine le cose. Dobbiamo costringere l’intera società italiana, dalla politica all’informazione, dalle associazioni di categoria alle istituzioni, a guardarsi dentro e a dirci da che parte sta.
La questione della sicurezza sul lavoro deve diventare la nuova questione nazionale. Non è un tema a cui devono guardare solo le donne e gli uomini del sindacato. Perché su questo, e non solo su questo, la politica e le istituzioni ci hanno lasciati soli – pur sempre in compagnia del presidente Mattarella che da anni cerca di far sentire la sua voce, ma di fatto soli.
Le cose, dunque, si metteranno in movimento solo se riusciremo a rompere questa catena di isolamento e questa congiura del silenzio. Dobbiamo dire no al lavoro come condanna, come abuso, come morte annunciata. Perché i controlli, le regole, la cultura della sicurezza vengono sempre prima o prima dovrebbero venire.
Non la stiamo ponendo su un piano di eccesso di responsabilizzazione, chi lo dovrebbe fare non lo ha fatto, chi ne avrebbe la responsabilità, non lo sta facendo, difficilmente lo farà, se non quasi costretto.
E quindi le questioni sono due: la prima, fare in modo tale che chi è negligente, disattento, approssimativo, giocando con la vita delle persone, spesso con colpa e talvolta pure con dolo, smetta di esserlo, la seconda che noi, la Cgil tutta, si faccia di più e meglio di quel che stiamo facendo.
Responsabilità del Governo: ci sono, e sono tante perché i primi titolari della politica nazionale sembrano più una classe di scolari distratti che una classe dirigente. Sono più impegnati a definire le tattiche e gli aggiustamenti dei loro giochi elettorali che non a fare il loro lavoro. Li abbiamo trovati sempre assenti tutte le volte che abbiamo rappresentato le nostre ragioni su contratti e aumenti salariali e li troviamo sempre colpevolmente latitanti di fronte al tema della sicurezza.
Responsabilità delle imprese e delle associazioni datoriali. Anche queste ci sono, sono tante e non ce ne stupiamo, perché chi per anni si è sottratto alla contrattazione, alla regolarità, al riconoscimento della dignità del lavoro, non puoi aspettarti che si interessi delle condizioni di sicurezza o di insicurezza in cui quel lavoro stesso si svolge.
Chi è cieco verso i contratti lo è anche verso gli incidenti sul lavoro.
Chi è sordo rispetto alle parole dei lavoratori lo è anche rispetto alle grida di dolore di chi piange i morti sul lavoro.
Chi si volta dall'altra parte quando lo si richiama a regole di convivenza elementare si troverà sempre con le spalle voltate anche rispetto a chi muore.
Chi non è datore, ma sfruttatore di lavoro, ovviamente trae il suo profitto anche da quella stessa caotica e perdurante assenza di regole e di controlli che genera incidenti e morti sul lavoro.
Diciamolo e su questo teniamo il punto, perché su questo dovremo lottare: chi è sfruttatore non è solo il complice. È il mandante di questo orribile e continuato omicidio collettivo a danno delle lavoratrici e dei lavoratori.
Ecco perché la questione della sicurezza ci riguarda. Se sapremo riportare al centro del Paese la questione del lavoro, si determinerà un cambiamento anche sulla questione della sicurezza. Le due cose stanno insieme, perché sono le due facce della stessa medaglia.
Ora, provando adesso a definire le priorità in agenda, sono diversi gli argomenti che dovremo affrontare in termini ravvicinati, alcuni, sul piano dell’urgenza, già nelle prossime ore e nei prossimi giorni; argomenti in un modo o nell’altro in stretta correlazione tra di loro e sintetizzabili nel titolo tripartito “Contratti, mobilitazioni, politiche del terziario”.
La prima questione riguarda la situazione di emergenza contrattuale della categoria, anche in considerazione degli sviluppi degli ultimi giorni.
La seconda questione riguarda i termini di prosecuzione della mobilitazione di iniziativa confederale alla luce delle determinazioni prese nel corso dell'Assemblea generale Cgil.
Ce lo siamo detti più volte, è stato un anno intenso, la Filcams si è assunta la responsabilità, e lo ha fatto convintamente, di affrontare due piani di mobilitazione distinti ed entrambi impegnativi; il nostro categoriale, delle categorie del terziario, e quello di iniziativa confederale.
Credo, ce lo dobbiamo riconoscere, a costo di renderla didascalica: la tenuta della categoria è stata straordinaria, l’impegno e gli sforzi sono stati massimi, i risultati sono andati ben al di là di ogni aspettativa e previsione.
Si tratta ora evidentemente non soltanto di non arretrare, e neanche di stare fermi, ma di andare avanti piuttosto!
In una fase cruciale, delicata, drammatica per la nostra vertenza, per le nostre vertenze di categoria come per la vertenza più generale di iniziativa confederale, non ci sarebbe nulla di meno indicato che, rispetto alla nostra condotta, si potesse intravvedere anche soltanto una parvenza di incertezza, di indecisione, di scarsa convinzione.
O peggio ancora, di divisione o di disarticolazione al nostro interno, salvo che, poniamola però come condizione, priva di qualsiasi strumentalità e volta comunque a trovare con trasparenza e linearità una sintesi, sempre e comunque, preservando sia la sostanza, naturalmente, che la forma.
Per dirla tutta, essendo la discussione nota, il tema non è referendum sì o no, o quanti quesiti referendari o quante proposte di legge di iniziativa popolare.
Il tema è come affrontare una fase, straordinaria, inedita, senza precedenti nella sua gravità.
Il tema è essere nelle condizioni di sostenere una nostra reazione rispetto a quanto sta succedendo nel Paese in generale e nei nostri settori in particolare.
Il tema è di non perdere di credibilità nel rapporto con milioni di persone, di essere in grado di avanzare una nostra visione, una nostra proposta, una nostra prospettiva.
Il tema è di lottare, con tutti gli strumenti - leciti naturalmente - a disposizione, per una nostra alternativa di Paese, di società, di lavoro.
Ci mancherebbe solo che ad un certo punto ci si ritrovasse a discutere di referendum e del loro numero, quasi dimenticandosi del numero di lavoratrici e di lavoratori coinvolti nelle nostre vertenze.
E allora, è questo il senso di un’operazione politica di portata più generale e del ricorso a più strumenti su cui strutturarla.
E così se, con ogni probabilità, più difficilmente ricorreremo alla leva contrattuale, considerato lo stato della negoziazione nei nostri settori, rispetto a quella del contenzioso, tenderei però a evidenziare che le tematiche, le questioni, la sostanza per intenderci, individuate rispetto ai quesiti referendari e alle proposte di iniziativa popolare sono tra le priorità dell’agenda politica della Filcams.
E ci si potrebbe spingere anche a dire che identitario non deve, non dovrebbe essere il singolo referendum, ma semmai l’operazione politica nel suo complesso e la lettura, la declinazione e l’attuazione che se ne dà.
Referendum su precarietà del lavoro, appalti, licenziamenti, i temi individuati rispetto alla proposizione di leggi di iniziativa popolare, l’impostazione complessivamente perimetrata nell’ordine del giorno approvato nell’ultima assemblea generale della Cgil: sono queste le direttrici atte a definire la nostra identità nella gestione della fase.
La terza questione si riconduce a ciò che potrebbe essere definito come la rifondazione, la riedificazione, il rinnovamento delle nostre politiche di categoria: dalle politiche di comparto e settoriali alle politiche del terziario nel suo complesso, avviando la discussione dalla ormai consueta tripartizione distribuzione e commercio, filiera del turismo, della ristorazione e della cultura, appalti, ma non escludendo articolazioni o declinazioni differenti che ci consentano di adeguare la nostra discussione alle novità, agli sviluppi, alle innovazioni, alle trasformazioni che stanno caratterizzando la fase.
Attraverso una modalità che sia la più partecipativa possibile, coinvolgendo delegate e delegati, provvederemo nelle prossime settimane, nei prossimi mesi all’elaborazione di piattaforme, documenti, programmi (troveremo, avviando la discussione, la forma più idonea) che evidenzino e consegnino le nostre priorità, le nostre posizioni, le nostre proposte, le nostre richieste, in un rapporto più strutturato, più compiuto, più organico con le altre categorie e con la stessa Confederazione ma anche con i sindacati internazionali, con le istituzioni e la politica, con l’opinione pubblica, con l’informazione.
Un atto di apertura da parte nostra, di disponibilità al dialogo e al confronto nei riguardi di un Paese che prova, al di là delle tante strumentalità, a parlare di lavoro povero e precarietà e al lavoro povero e alla precarietà non conoscendolo e non comprendendone in realtà granché.
C’è poi un’ultima questione rispetto alla resa operativa di alcune deleghe trasversali che ci siamo presi l’impegno di definire nel recente riassetto degli incarichi in seno alla struttura nazionale.
La fase politica e sociale che il Paese sta attraversando impone anche a noi, alla Filcams tutta, un’ulteriore assunzione di responsabilità su tematiche, questioni, problematiche che pur non riconducibili al nostro usuale ambito di azione sono in realtà in stretta correlazione con il senso del nostro agire quotidiano.
Sono troppi ormai i segnali che c’è una volontà, neanche tanto celata, di una parte rilevante della politica e delle istituzioni, di attuare un cambiamento nel nostro Paese e di certo non in meglio.
Ne sono riprova, ce ne fosse necessità, ancora negli ultimi giorni, le ennesime aggressioni a studentesse e a studenti, giovani, giovanissimi peraltro, che manifestavano pacificamente e che si sono assunti con coraggio, con forza e con convinzione, responsabilità che non si assume chi invece dovrebbe.
E non ci meraviglia che nel silenzio collettivo dei banchi del Governo, sia arrivato puntuale, ancora, il richiamo del presidente Mattarella: “I manganelli contro i ragazzi esprimono un fallimento” ha detto il Capo dello Stato. Noi lo ringraziamo per aver fatto sentire la sua voce, dando un altolà a derive e comportamenti autoritari del Governo e dei suoi sostenitori. Ma purtroppo pensiamo che i manganelli non esprimano solo un fallimento. Esprimono una intera cultura, una visione del potere, e purtroppo anche un disegno e un progetto autoritario.
E dunque facciamo attenzione, compagne e compagni: sappiamo che si comincia dai giovani inermi e, se non reagiamo, presto si attaccheranno i presidi di piazza e dei luoghi di lavoro.
Noi abbiamo memoria storica, in un Paese smemorato per ignoranza o per calcolo, e sappiamo che tutto questo, se e quando avverrà, non avverrà per caso.
Oggi vediamo un Ministro dell’Interno che finge di rammaricarsi, e dice che farà accertamenti per vedere se vi sono stati eccessi nell’uso della forza in piazza. Ma sappiamo bene che non è così e non è mai stato così: i comportamenti delle forze dell’ordine sono sempre un termometro, o meglio un barometro che ci dice dove sta andando un Paese.
E il nostro non sta andando bene per niente, proprio per niente. È nostro irrinunciabile dovere segnalarlo, denunciare, mobilitarci, lottare.
Ecco perché rispetto a quello che sta accadendo, noi riteniamo non si possa rimanere in silenzio, non si debba rimanere in silenzio, a partire da noi, dalla Filcams.
Convocheremo in tal senso, prima dell’estate, compatibilmente con i tanti impegni già programmati, una prima tornata di coordinamenti per condividere anche con le delegate e i delegati e in raccordo con la Confederazione, le linee di una nostra azione in ordine ai quattro ambiti delle:
1. Politiche della memoria, per la difesa della Costituzione e la salvaguardia dell’antifascismo. Cominciamo da qui, perché, è così che si chiama: non è “anti-post-fascismo”, scusate la licenza. Se i comportamenti, gli alibi, le connivenze, i silenzi delle istituzioni tollerano di fatto i costanti riferimenti al fascismo, se centinaia di saluti romani in piazza a Roma vengono osservati a distanza e lasciati correre come se fossero una ragazzata, allora è ora di rimettere al centro della nostra democrazia, prima che sia troppo tardi, l’antifascismo.
2. Politiche dei diritti alla migrazione, dell’intercultura e dell’antirazzismo. Perché questo Paese non ha un progetto, non ha un programma di inclusione, ama raccontarsi plurale ma è chiuso e rancoroso, non si confronta né con la sua storia passata, né con il presente. E non progetta il futuro. Prima che deflagrino conflitti sociali e ferite insanabili come già sta avvenendo in altri paesi d’Europa, occorre un lavoro di presidio, di vigilanza, di denuncia.
3. Politiche dell'intersezionalità, di genere, delle pari opportunità, dei nuovi diritti e della non discriminazione lgbtqia+. Questo è un campo di maturazione culturale e civile immenso: non possiamo delegarlo alla politica, che se ne fa gioco, né lasciare che siano i soggetti deboli e discriminati a occuparsene da soli, per cause di forza maggiore. Ci riguarda e ci interroga per il concetto stesso di dignità e di umanità che affermiamo ogni giorno.
4. Politiche antiabiliste per l’autodeterminazione dei disabili e della non autosufficienza. Dove ci sono disabilità, che di fatto disabilitano alla partecipazione sociale e civile, il mondo del lavoro e dei servizi deve farsi sempre più presente, mettere in campo le sue progettualità e la sua cultura inclusiva.
Tornando, come anticipato, infine, alle nostre vicissitudini contrattuali.
Dei passi avanti sono stati fatti. E una parola viene alla mente: tenacia. Ci sono tantissime citazioni filosofiche che si potrebbero fare sulla tenacia come virtù, come forza dell’animo e del carattere, come determinazione.
La nostra tenacia, la tenacia delle delegate e dei delegati, e la passione, è quello che ci sta permettendo, passo per passo, di avanzare in questi mesi.
Bisogna essere molto indignati, ma anche un po’ folli e innamorati del proprio lavoro, per fare quello che abbiamo fatto in questi mesi.
Negli ultimi giorni, lo ricordo, abbiamo sottoscritto due accordi importanti che rappresentano senz’altro un passo avanti rispetto allo stato; il primo, l’accordo di adeguamento salariale del contratto della vigilanza privata e dei servizi di sicurezza, il secondo, il rinnovo del contratto degli studi professionali.
Essendo pervenuti alla sigla condividendone con gradualità gli sviluppi, mi limito a dire che entrambe le intese hanno prodotto avanzamenti di indiscutibile rilevanza e, in particolar modo rispetto al primo, ci pare di poter dire che la categoria e l’organizzazione tutta escono finalmente da una situazione di notevole sovraesposizione, senz’altro contrattuale ma anche politica e mediatica che ci ha accompagnato con una certa assiduità dal 2013 in poi.
Dai 17 rinnovi in fase di rinegoziazione a questo punto, con un po’ di conforto, ne possiamo sottrarre due, ma la strada è ancora lunga e impervia, è innegabile. E quindi, ancora una volta, perseveranza: celebriamo sì il buon lavoro svolto, ma continuiamo il cammino a passi spediti.
Gli esiti degli incontri affrontati con le associazioni datoriali del terziario nel corso del mese di febbraio e l’indisponibilità ormai manifesta di quelle del turismo e della ristorazione anche soltanto a programmare incontri non lasciano adito a grandi aspettative.
Le settimane trascorse non hanno consentito – se la volessimo attenuare dovremmo dire la maturazione di sviluppi sostanziali rispetto alle trattative, se la volessimo dire tutta, per quella che è – non hanno consentito, ancora una volta, la necessaria assunzione di responsabilità delle controparti.
Dobbiamo prendere definitivamente atto – ma che dire, non è che l’ennesima conferma – di quanto associazioni datoriali e imprese dei nostri settori siano inaffidabili, scriteriate, negligenti, disgraziate e disgrazianti, anche in una situazione delicata, drammatica, cruciale come quella attuale; la valutazione di sintesi della fase post mobilitazione e post 22 dicembre non può che essere questa.
Una puntualizzazione ulteriore però, di quelle che rimangono tra di noi: in un contesto negoziale così delicato, serio, drammatico sarebbe quantomeno utile e senz’altro apprezzabile, al di là di valutazioni che attengono all’opportunità, che tutti quanti, almeno nel perimetro confederale, ci si muovesse con attenzione, con cautela e soprattutto con coerenza.
Detto con estrema franchezza, mentre la Filcams si mobilita, lotta, sciopera per il rinnovo dei propri contratti nazionali non c’è nulla di più discutibile che altre categorie ritengano di poter ampliare, rispetto a comparti del terziario, a nostri comparti, la sfera di applicazione dei loro contratti o addirittura di sottoscriverne di nuovi a condizioni salariali e normative peraltro peggiori rispetto a quelle per le quali la categoria si sta mobilitando, sta lottando e sta scioperando.
Saremo chiamati nei prossimi giorni, non oltre la metà del mese di marzo, a quadro compiuto, a prendere nuovamente delle decisioni; anche nel rapporto con Fisascat e Uiltucs evidentemente, il mantenimento di un’impostazione unitaria continua a rappresentare aspetto imprescindibile nella gestione della vertenza.
Certo è che se il contesto si dovesse confermare questo e salvo sviluppi sostanziali e inattesi, siamo nell’ambito di una inevitabile prosecuzione della mobilitazione.
Ne siamo consapevoli, la comunicazione in primo luogo nel rapporto con le delegate e i delegati, con le lavoratrici e i lavoratori, in una situazione così complessa e articolata non è stata, non è, non sarà semplice e la frequente diversificazione, al momento “gestita”, delle posizioni di parte sindacale certo non semplifica la diffusione di informazioni e aggiornamenti che dovrebbe essere più tempestiva e più fluida.
In tal senso, rispetto alla gestione della fase, abbiamo valutato come segreteria nazionale, l’utilità e l’opportunità di convocare tra l’11 e il 15 marzo attivi settoriali, nessun settore escluso, rivolti in primo luogo a delegate e delegati, che consentano la più ampia partecipazione.
Ad ogni modo, cominciamo in termini sempre più stringenti a considerare transitoria e straordinaria la fase che abbiamo attraversato e stiamo ancora attraversando, cominciamo a ipotizzare un ritorno graduale ad una nostra ordinarietà, fatta di trattative, riunioni ed incontri puntualmente alla presenza di delegazioni.
Il progressivo rinnovo dei contratti deve essere accompagnato dall’uscita strutturale da uno stato di continua emergenza contrattuale.
E per dirla tutta, non stiamo lavorando solo alla rinegoziazione della contrattazione nazionale, lo stiamo facendo anche per arrivare alla definizione di un nostro modello contrattuale e di rappresentanza che ci consenta di rinnovarla la contrattazione in tempi e modi congrui, secondo un quadro regolatorio di riferimento che oggi è del tutto assente. Perché assenti sono le istituzioni, gli organi legislativi, la classe dirigente che dovrebbe garantire le regole del gioco.
Nei prossimi mesi dovremo farci sentire, sugli organi di informazione e sui social.
Dovremo farci sentire dalla politica, da quello che resta delle associazioni datoriali, dalla società civile.
Dovremo creare le condizioni per cui negli anni a venire non sembri un’eccezione, ma anzi una norma democratica condivisa, che un contratto in scadenza si ridiscuta in tempi ragionevoli, si aggiorni e si porti a rinnovo.
Questa sarà una lunga e complessa fase di maturazione culturale, anche per noi: non dovremo farci contagiare né dall’emergenzialismo della politica, che risolve tutto con colpi di spugna, decreti e proroghe, né dal pressappochismo ormai conclamato della parte datoriale.
Dovremo tenere dritto lo sguardo e il cuore verso i nostri obiettivi di medio e di lungo periodo, come abbiamo saputo fare in questi mesi di mobilitazione, senza scoraggiarci neanche nei momenti di buio, quando le lavoratrici e i lavoratori stessi si chiedevano se ce l’avremmo fatta.
Rappresentiamo milioni di donne e di uomini, incarniamo idee e ideali di rispetto e di giustizia, abbiamo senso del dovere oltre che profonda coscienza dei nostri diritti.
Per questo possiamo stare certi che il futuro del Paese ci vede e ci vedrà protagonisti di passaggi cruciali e irrinunciabili.
Una sorta di cattiva interpretazione della società liberale e del suo destino storico a senso unico anni fa diceva che, con la sconfitta delle organizzazioni e dei partiti che rappresentavano le classi popolari, anche la rappresentanza e il sindacato erano destinate a diventare un ricordo nella soffitta della storia.
Ma non è stato e non sarà così.
Oggi più che mai c'è bisogno della passione e del lavoro di chi il lavoro lo rappresenta, lo narra, lo riafferma come momento fondante della civiltà.
Oggi c'è bisogno di noi, e risponderemo giorno per giorno a questa chiamata.
Gli esperti di sostenibilità ci dicono che possiamo, anzi dobbiamo immaginare un pianeta che vada avanti senza gas e petrolio. Ma non possiamo e non dobbiamo certo immaginare un pianeta che vada avanti senza tutele, sicurezza, inclusività, in una parola: senza umanità del lavoro.