L’iniziativa sulle liberalizzazioni degli orari commerciali

Vorrei, innanzitutto, ringraziare a nome della segreteria nazionale, le compagne e i compagni di tutte le strutture provinciali e regionali che in queste settimane hanno dato vita alle iniziative sulle liberalizzazioni degli orari commerciali, culminate domenica 4 marzo, giornata europea per la difesa della domenica quale giornata di riposo dal lavoro.

Evito citazioni, per non correre il rischio di dimenticare qualcuno, ma avrete seguito attraverso le notizie riportate dal sito, l’impegno profuso da tante strutture.
Domenica è stata un’altra giornata importante, poiché ha visto la mobilitazione unitaria di tutta la categoria, con presidi e iniziative di piazza, che hanno contribuito a diffondere le ragioni della nostra mobilitazione. Questo ci ha consentito di riportare all’attenzione dell’opinione pubblica una problematica che ha trovato poco spazio nella discussione di queste settimane e di ridare voce ad una parte del nostro mondo che non si è sentita rappresentata da chi ha pensato di liberalizzare gli orari commerciali per salvare l’Italia!

Abbiamo già discusso di questo nella precedente sessione del Direttivo. E’ sufficiente, in relazione al merito della questione, ribadire che le settimane successive si sono incaricate di confermare la fondatezza delle nostre critiche, soprattutto rispetto alle due motivazioni principali che hanno supportato il provvedimento contenuto nell’art.31 della manovra. Era fin troppo facile prevedere che non sarebbero aumentati i consumi, né sarebbe cresciuta l’occupazione. I consumi sono rimasti al palo, poiché i redditi, che sono la leva dei consumi, sono rimasti al palo, anzi, hanno registrato una ulteriore caduta. Nel nostro caso non si può molto filosofeggiare, perché gli scontrini di cassa a fine giornata battono l’inesorabile sentenza. Una sentenza che spiega perché non può crescere l’occupazione. L’incremento dei costi del lavoro domenicale non sono recuperabili con gli incassi domenicali e questo impone alle aziende di fare con quello che c’è, caricando sul personale attualmente in forza le conseguenze.

Naturalmente, la nostra iniziativa ha teso a unire il significato sindacale di questa battaglia, con quello culturale, che nel riconoscere il valore della domenica quale giornata principale di riposo dal lavoro, ha voluto rilanciare una riflessione sul modello di vita e di sviluppo incentrato sul disorientamento al consumo, ovvero, sul consumismo di massa, sganciato dalla capacità di ripensare criticamente le scelte sbagliate che si è continuato a sostenere fino ad oggi.

Poiché siamo di fronte alla necessità di dare continuità a questa iniziativa, prefigurando una fase due della campagna nazionale La Festa non si vende, dobbiamo fare un bilancio obiettivo di quanto prodotto e raccolto fino ad oggi, guardando con coraggio alle criticità emerse.
Dobbiamo ammette di non essere in grande compagnia in questa battaglia!
Al netto di una situazione differenziata, che ha visto una diversa articolazione nel coinvolgimento della società politica ed istituzionale, dobbiamo registrare:
Questo quadro, abbastanza impietoso, dobbiamo averlo bene in mente, se vogliamo dare un senso allo sviluppo della nostra iniziativa, che nel breve e medio termine non può non puntare a creare quel movimento di opinione utile ad offrirsi come contesto entro il quale maturerà il pronunciamento della Corte Costituzionale, previsto entro il mese di giugno.
Naturalmente, la Corte Costituzionale non potrà che farlo in piena autonomia, ci mancherebbe altro. Ma, tra farlo nel deserto totale e farlo in un contesto che cerca di spiegare, di dimostrare al Paese le ragioni per le quali è giusto che sia il livello territoriale a determinare la scelta delle aperture, pensiamo sia meglio che lo faccia potendo riflettere, ricercando il senso più autentico della ratio legislativa, che ha collocato la materia in capo al titolo V della Costituzione.
Tra l’altro, noi che non siamo costituzionalisti, non riusciamo ancora a spiegarci come si possa sostenere che l’art.31 sia di competenza governativa, perché ispirato alla libera concorrenza, dal momento che rende un piacere agli interessi monopolistici della grande distribuzione e per questo totalmente avversato dal resto della rappresentanza associativa.

In ogni caso, l’iniziativa che dobbiamo mettere in campo serve per allenare le truppe per quello che ci attenderà una volta che su questo capitolo andremo definitivamente a regime.
Come sempre, dobbiamo guardare ai due lati della medaglia, quello eminentemente sindacale, con le ricadute sul piano contrattuale e quello più generale, che definiamo la battaglia culturale, sui modelli di vita e di consumo.
Sul primo aspetto, tornerò tra breve, parlando del capitolo sulla contrattazione.

Voglio concludere su questo primo capitolo, con alcune considerazioni relative proprio ai contenuti culturali di questa battaglia.
La scarsa reattività dell’opinione pubblica ai contenuti della nostra iniziativa la dice lunga sui fenomeni di contaminazione culturale subiti dalla nostra società. Dobbiamo essere sinceri, anche in casa nostra non registriamo tutto questo trasporto motivato, che sia la Cgil, o i partiti (PD o SEL). Siamo noi fuori dal mondo? Siamo affetti da velleitarismo pedagogico in questa sorta di battaglia di rieducazione al consumo?
Siamo stati tentati dall’idea di fare un rapido e semplice questionario anonimo in occasione dell’assemblea straordinaria delle Camere del Lavoro di ieri, per interrogare il nostro quadro dirigente sulla condivisione di questa battaglia, poi abbiamo rinunciato (non so se per non demoralizzarci troppo…).
Il fatto è che non è semplice scrollarci di dosso l’idea di essere stati ed essere promotori di una causa persa. Eppure, per noi, porro questo tema di un nuovo modello di sviluppo del consumo è tema che appartiene pienamente alla battaglia che stiamo facendo per “salvare l’Italia”.
Ancora ieri, Susanna Camusso ribadiva che il problema non è solo quello delle misure socialmente eque, ma soprattutto quello di misure utili a rilanciare il Paese, a farlo crescere economicamente e per fare questo non si possono non percorre strade diverse da quelle che lo hanno portato al fallimento nei principali settori strategici. E quello del consumo è uno dei settori strategici, una delle leve fondamentali di una economia.

E, soprattutto, alla domanda “salvare l’Italia per quale idea di società, di Paese?”, non solo noi vogliamo dare una risposta, ma se non la diamo oggi, in questo momento, quando possiamo darla?! Adesso è il momento per fare le scelte che diano un senso all’opera di ricostruzione. Rispondendo ai giornalisti che la intervistavano davanti al Centro Commerciale di Cinecittà Due, domenica Susanna sosteneva che l’idea di indicare agli italiani il centro commerciale quale principale offerta di consumo relazionale, del tempo di vita nel tempo di riposo, non è la nostra scelta, perché abbiamo un’idea diversa di società. Questo non significa limitare la libertà degli italiani di recarsi con tutta la famiglia nei centri commerciali la domenica. Non possiamo che essere molto tristi e preoccupati per quei bambini o per quei giovani che vi si recano, ma non possiamo impedirlo.
Il problema è un altro, quello dell’assenza di alternative, perché l’offerta alternativa, di un consumo alternativo, che investa sul tempo libero, sulla cultura, sullo sport di massa, non esiste, eppure, anche questi sono settori che danno lavoro e aiutano a far crescere il Pil. L’aspetto culturale della battaglia è profondamente legato a quello economico e produttivo.
Non so se potrete riascoltare il confronto radiofonico che Radio 24 ha organizzato ieri con Cobolli Gigli, nel corso di una rubrica. Incalzato dalle obiezioni sulla inutilità delle aperture totali, soprattutto in regime di profonda crisi dei consumi, che dimostrano che il gioco non vale la candela, il Presidente di Federdistribuzione ha enunciato una tesi a dir poco inquietante. E cioè, che tenere aperti i centri commerciali anche la domenica, in regime di crisi dei consumi, è un modo per dirottare i consumi, per metter il consumatore di fronte alla possibilità di rinunciare al cinema, al teatro, alla scampagnata o quant’altro, per destinare quella esigua somma rimasta al consumo di un bene commerciale.
Gli altri battaglia culturale la fanno, altroché! Non vedo, dunque, per quali ragioni noi dovremmo abdicare, lasciare campo libero, tanto più che su quel terreno potremmo avere molta più occupazione di quanto ne porti la liberalizzazione degli orari commerciali.

Nei prossimi giorni, chiederemo a Fisascat e Uiltucs la disponibilità a dare seguito unitariamente alle iniziative sul tema delle liberalizzazioni. Resta inteso che se ciò non fosse possibile, la Filcams proseguirà, chiedendo sempre più il coinvolgimento della Cgil. Naturalmente, come sempre, cercheremo di farlo evitando ci compromettere là dove possibile il coinvolgimento delle altre organizzazioni sindacali territoriali, tanto più che col passare del tempo dovremo sempre più confrontarci e gestire le ricadute in termini contrattuali, sulle quali tornerò in seguito.

Il coinvolgimento della Cgil è importante anche perché rischiamo che questa diventi una guerra tra poveri. Cresce il numero delle nostre lavoratrici e lavoratori, costretti a lavorare la Domenica, che si chiedono perché gli uffici comunali no, perché no le poste, le banche, etc. dato che la Domenica non deve più essere la giornata di riposo dal lavoro universalmente riconosciuta.


Il tavolo del confronto col Governo

Sul confronto col Governo le compagne ed i compagni hanno appreso dalle ripetute comunicazioni della Cgil lo stato dell’arte. Questo mi consente di non dilungarmi, evidenziando i temi che risultano più attinenti alla categoria, approfittando anche del fatto che la presenza di Fulvio, coinvolto in prima persona a quel tavolo, ci consentirà di avere aggiornamenti e valutazioni precise e dettagliate.

Come sapete, dopo la prima parte della manovra del Governo, sulla quale abbiamo già espresso i giudizi noti (il tema delle pensioni per noi non è chiuso!), adesso si tratta della riforma del mercato del lavoro, operazione che il Governo sostiene di voler chiudere entro questo mese.
Anche in questo caso ci sono aspetti condivisibili, ed altri sui quali non possiamo che marcare il nostro dissenso. Anche in questo caso, il confronto è accompagnato da una sequela di luoghi comuni e di pregiudizi che non aiutano un confronto obiettivo e utile.
La parte che non può non essere condivisa è la volontà del governo di combattere il precariato. E’ la nostra battaglia da anni, figurarsi se non è la nostra battaglia.
Ovviamente, combattere il precariato significa innanzitutto mettere ordine nella giungla delle tipologie contrattuali, che negli ultimi vent’anni hanno costituito il pianeta della flessibilità in entrata.
In un settore come il terziario non si può che sfondare porte già aperte. Dal praticantato alle associazioni in partecipazioni, con nel mezzo tutto quello che sappiamo, la nostra battaglia va avanti da tempo. Per cui, se la Ministra Fornero è davvero intenzionata a fare pulizia e giustizia in questo campo, non potrà che trovare il nostro consenso.

Naturalmente, non possiamo non registrare una certa schizofrenia nel modo di procedere del Governo. Sarà scarsa vocazione al confronto o tanto piglio decisionista, che porta a dire si fa anche senza le parti sociali, e già questo è un problema. Ma la linearità del confronto è cosa indispensabile, diremo una precondizione. Non si può al mattino sostenere che bisogna chiudere con la pratica degli associati in partecipazione, perché dalla porta del confronto bisogna far uscire tutte le tipologie che producono la flessibilità “non buona”, e alla sera far rientrare dalla finestra gli interinali, senza dire nulla a nessuno. Ne va della credibilità degli interlocutori.

Affrontare il nodo della precarietà è come mettere un dito nel vespaio e le pressioni sono immaginabili. Ma il precariato non è nato casualmente. La favola che l’ampio ventaglio delle flessibilità avrebbe portato a più occupazione stabile è durata poco. Non ci voleva molto a capire che la flessibilità in entrata sarebbe diventata la leva principale che le imprese avrebbero azionato per fare della riduzione del costo del lavoro la loro principale strategia competitiva, abbandonando il terreno della ricerca e dell’innovazione.
Dire oggi alle imprese che quella leva non può più agire come prima significa prospettare al sistema delle imprese la necessità di spostare su altri terreni la ricerca di nuove strategie competitive. Non solo nuove politiche fiscali a sostegno dello sviluppo, ma nuove strategie di sviluppo, nuove politiche industriali, una nuova qualità della spesa pubblica, finalizzata a rimettere in moto il motore dell’economia.
Per fare un esempio, sabato si è svolta a Roma la manifestazione nazionale unitaria dei sindacati delle costruzioni. Lì hai poco da dire che vuoi combattere la precarietà se non metti in campo nuove politiche di sviluppo settoriale, dai settori infrastrutturali a quelli della bioedilizia.
Devi avere il coraggio di dire alle imprese che non è più risparmiando sul lavoro che puoi competere. Non è più tirando il contratto di apprendistato a 4, 5, magari 6 anni che puoi conquistare i mercati.

Su questo, quindi, siamo d’accordo, soprattutto là dove si sostiene che il deficit di formazione è uno degli handicap principali del nostro sistema. E da questo punto di vista è giusta una revisione del contratto di apprendistato, come pure una riforma e un rilancio della funzione della formazione interprofessionale, finalizzata ai processi di riqualificazione.

Per tutto questo risulta alquanto stucchevole la polemica sull’articolo 18. Un Governo di professori non può non sapere che non esistono relazioni scientificamente provate tra l’esistenza dell’articolo 18 e i principali fenomeni che frenerebbero la crescita delle imprese e dell’occupazione. Il tema è puramente ideologico, la contropartita da pagare per poter mettere mano sulla flessibilità in entrata. Ma noi non siamo d’accordo che si proceda in questo modo, perché se l’operazione di riforma del mercato del lavoro deve essere vera, non può essere inquinata da falsi problemi.
Per questo abbiamo detto che l’art.18 non è tema in discussione e non si tratta di totem, di tabù o quant’altro, ma di semplice rigore e coerenza.
Altro è dire che un lavoratore o una azienda non possono attendere anni per sapere qual è l’esito di una causa, questo è un problema di altra natura, che può essere affrontato, ma non può diventare un cavallo di troia per spazzare via una norma di civiltà, quello che resta il principale deterrente, non contro i licenziamenti discriminanti, ma contro l’uso del licenziamento per motivi economici, per gestire processi di riorganizzazione dell’impresa, perché questo è il vero obiettivo di quelle parte del sistema delle imprese (per fortuna non tutto) che chiede di superare l’art.18.

Evitiamo, quindi, di crearci fra noi problemi che non esistono, tanto più che rischieremmo di non essere capiti da tutto quel mondo fuori dalla portata dell’art.18, che si attende analoga o maggiore attenzione.
Se è giusto dire che non si possono dare diritti a chi non li ha, togliendoli a chi li ha già, abbassando il livello universale, allora è di questo che dobbiamo occuparci.

Ad esempio, della riforma degli ammortizzatori. Qui, il rischio che corriamo è evidente, perché l’idea del Governo di costruire un sistema universale delle tutele, facendo cassa su ciò che già esiste è fin troppo esplicito. Proposte ufficiali ancora non esistono ed il rinvio del tavolo per onesta ammissione di assenza delle risorse, già di per sé è un fatto positivo (questo la dice lunga sul livello delle difficoltà).
Il Governo sembrerebbe aver capito che le nozze con i fichi secchi non si può fare. Il problema è capire dove stanno i fichi secchi! Abbiamo detto che bisogna scavare di più sui patrimoni, sull’evasione. La risposta non può essere una riforma degli ammortizzatori che toglie uno strumento fondamentale, come la CIG per gestire le crisi aziendali, che abbassa le soglie di copertura a regime e che non rende chiaro il nesso tra nuovo sistema e politiche attive del lavoro.

Fulvio vi dirà con più precisione come stanno le cose e quali sono i rischi che corriamo. Noi dobbiamo contribuire all’azione della Cgil rappresentando con forza la richiesta di un settore poco tutelato, che non intende essere pagato ridistribuendo in famiglia ciò che già esiste, ma rivendicando un nuovo investimento per un più equo sistema di tutele.

Ieri l’assemblea nazionale straordinaria delle Camere del Lavoro ha deciso una fase di mobilitazione, che coinvolga i lavoratori attraverso assemblee, attivi, che contribuisca a costruire il clima necessario attorno al confronto col Governo, il cui esito non è per niente scontato.
Questa fase di mobilitazione deve vivere un crescendo ed è già partita con una serie di iniziative alle quali la Filcams ha dato il proprio appoggio. Il primo marzo lo sciopero dei trasporti, il 3 la manifestazione nazionale degli edili, il 4 quella nostra sulle domeniche, il 9 lo sciopero generale della Fiom, poi, l’iniziativa dei pensionati ed altre in alcuni territori significativi.
Dobbiamo mettere in campo una autonoma capacità di costruire coinvolgimento e consenso attorno alle nostre ragioni, in settori che non sono tutti uguali, pur misurandosi con analoghe difficoltà.
Per questo, anche in questo caso, eviterei di fare della Filcams palestra per nostre dispute tutte interne e distanti dalle condizioni reali del mondo che rappresentiamo.
Lo dico perché il 9 marzo noi parteciperemo alla manifestazione della Fiom, per rappresentare non solo la solidarietà con una categoria sotto attacco, ma per condividere alcuni obiettivi che sono propri alla nostra condizione, come quella della difesa del contratto nazionale e per la democrazia sindacale.
Ma da questo alla eventuale proclamazione dello sciopero il 9 marzo del nostro settore, da parte della sola Filcams, di strada ce ne corre! Sarebbe la pretesa di non volersi misurare con le difficoltà che stiamo cercando di gestire con grandi difficoltà; sarebbe cedere a logiche estranee al nostro lavoro, cercando scorciatoie che non vogliamo in alcun modo imboccare.

Riteniamo, invece, che la Filcams debba impegnarsi coerentemente, come già sta facendo, per essere parte attiva dell’impegno chiesto dalla Cgil a tutte le strutture e che ci renderà più forti, qualora nelle prossime settimane la Cgil dovesse essere costretta a decidere nuovi livelli di mobilitazione.


La contrattazione in categoria

Del resto, se da una parte dobbiamo guardare al tavolo del confronto col Governo, dall’altra dobbiamo guardare a ciò che accade nella nostra contrattazione, dove non siamo soli e dove non possiamo fare da soli.
Le questioni che vogliamo porre alla vostra attenzione sono tre.

Contratto Vigilanza privata
E’ del tutto evidente che la vicenda del Ccnl è profondamente connessa a quella del settore e dei suoi destini. La morte per inedia del Ccnl sarebbe l’effetto di una lenta consunzione dell’idea stessa di un settore del servizio di vigilanza privata così come l’abbiamo conosciuto in tutti questi anni.
Ragion per cui, la nostra posizione non può che essere “noi vogliamo un contratto perché vogliamo un settore”. Ovviamente, dobbiamo dire quale settore vogliamo e quale contratto vogliamo. Però, mettere in relazione i due corni del problema non può che renderci più forti, ci aiuta ad allargare il campo delle energie che possono essere mobilitate, per cercare le soluzioni anche agli aspetti sindacali e contrattuali.

La prima conclusione, dunque, è che nel giro di pochissimi giorni la Filcams deve progettare una iniziativa politica che consenta di offrirsi come scenario, come contesto, una iniziativa dove l’approfondimento dell’analisi sui processi che hanno investito il settore possa consentire l’individuazione di un terreno sul quale immaginare anche un riposizionamento strategico delle imprese.

Sicuramente, il tema della sicurezza delle e nelle città, è terreno sul quale noi possiamo mobilitare l’attenzione e l’interesse delle istituzioni, che può offrire anche in una veste diversa la funzione delle stesse prefetture, ad oggi individuate soprattutto come “soccorso rosso” per le nostre vertenze. Ieri –ad esempio- si parlava di progetti elaborati da alcune province sul tema della sicurezza attiva delle città. Noi abbiamo bisogno di valorizzare la funzione di un settore come questo, in chiave anche più sociale, valorizzando l’attività di servizio alla collettività, facendo uscire il Vigilantes dallo stereotipo più diffuso, che lo vede come una figura impersonale, dedita ad un anonimo piantonamento.

L’altro tema è quello degli appalti. Se la norma sul cambio appalti è un punto importante del nostro contratto, non è un caso. Ma è la stessa ragione che collega le modalità di gestione di questo servizio ad altri servizi, la cui modalità è sempre quella dell’appalto. Anche qui, le sponde sono importanti, perché è fuori dubbio che se noi facciamo della politica dei servizi in appalto terreno da “bomba, liberi tutti” è altrettanto ovvio che le aziende si sentono in un certo qual modo legittimate a vivere nel Far-West.
Ricorderete che avevamo inserito il settore della vigilanza dentro l’iniziativa sugli appalti svolta l’anno scorso. Da lì dobbiamo ripartire, ricollocando questa problematica nell’iniziativa che dobbiamo progettare a breve.

Questo è il primo aspetto, che ovviamente, avrà i suoi tempi di realizzazione. Non potranno essere lunghissimi, anzi, dovranno essere i più brevi possibili, ma che non potremo fare domattina.
Quindi, l’altro aspetto è il tavolo contrattuale, sul quale dobbiamo tentare l’affondo. Ieri abbiamo ascoltato quali sono le nostre disponibilità, sulle quali nelle prossime ore dovremo compiere una ennesima verifica tra le segreterie generali dei sindacati di categoria.
Ovvio che per noi c’è una soglia sotto la quale non possiamo scendere e lo abbiamo detto anche al coordinamento. Se dobbiamo rinnovare un Ccnl abbastanza peggiore di quello che abbiamo, tanto vale tenerci quello che abbiamo! Naturalmente, non ci sfugge il fatto che con questi chiari di luna non possiamo fare un grande contratto acquisitivo. Nel linguaggio della chiarezza, questa è la classica situazione nella quale si usa dire che dobbiamo uscirne lasciandoci alle spalle meno penne possibile. Pensare di vincere al 92’ una partita che ci ha visto consumare tutto il fiato che avevamo nei polmoni sarebbe puro miracolo.
Tuttavia, attorno a quei 3-4 punti che Sabina ieri riproponeva, dovremo tentare di fare un affondo, provando a portarci dietro Cisl e Uil, con la verifica che faremo in queste ore. Inutile ricordarci che le controparti, già abbondantemente disarticolate fra loro, difficilmente farebbero il contratto con noi, lasciando fuori Cisl, Uil e Ugl!

Se non ci riusciremo, dovremo inevitabilmente convivere con questa situazione. Convivere con questa situazione, che potremmo definire una incompiuta, significa, da un lato, dare ai lavoratori una prospettiva di attenzione permanente alle problematiche del settore ed a questo può contribuire l’iniziativa che vorremmo mettere in cantiere e soprattutto la sua continuità. Dall’altro, individuare un terreno sul quale continuare ad esercitare il nostro mestiere di agente contrattuale e se non riesci a sfondare sul tavolo nazionale, non puoi che provare a farlo in azienda o, dove esiste, a livello territoriale.
Non stiamo inventando niente di nuovo! Ma se al tavolo nazionale non riusciamo a sfondare, non è per la malasorte, né, in questo caso, per qualche funzionario di Confcommercio o Confindustria che si mette di traverso, qui sono proprio le aziende. Per questo, dobbiamo presentare loro il conto, aprendo nuovi fronti negoziali.
Dobbiamo mettere in campo tutte le armi di cui disponiamo, compresa, ovviamente, la mobilitazione generale, che va prevista con la dovuta intelligenza e consapevolezza.

Per tutte queste ragioni ci sembra giusto accogliere l’indicazione di realizzare un momento generale di confronto con i quadri delegati, un attivo nazionale con la partecipazione della Confederazione, che metta a punto questo scenario di iniziative e che consegni ai territori, attraverso attivi, assemblee, diffusione di materiale, il compito di ritessere un rapporto con i lavoratori interessati e, soprattutto, confermare una attenzione della Filcams alla loro condizione.

Ccnl Cooperazione
Sul Ccnl della Cooperazione è in corso la consultazione, quindi, ritengo inopportuno in questa sede svolgere troppe considerazioni. Del resto, la sessione del direttivo di dicembre aveva già anticipato quelle che sarebbero state le conclusioni di quel negoziato.
In questa sede mi limito a queste brevi considerazioni.
Sul merito, non possiamo che confermare la complessità di questa vicenda, che ha portato ad una conclusione sofferta, non priva di elementi di criticità, che dovremo gestire nel corso della durata contrattuale.
Quello che non riteniamo di poter condividere è lo squilibrio di certe valutazioni che abbiamo registrato. Quando si esagera, vuol dire che l’intensione va oltre il merito delle questioni. Poiché non abbiamo mai negato i punti critici di quell’accordo, non si riesce a capire la ragione per la quale 1) non esiste analogo sforzo nell’apprezzare quali sono i pericoli che abbiamo evitato (malattia, orario), 2) si può dire quel che si vuole, ma di strutturale non vi è nulla, nel senso che quelle criticità, per poter continuare a vivere, dovranno essere riproposte alla scadenza del contratto (non vi sono automatismi). Certamente, la cooperazione tornerà alla carica, questo lo sappiamo già, ma noi abbiamo due anni per andare un po’ più attrezzati a quell’appuntamento.
Questa è pura operazione-verità, evitare di vendere quello che non c’è, nel bene e nel male, e non abdicare al ruolo attivo che è richiesto al sindacato nei prossimi mesi.

Certo, tutto questo riconduce al tema della metamorfosi in atto nel mondo della cooperazione di consumo. Abbiamo fatto questa operazione per provare a difendere un contratto ispirato alla distintività della Coop, ma non possiamo fare a meno di registrare la graduale estinzione di questa distintività.
Lo abbiamo visto anche nelle polemiche sorte in seguito alla pretesa di una attuazione anticipata di alcune normative contrattuali, prima ancora che l’ipotesi di accordo fosse siglata, pretese che hanno dimostrato anche una certa regressione nella cultura sindacale, cosa della quale abbiamo riscontro nella quotidianità delle relazione nelle varie aziende.

Attendiamo la conclusione della consultazione, della quale prenderemo atto. Ma anche su questo punto, archiviata la vicenda del rinnovo contrattuale, dovremo immediatamente dare seguito all’iniziativa sulla cooperazione, che già avevamo lanciato a Firenze due anni fa.

Il terziario
Infine, poche considerazioni generali sul terziario, di cui abbiamo lungamente parlato. In questo caso, ci preme anticipare alcune riflessioni che hanno impegnato la segreteria in questi giorni.

Già avevamo il problema di prepararci per tempo alla prossima scadenza del Ccnl (non sapendo come si fa a rinnovare un Ccnl che non abbiamo firmato). Adesso abbiamo la complicazione di non sapere quanti contratti dovremo fare, se oltre a quello con Confcommercio, avremo anche quello con Federdistribuzione, con la quale avremo il primo incontro lunedi della prossima settimana.

In ogni caso, noi abbiamo diversi problemi sui quali procedere rapidamente ad un ulteriore aggiornamento della nostra elaborazione sulla contrattazione, dopo la riunione seminariale dell’anno scorso. All’iniziativa di contrasto all’accordo separato, che abbiamo cercato di sviluppare in modi articolati, soprattutto lavorando sul secondo livello di contrattazione, dobbiamo cogliere l’ulteriore specificità che si è determinata ed accentuata nel settore della GDO, in seguito alle liberalizzazioni.

Nel valzer delle ipocrisie che abbiamo ascoltato in queste settimane, sempre nell’intervista a Radio 24 di ieri si è anche sostenuto che il lavoro domenicale rappresenterebbe una opportunità per guadagnare di più, quando, invece, sappiamo che le maggiorazioni definite dalla contrattazione sono sempre più incompatibili con la scarsa redditività delle aperture domenicali. E come se non bastasse, ieri se n’è sentita un’altra, cioè, che lavorare la domenica, offre l’opportunità di poter fare festa il lunedì, il martedì, insomma, durante la settimana.
Al di là dell’aspetto sociale di tale affermazione, sul piano sindacale essa appare molto propedeutica all’idea di considerare la domenica un giorno normale di lavoro, da poter scambiare durante la settimana con un altro giorno qualsiasi.

Ma altre idee si sono messe in campo. Ad esempio, il nostro attento osservatore Dario Di Vico, ascoltando le nostre lamentele sull’assenza degli asili nido ai quali affidare i figli delle mamme che la domenica dovrebbero andare a lavorare e non hanno a chi lasciare i bambini, ha invitato il sindacato a ricercare nel Welfare aziendale le risposte a questo problema.

Come vedete, si tratta di capire meglio cosa si sta muovendo dentro questo mondo e dove può pensare di andare un settore come quello della GDO, attrezzato di questi proponimenti.
Anche per questo, nella nuova riorganizzazione della struttura nazionale, che diffonderemo alle strutture dopo la riunione di oggi, abbiamo previsto un progetto specifico sulla GDO, per indagare più a fondo sui processi in atto al suo interno e prevedere le possibili ricadute sul piano della contrattazione.

Nel frattempo incombono le scadenze della contrattazione aziendale, per questo riteniamo urgente un nuovo appuntamento della direzione sul tema specifico della contrattazione, per fare il punto sullo stato dell’arte, appuntamento che vi proporremmo per il 15 marzo p.v.

Finisco con due flash.

Esiste un comma 14 nelle misure del Governo che parla di autocertificazioni delle aziende. Questa è l’anticamera per rendere più fragile la politica per la sicurezza nei luoghi di lavoro. Anche per questo è nostro impegno proseguire nell’attività di rilancio del tema salute e sicurezza nella nostra categoria.

Si svolgeranno le elezioni per le Rsu nel pubblico impiego. Oltre agli auguri di pieno successo della F.P., riteniamo che questo appuntamento debba rilanciare il tema della democrazia e della rappresentanza, del quale si era in parte parlato anche nell’accordo del 28 giugno e che non ha avuto seguito.
Anche su questo la Filcams deve capitalizzare quanto ottenuto in occasione dell’accordo Coop, dove Fisascat e Uiltucs hanno condiviso di dare una risposta al problema.

Per finire, sono in debito di una risposta alla dichiarazione di voto sul bilancio, del compagno Trunfio. Invito il compagno a rileggere con attenzione la lettera del Segretario Generale e se la lettera verrà riletta senza pregiudizi o distorsioni, si capirà che li la funzione di garante del pluralismo è proprio quella che il Segretario Generale ha inteso pienamente esercitare. Cosa che altri non hanno voluto fare, senza offrire alla segreteria spiegazioni di merito.

Alla Filcams si possono imputare tanti limiti e difetti, ma se c’è una cosa che non si può proprio contestare alla nostra categoria, come la stessa commissione di garanzia ha sancito, è il rispetto del pluralismo e della delibera che lo tutela. Ma non perché c’è una delibera, quanto perché è nel nostro dna.
In Filcams non esiste nessuna questione democratica, a meno che non si intenda la democrazia come quella cosa che ci da ragione a prescindere. Ma quella si chiama in altro modo e, soprattutto, non ci appartiene.