Non potrebbe essere diversamente alla luce della fase che stiamo attraversando: complessa, articolata, senza precedenti.
Prima di affrontare le nostre questioni, che non sono poche e non sono più rimandabili, fermiamoci però in raccoglimento e in silenzio per rendere omaggio ai cinque lavoratori della ditta Sigifer che hanno trovato una morte orribile e indicibile proprio qui, alle porte di Torino, nell’ennesimo incidente di cantiere su cui, come vedete, si attiva il consueto rimpallo di responsabilità, di controlli mancati, di distrazioni dell’ultimo minuto, e qualcuno cerca di far passare l’idea che si tratta di circostanze eccezionali e di una concatenazione di imprevisti.
Noi invece sappiamo, perché lo diciamo e lo denunciamo da tempo, che queste sono sempre morti annunciate, che le condizioni di lavoro di migliaia di lavoratori creano di fatto una situazione permanente di esposizione e di rischio.
Questi cinque lavoratori si chiamavano
Kevin Laganà, 22 anni
Michael Zanera, 35 anni
Giuseppe Sorvillo, 43 anni
Giuseppe Aversa, 49 anni
Giuseppe Saverio Lombardo, 52 anni
E a loro va il nostro pensiero. A loro dedichiamo i lavori odierni.
E prendiamo proprio le mosse da qui, da questo evento tragico, perché di là dallo strazio e dalla rabbia che suscita, è un episodio che illumina molto bene una intera situazione del mondo del lavoro in appalto. L’esternalizzazione sempre più marcata di opere e servizi essenziali porta lavoratrici e lavoratori a correre dietro a tabelle di marcia massacranti, a rispettare consegne e richieste sempre più tassative, a non poter dire quei “no” che i dipendenti diretti, primari di un’azienda possono forse ancora dire.
No, non siamo in presenza di eventi fortuiti, per quanto tragico e orribile possa essere l’accaduto. Siamo in presenza di una cultura – o meglio di una sottocultura – dell’appalto che nasconde la mancanza di tutele per le lavoratrici e i lavoratori dietro una falsa narrazione di flessibilità e di efficienza.
E purtroppo solleva sdegno, ma non ci meraviglia che la certificazione di sicurezza dell’azienda Sigifer, operante in appalto Rfi, fosse scaduta da un mese. Purtroppo per noi che facciamo rappresentanza, questa è quotidianità: in tutta Italia si continua a lavorare a contratti scaduti, a certificati invalidati da tempo, perché regolamenti, certificazioni e contratti vengono visti come fastidiosi impacci burocratici, non come premessa essenziale e irrinunciabile della relazione di lavoro.
E l’errore umano può starci ma sappiamo bene, sapete bene che certi errori non nascono per caso. Prima che la verità giudiziaria venga riscontrata noi siamo già in presenza, e da anni, di una verità storica e politica, sconfortante e certa: il lavoro nei servizi antepone sempre di più la prestazione alla sicurezza, elimina progressivamente le tutele, che vengono rimosse come se fossero ostacoli alla fluidità dell’esecuzione, accetta la tirannia del “qui e ora” come se il lavoratore fosse una pedina accessoria e sempre sostituibile a piacere, e non il centro del lavoro stesso.
Noi diciamo invece che l’umanità e la civiltà delle condizioni del lavoro sono l’elemento centrale di una democrazia.
Noi ci inchiniamo con il Presidente della Repubblica di fronte a queste vittime, e condividiamo il suo cordoglio di fronte a questa catena di morti, orribile e incessante come una guerra. Ma al contempo diciamo che è giunto il momento di mettere la questione del lavoro al centro del dibattito nazionale, perché il cordoglio non basta e non risolve il problema, che ormai è un’emergenza democratica.
E il problema è l’irregolarità diffusa, è l'ignoranza dei requisiti minimi della relazione di lavoro, è la tecnologia usata per asservire e sfruttare i prestatori d’opera, è la negoziazione di contratti sempre più svantaggiosi, è l’assenza di garanzie, la cancellazione di diritti acquisiti con un colpo di spugna o di penna, la sospensione e la dilazione della contrattazione, il rinvio di comodo, per colpa grave e incultura, del rinnovo e della sottoscrizione dei contratti.
Il problema è l’assenza, per non dire la latitanza delle associazioni datoriali, dei governi, delle istituzioni e anche degli intellettuali di fronte all’imbarbarimento del lavoro.
Il problema è che non si può rivendicare un ruolo da protagonista per l’Italia nel mondo, se in casa nostra stiamo scivolando dentro un mondo di sopraffazione e di degrado.
E allora in quale situazione, se non in questa, condivisione, coinvolgimento, comunanza di impegni e unità di intenti assumono, se possibile, ancora maggiore valenza soprattutto strategica?
Anche questo ci deve indurre a sperimentare, a testare, a collaudare nuove forme di confronto, di partecipazione e di rappresentanza appunto. E anche a mettere in atto nuove forme di mobilitazione e di comunicazione. Lo abbiamo fatto, lo stiamo facendo, lo faremo sempre di più.
Certo non si può non riconoscerlo: quanti versanti aperti, quante questioni da affrontare, quanti elementi di contesto da tenere in considerazione!
È una situazione senza precedenti, nella quale la nostra categoria sta versando da ormai troppo tempo.
Ecco allora, in primo luogo, l’argomento della nostra discussione di oggi e dei prossimi giorni: come portare finalmente fuori la Filcams, i nostri settori, milioni di lavoratrici e di lavoratori da una situazione drammatica, irrisolta, complicata. Si tratta di una responsabilità straordinaria!
Ne stiamo discutendo in realtà da un po’. Dopo il nostro congresso la direttrice delle priorità abbiamo continuato a tracciarla prima attraverso la riedizione di The New Order a Firenze alla Leopolda, poi con l’assemblea unitaria intersettoriale a Bologna, e proseguiremo a delinearla tra oggi e domani e, in seguito, ancora con la nostra assemblea generale del 18 e 19 settembre, concludendo con l’iniziativa di ritorno di The New Order ad inizio del 2024.
Di questa sequenza di iniziative fanno parte anche l’attivo delle delegate e dei delegati della Vigilanza privata e dei Servizi di sicurezza del 28 settembre, e gli attivi dei diversi settori e comparti che ancora nelle prossime settimane verranno convocati con gli stessi obiettivi: estendere la partecipazione, informare, discutere, approfondire ma anche, soprattutto, prendere delle decisioni.
Ma se, come tutto lascia presagire, da parte delle associazioni datoriali si continuasse con questo approccio dilatorio, con pretese insostenibili, con la strumentalità, la sregolatezza e quindi il protrarsi dei mancati rinnovi dei contratti nazionali, l’obiettivo, a quel punto, non potrà che essere di entrare nel pieno dell’organizzazione, della operatività, della gestione della mobilitazione della categoria, delle categorie del terziario, di Filcams, Fisascat e Uiltucs.
Al contempo dobbiamo mantenere, anzi, se possibile rafforzare ulteriormente l’impegno, gli sforzi, la spinta a sostegno della mobilitazione di iniziativa confederale su questioni e problematiche di portata più generale.
Per questo motivo, per i diversi appuntamenti programmati abbiamo deciso di mantenere lo stesso titolo e lo stesso sottotitolo, la stessa matrice della discussione affrontata a Firenze.
Questo ci deve consentire di rimanere concentrati sul merito, sulla sostanza, sui contenuti di questa fase e, al di fuori della Filcams, di ribadire le nostre priorità e quindi “mobilitazioni”, al plurale, la nostra, delle categorie del terziario e quella della Cgil, assieme alle tre grandi sfide legate:
- al rinnovo dei contratti nazionali
- alle condizioni di chi lavora in appalto
- alla qualità dell’occupazione nei nostri settori
Da qui quindi “contratti, appalti, umanità del lavoro”.
Il mese di settembre sarà certo utile tanto per consolidare, precisare, puntualizzare il nostro piano di lavoro rispetto all’ultimo quadrimestre del 2023, quanto per porre le basi della nostra azione per il 2024, con l’ambizione, nel frattempo, di definire, quantomeno su alcuni temi strategici per le nostre categorie, una prospettiva di più lungo periodo.
E sono soprattutto le vicissitudini di questi giorni, di queste settimane ad imporci un confronto al nostro interno se possibile ancora più serrato di quanto già normalmente tra di noi accade.
Perché oggi ci è richiesta un’assunzione di responsabilità, e lo abbiamo detto, che va ben al di là dell’ordinario.
Nel tentativo di organizzare, di riordinare, di sistematizzare i termini della discussione, partiamo da almeno un paio di macro temi, da tenere in considerazione, con i quali fare i conti, da affrontare, che rappresentano certo solo una parte di un contesto senz’altro più complesso.
Alcuni aspetti di questi macro temi sono “storici”, strutturali, quasi costitutivi, altri invece risultano essere più recenti, anche transitori, da porre sul piano della contingenza.
Ma è il nesso, la combinazione, la correlazione di questi fenomeni, è il contesto che ne scaturisce, a rendere indiscutibilmente eccezionale, in negativo neanche a dirlo, la fase che lavoratrici e lavoratori soprattutto dei nostri settori stanno attraversando.
Quali sono questi due macro temi, quale la loro articolazione?
- Per un verso, l’insostenibilità delle condizioni di lavoro, tipica dei nostri settori, determinata anche dagli arretramenti che si sono prodotti nel corso degli anni in tema di mercato del lavoro, nei confronti della quale si sta gradualmente generando, soprattutto in questo ultimo periodo, una sorta di movimento diffuso di contrasto per ora sommesso, di reazione fin qui cauta, di opposizione ad oggi circospetta da parte delle lavoratrici e dei lavoratori; un fenomeno non strettamente riconducibile al nostro paese ma di portata senz’altro più generale.
- Per altro verso, il mancato rinnovo dei contratti, la diffusione di contrattazione irregolare, l’eventuale introduzione di un salario minimo per legge, l’attacco ai nostri contratti, dal recente rinnovo della vigilanza, a ritroso, ai contratti precedenti, la definizione di un nostro modello contrattuale, fosse anche soltanto legato alla fase.
- A questi due temi se ne potrebbe aggiungere un terzo, più di prospettiva, che avremo modo di approfondire nella nostra iniziativa di inizio 2024, rappresentato dalla totale assenza di una concezione, di una visione, di un’idea rispetto alla definizione di politiche del terziario per il nostro paese, tanto a livello nazionale quanto decentrato, politiche a governo, a sostegno, a guida, a controllo, ad indirizzo delle dinamiche, dei processi, degli sviluppi, tanto delle degenerazioni quanto delle enormi potenzialità dei nostri settori, del commercio, della filiera del turismo, della ristorazione e della cultura e dei servizi.
Ecco sono questi i punti su cui dobbiamo concentrare la nostra attenzione e la discussione, il confronto di oggi e dei prossimi 18 e 19 settembre.
È utile e opportuno precisarlo, questa introduzione ai lavori non rappresenta che una prima bozza che ci porterà in considerazione dei contributi, degli interventi, delle osservazioni, delle proposte, delle sollecitazioni di questi due giorni alla predisposizione di un piano di lavoro, lo ribadiamo, fine 2023/inizio 2024, ed un documento in tema di contrattazione con i quali affronteremo la nostra imminente assemblea generale.
E partiamo dalla questione della difficoltà, ormai atavica, delle condizioni di lavoro nei nostri settori, quasi sia scontato, fisiologico, inevitabile che il lavoro nel commercio, nel turismo, nei servizi debba essere dequalificato, svilente, mortificante, sottopagato.
Mediamente la paga, da fonte Inps, va da un minimo di 9 ad un massimo di 11 euro lordi l’ora, ma le ore sono sempre meno. Il 74% dei contratti degli appalti, il 62% della ristorazione, il 49% del dettaglio sono a tempo parziale. Il 43% dei lavori nella ricettività sono stagionali. Il 66% nella ristorazione sono a tempo determinato. I lavoratori al di sotto della soglia di povertà lavorano meno di 30 settimane l’anno.
Vediamo di cosa si tratta, con maggior dettaglio, e prestiamo attenzione alle astuzie e ai raggiri grotteschi di cui si fa bella tanta pubblicistica: lo sfruttamento e il degrado del lavoro non sono causati dalla diffusione di nuove tecnologie, dall’automazione di certe funzioni un tempo demandate a esseri umani, dalla presenza di algoritmi sempre più sofisticati, come se la tecnologia fosse nata per condannare inesorabilmente all’estinzione il lavoro delle persone rendendolo sempre più marginale. Questa è una narrativa di comodo, il più delle volte poco informata ma spesso anche volutamente manipolata.
E il degrado del lavoro non è causato neppure dalla strabordante offerta di manodopera a basso costo proveniente dai nuovi giganti economici e demografici dell’Asia.
E non è nemmeno il costo del lavoro la causa della disumanità delle condizioni lavorative, come se l’esigenza di ottenere i costi bassi giustificasse tutte le cattive pratiche e le prepotenze datoriali.
E poco c’entra il tema della tassazione del lavoro dipendente.
Tecnologia, filiere del lavoro estere, struttura dei costi e della fiscalità sono semmai una concausa, o un fattore aggravante di un processo di sfruttamento dei lavoratori che è in atto da anni ed anni prima.
È una sorta di dazio innanzitutto culturale col quale dobbiamo misurarci di continuo; una precarietà oraria, giornaliera, settimanale, mensile, stagionale, annuale… una precarietà esistenziale!
È senz’altro questo il tema fondamentale, prioritario, capitale e non casualmente è anche il tema rispetto al quale più fatichiamo ad imprimere nei fatti un cambiamento, una svolta, la svolta decisiva!
È anche il tema, sostanziale, quello reale, dal quale trae origine il dibattito inesauribile, che si rigenera di continuo ormai da anni, in tema di presunte indisponibilità e irreperibilità delle lavoratrici e dei lavoratori dei nostri settori rispetto al quale, di volta in volta, cambia soltanto chi lo promuove, chi ci predica sopra, chi provoca di più, tra il folclore di taluni esponenti, a vario titolo, di politica e istituzioni, di una certa imprenditoria d’accatto e di un opinionismo improvvisato e incompetente.
È un dibattito che ha però senz’altro consentito, come nelle intenzioni di chi puntualmente lo ha imbastito, lo imbastisce, lo imbastirà, di sviare, di distrarre, di deviare dalle effettive cause del fenomeno.
Da questo punto di vista una prima valutazione riguarda senz’altro le strumentalizzazioni, le ipocrisie, i luoghi comuni che si sono consolidati nel corso del tempo e che hanno impedito un’analisi genuina, autentica del fenomeno.
I lavoratori dei nostri settori non sono divenuti tutto ad un tratto, non lo sono mai stati – neanche poi ci dovessimo giustificare – “schizzinosi”, “bamboccioni”, “sfigati”, “pigri”, “indolenti”, “svogliati” piuttosto che incassatori seriali e disonesti di reddito di cittadinanza o approfittatori spregiudicati e senza scrupoli di Naspi o di altri ammortizzatori sociali.
È un fenomeno di cui abbiamo già iniziato a discutere, ancora più approfonditamente nel post pandemia e che senz’altro analizzeremo, proveremo a comprendere in alcune delle nostre prossime iniziative.
È un fenomeno che non può non essere posto in correlazione anche con il fatto che centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori tra il 2020 e il 2022 nel turismo, nel commercio, nei servizi abbiano perso il lavoro o siano stati collocati ininterrottamente in ammortizzatore sociale o abbiano subìto un grave e ulteriore peggioramento delle proprie condizioni di lavoro o che ancora, pur con importanti professionalità acquisite nel corso del tempo, siano stati costretti a trasmigrare verso altri settori.
Ma c’è senz’altro di più oltre a questo; i giovani, i più giovani, ma non soltanto loro in realtà, ce lo stanno dicendo ormai da tempo, in tanti modi diversi con pressoché nessuno dei quali riusciamo a confrontarci, a dialogare, a porci in relazione.
Però, non è certamente rassegnazione, non è delusione, non è rinuncia, men che meno resa; anzi, è con ogni probabilità una forma nuova, forte, potente, che deve ancora delinearsi compiutamente, che deve ancora “schiudersi”, di rivalsa, di affermazione di una propria identità non soltanto individuale, di una possibile alternativa più sostenibile, inclusiva, “umana”.
Poi, nei fatti, sono i numeri, gli indici, i dati che ci vengono consegnati dall’Inps, dall’Inail, dall’Ispettorato nazionale e da quelli territoriali del lavoro, dalle Forze dell’ordine, dall’Istat, dal Censis, da chiunque abbia un minimo di autorevolezza e di competenza per spendere parola in materia, che continuano ad essere univoci ed impietosi, a fornire una spiegazione, a ricondurci alla realtà.
Certo continua ad essere una discussione alla quale non ci si può sottrarre e la Filcams di certo non si sottrarrà.
Ma è anche vero, come ormai ci siamo detti a più riprese, che il solo versante della comunicazione non è sufficiente. È senz’altro necessario ma non più sufficiente.
E quindi sì, è indispensabile estendere l’impostazione che è stata definita sul versante della comunicazione per il turismo anche agli altri settori, arrivando a “mettere sottosopra”, come diciamo noi, anche commercio e servizi, con campagne dedicate e specifiche ma soprattutto con una grande campagna sul lavoro povero nei nostri settori che si sviluppi nel corso della stagione autunnale.
Ma è necessario andare, spingersi, procedere oltre, anche di questo discuteremo tra oggi e domani e alla nostra assemblea.
Una parte rilevante del Pnrr, ad esempio, era, è, in realtà, direttamente o indirettamente, concentrata su questi temi.
Basterebbe menzionare i miliardi stanziati per le politiche attive del lavoro e per il sostegno all’occupazione, le previste riforme in tema di politiche attive e formazione e rispetto alla definizione di un piano nazionale per la lotta al lavoro sommerso o ancora gli investimenti attesi per il potenziamento dei centri per l’impiego.
Ma anche qui, vedete, l’enfasi delle istituzioni e del dibattito pubblico si è focalizzata sul completamento dei progetti e la presentazione delle opere finanziabili, i cosiddetti grandi lavori, sulla linea di partenza. Non si è parlato di come riqualificare il lavoro stesso. Si presentano progetti ma si considera la forza lavoro come un accessorio, oggi va di moda dire come una commodity. Si parla di rilancio occupazionale e si ignora, o si fa finta di ignorare, che il lavoro degrada a prestazione servile e occasionale. I grandi lavori generano appalti e subappalti, e si finisce a morire sui binari come qui a Brandizzo, in totale assenza di minime condizioni di salute e sicurezza, per una paga indegna.
Sono questioni da ricondurre a loro volta al macro tema al quale ho fatto riferimento, circa la necessità di avviare un confronto che ci consenta, finalmente, di definire politiche settoriali, anche per quanto ci riguarda, come avviene per qualsiasi altro ambito economico produttivo del paese, nel rapporto con la politica e con le istituzioni, tanto a livello nazionale quanto decentrato.
Poi in realtà c’è altro fenomeno ancora, che non riguarda soltanto i nostri settori, di portata più generale, rappresentato dall’attacco continuo, sistematico e generalizzato alla povertà, all’indigenza, a chi nel nostro paese versa già in condizioni di precarietà, di fragilità, di difficoltà.
Un’impostazione, una condotta, una pianificazione, il termine non è improprio, di una parte rilevante e trasversale della politica e delle istituzioni, che si sono consolidate nel corso di anni, di decenni, per un verso attraverso la progressiva ed inarrestabile precarizzazione del lavoro, per altro verso con il depotenziamento di tutele, di protezioni, di forme di ammortizzazione sociale e di sostegno al reddito indispensabili per la sopravvivenza di milioni di persone.
Un’impostazione, una condotta, una pianificazione che hanno assunto evidenza patologica nelle politiche dell’attuale governo a partire dalla reintroduzione dei voucher e dall’eliminazione del reddito di cittadinanza.
Ora, si potrebbe anche discutere della correttezza di applicazione, che certe volte è venuta meno, e della incostanza nella applicazione delle misure previste dal reddito di cittadinanza. Ma lo si dovrebbe fare a partire da una certezza: in tutta Europa sono vigenti misure attive di inclusione, di recupero, di accompagnamento o ri-accompagnamento al lavoro delle categorie più deboli.
Sta nei valori e nelle buone pratiche della nostra cultura del lavoro che vi siano forme di sussidio e di sostegno per chi si trova in condizioni di oggettiva difficoltà di sopravvivenza. Quindi semmai, il dibattito sul reddito di cittadinanza sarebbe stato utile per fare dei passi avanti nelle tutele, nei sostegni, nella formazione e nello sviluppo. Non per fare un passo indietro, come è stato fatto, dicendo che si volevano potare i rami di una presunta furbizia dei disoccupati, definiti senza mezzi termini “fannulloni”, ma di fatto abbattendo in un colpo solo la pianta della coesione sociale.
Non c’è dubbio, sulle modalità di applicazione del reddito di cittadinanza e sui programmi di sviluppo che ne sarebbero dovuti scaturire si poteva anche discutere, ma per migliorare, non per azzerare garanzie e sostegni.
Facciamo un’ultima considerazione prima di passare al tema conduttivo e fondante di questa fase, che è il rinnovo dei contratti. Sapete bene che si è spesso rimproverato in passato, a chi faceva rappresentanza, di curarsi solo dei già assunti e dei garantiti, dei salariati e dei contratti, come se non ci toccasse, o almeno non toccasse a noi in prima battuta, di occuparci della marginalità sociale, della mancanza di sbocchi professionali dignitosi per i giovani, del maltrattamento e sfruttamento dei migranti, della riduzione degli anziani da soggetti deboli a oggetti residuali ingombranti e scomodi, della discriminazione di genere, dei soprusi subiti quotidianamente da persone disabili, della precarietà, del lavoro nero e dell’illegalità.
Noi invece diciamo che un ragionamento precede e in molti casi include gli altri. Che la precarietà e l’imbarbarimento dei lavori occasionali stanno insieme a una riconsiderazione delle posizioni, degli arretramenti e degli avanzamenti anche dei lavoratori cosiddetti regolari.
Perché sappiamo che ogni ceto produttivo che noi rappresentiamo ha raggiunto stabilità di lavoro e di trattamento previdenziale dopo decenni, talvolta dopo secoli di lotta.
E sappiamo che – certo – si sono organizzate e ridefinite nel tempo le linee e le tutele della rappresentanza, ma al contempo si sono anche organizzate e ridefinite le linee e le forme dello sfruttamento e del sopruso.
Ecco perché, proprio quando stiamo entrando nel pieno della nostra mobilitazione, sentiamo il dovere tassativo di allargare lo sguardo non solo a tutto il mondo del lavoro ma a tutto il campo sociale.
Perché la questione del lavoro, oggi, è diventata non solo un’emergenza sociale e democratica, ma anche una grande questione morale, anzi la questione morale, del nostro paese.
Noi sappiamo fin troppo bene che in Italia c’è una vasta zona grigia, anzi ci sono tante zone grigie e tra loro comunicanti, tra lavoro dipendente e lavoro in appalto, e poi tra lavoro in appalto ed esternalizzazione selvaggia, a cottimo, a progetto, a gettone, a voucher, a stage non retribuito.
Perché chi sfrutta non è cieco, anzi ci vede benissimo, e sa che sospendere, non rinnovare, rinviare, prorogare arbitrariamente contratti scaduti serve a dare del lavoro salariato un’immagine degradata, precaria e che questo si riverbera inevitabilmente anche nelle fasce ancor più degradate e precarie del lavoro irregolare.
E allora dire umanità del lavoro e contratti vorrà dire portare con noi e tutelare anche l’umanità di chi il lavoro non lo ha, o di chi il lavoro lo trova solo a condizioni umilianti e degradanti.
Gli esclusi e gli ultimi, che non hanno diritto ad alcuna mobilità sociale, sono persone, lavoratrici e lavoratori esattamente come quelle lavoratrici e quei lavoratori che oggi accompagniamo nella lotta e nella mobilitazione.
Noi ce ne siamo già fatta una ragione, adesso se ne faccia una ragione anche chi sfrutta, chi discrimina e chi non si fa trovare ai tavoli di negoziazione.
Più proveranno a dividerci, più ci troveranno insieme e per mano.
Più assumeranno comportamenti divisivi e incivili, più ci troveranno uniti nella lotta per la dignità e l’umanità di tutte e tutti.
È con queste premesse, non secondarie e non marginali, che direi di passare ora in esame il fronte delle negoziazioni e dei rinnovi, con la certezza che, per quanto tecnica possa essere, ogni negoziazione è anche un fatto valoriale. Ogni negoziazione è istituto fondativo della nostra identità.
Ci sono alcuni numeri, li conosciamo bene ormai, che sono entrati a pieno titolo nella drammatica ricostruzione della situazione contrattuale in cui la categoria versa: 15 contratti scaduti, oltre sette milioni di lavoratrici e di lavoratori e le loro famiglie senza alcun incremento salariale da tre, quattro, cinque anni.
Più di 15 milioni di persone coinvolte, una persona su quattro nel nostro paese.
Sono, a tutti gli effetti, numeri da vertenza senza precedenti, almeno nella storia recente del nostro paese. E lo sono sia dal punto di vista politico che dimensionale, per quanto riguarda la nostra categoria, per l’organizzazione tutta e le organizzazioni tutte, sia sul versante datoriale che su quello sindacale.
Detta senza mezzi termini, la questione in realtà è che ogni settimana, ogni mese, ogni anno di ritardo rispetto alla rinegoziazione di un contratto è un passo in un cammino di involuzione della democrazia, e per inciso, dobbiamo dare atto a tutte le nostre delegate e delegati della loro straordinaria tenacia e del fatto che continuino a resistere anche di fronte a una classe imprenditoriale deresponsabilizzata o addirittura assente.
Ed è vero – per carità – che non si può non passare dalle tecnicalità di negoziazione tipiche del singolo contratto ma, vista con uno sguardo più generale, la sfida è tra chi per calcolo o incultura vuole un paese completamente votato al profitto e allo sfruttamento selvaggio delle persone, in assenza di regole e garanzie, e chi invece vuole un paese dove il lavoro è crescita sociale e civile per tutti, nel rispetto delle regole e del giusto profitto.
Lo abbiamo puntualizzato a più riprese: ci sono delle responsabilità, evidenti e indiscutibili, rispetto ad una dilazione temporale che non ha, non può avere, non deve avere alcuna giustificazione, e quelle stesse responsabilità ci stanno portando dritti alla mobilitazione.
Se gli esiti degli incontri programmati nel corso del mese di settembre e dei primi giorni del mese di ottobre dovessero confermare l’attuale situazione negoziale, e pochi sono i dubbi che così andrà, saremo, come dicevamo, già soltanto tra pochi giorni, tra poche settimane a discutere fattivamente di mobilitazione; anche questo è tra gli obiettivi della discussione di oggi, arrivare pronti a quell’appuntamento, a quella scadenza.
Chiariamolo però: è uno scontro, sarà uno scontro, che attiene essenzialmente ai contenuti, non ai tempi.
La dilazione dei tempi, semmai, rappresenta un’ulteriore aggravante.
Si è consolidata una posizione da parte delle associazioni datoriali, tutte nessuna esclusa: se si è intenzionati a rinnovarli i contratti, non c’è recupero dell’inflazione o IPCA che tenga, perché secondo “loro”, per i nostri settori, a differenza di qualsiasi altro settore economico produttivo del paese, quelli che per tutti gli altri sono scontatamente indici di riferimento, inspiegabilmente, non lo possono essere.
E però, senza fare nomi e cognomi, Confcommercio insegna: a fronte di un tenue, molto tenue, avvicinamento a cifre, incrementi che anche soltanto nominalmente possano essere ricondotti ad un recupero dell’inflazione o all’IPCA, ecco dietro l’angolo, alla faccia dell’innovazione dietro cui riparano, la riproposizione di una modalità, di un approccio negoziale di qualche decennio fa, un “classico” datoriale verrebbe da dire, “lo scambio diritti per salario”, parte normativa per parte retributiva, mettendo in discussione ancora una volta, impunemente, diritti, tutele, norme di civiltà conquistate in decenni di lotte e contrattazioni, e quindi mettendo a rischio, di fatto, valore e ruolo del contratto nazionale di lavoro.
Ed è proprio in considerazione di questo principio, della funzione in primo luogo valoriale del contratto, che la questione dell’introduzione di un salario minimo per legge deve essere approcciata con attenzione e cautela.
Il dibattito vede intervenire economisti e commentatori, che si muovono su fronti contrapposti in base ad articoli di fede, e non a ragionamenti: c’è chi dice che il salario minimo ingesserebbe il mercato e ne provocherebbe una completa perdita di dinamica e di concorrenzialità. E chi ne fa invece il principale obiettivo, la madre di tutte le rivendicazioni.
Noi diciamo da tempo che la dignità del salario si discute e si negozia insieme e all’interno della rappresentanza degli interessi dei lavoratori.
Noi riteniamo che, se le paghe sono indecenti, è perché il più delle volte non si discute di condizioni, di turni, di contratti, di garanzie democratiche, di parità di genere.
Noi denunciamo da tempo lo slittamento di buona parte dei lavoratori dei servizi verso soglie di intollerabile povertà. Ma al contempo diciamo che questa formula, “salario minimo”, potrebbe essere tutt’al più accettata come punto di partenza nella discussione e nella negoziazione.
Se deve diventare un punto di arrivo, o peggio ancora una foglia di fico per nascondere le responsabilità e la latenza del mondo politico verso il lavoro, se deve diventare una pseudo-conquista, se deve rappresentare il proverbiale piatto di lenticchie con cui verrebbe contrattata e transata l’intera dignità delle categorie, allora diciamo che, nel pieno rispetto di tutte le opinioni, c’è molto di più e molto di diverso.
A rigore non dovrebbe esistere un salario minimo come garanzia di uscita dalla povertà, in assenza di altre condizioni. Dovrebbe riaffermarsi ed esistere la lotta per il lavoro, per i contratti, per le condizioni ambientali, per la sicurezza, per il rispetto, contro il mobbing e le prepotenze, per gli orari, per le qualifiche e la dignità, dentro cui sta anche – e certamente non siamo noi a disconoscerlo - la sacrosanta questione della dignità della paga.
A maggior ragione in una fase nella quale indiscutibilmente la contrattazione nazionale, la nostra contrattazione, la contrattazione della Filcams in primo luogo, nella dolosa assenza di una legge sulla rappresentanza, continua ad essere sotto attacco.
Il riferimento è innanzitutto alla contrattazione irregolare, non ci sono dubbi da questo punto di vista.
Non stiamo parlando di un fenomeno sporadico, di una frangia deviante, di qualche sortita tattica nata per lucrare rendite di posizione da parte di un singolo manipolo di insorti o di fuoriusciti della rappresentanza. No! Qui stiamo parlando di una pericolosissima tendenza alla rappresentanza fai-da-te, ignorante delle problematiche generali, pronta a cedere sul piano dei diritti e delle garanzie per tentare di occupare sedie e tavoli di negoziazione.
Questa irregolarità – ormai è giunto il momento di dirlo – nella cecità scomposta del suo operare, finisce col danneggiare i lavoratori stessi, e favorire la parte datoriale, contribuendo alla barbarie.
Possiamo anche chiamarli sindacati “gialli”, rappresentanze autoconvocate, sindacati di scopo, nuove forme del presidio locale. Ma se poi leggete i contratti “pirata” che ne scaturiscono, molti dei quali non reggerebbero neanche a un esame di primo anno di diritto del lavoro, la nostra risposta non può che essere una. Per noi la contrattazione irregolare si pone in antitesi alle conquiste della rappresentanza. È pratica antisindacale. È antidemocrazia!
Sono queste le motivazioni per le quali continueremo a non arretrare nel contrasto alla propagazione di contratti “pirata” proseguendo, se necessario, a portare in giudizio ogni singola azienda che dovesse disdettare un contratto nostro per applicarne uno irregolare.
Sono argomentazioni che avremo modo di definire nel nostro documento anche in considerazione delle discussioni che svolgeremo tra oggi e domani, e che si terranno nel contesto delle nostre prossime assemblee generali e iniziative e di quelle confederali, per approdare infine, ad inizio 2024, al nostro evento di ritorno “The New Order”.
Un’elaborazione che ci consentirà anche nel rapporto con le altre categorie, con la Confederazione, con i sindacati internazionali, di affrontare specificamente alcuni snodi, come, ad esempio:
· il tema non soltanto di una diversa modulazione o rimodulazione dell’orario di lavoro quanto piuttosto, complessivamente, di una nostra possibile, differente, organizzazione del lavoro, più inclusiva, più sostenibile, più “umana”, come diciamo noi;
· i temi della trasformazione digitale e della transizione ambientale, anche rispetto alle ripercussioni sui nostri settori;
· lo stato della nostra contrattazione in termini di prospettiva, al di là della contingenza dei rinnovi contrattuali, con una ripresa del confronto al nostro interno in tema di contrattazione di 2° livello, nelle sue diverse declinazioni, e inclusiva, di sito, di filiera.
Prevedendo ad ogni modo, prima di quella scadenza, un appuntamento ad hoc che ci consenta di fare il punto della situazione in tema di bilateralità.
E così, compagne e compagni, quella che dovrebbe essere la conclusione di questa introduzione ai lavori di oggi in realtà non è una conclusione ma un nuovo inizio di fase e di lotta.
Ogni nuovo inizio chiude e apre un ciclo, e infatti a molti non sarà sfuggito, soprattutto a chi vi ha partecipato: dopo esattamente quasi sette anni siamo tornati a Torino, nello stesso luogo; nel 2016 siamo stati qui con la prima delle iniziative “The New Order”, dal titolo “nuove frontiere per l’inclusione” ed oggi ci siamo, nel pieno di una fase di mobilitazione, lo abbiamo detto, senza precedenti, che coinvolge la Filcams e la Cgil.
Come lo siamo stati, come la Filcams lo è stata nel 2016, innovativa e innovatrice, ancora di più lo dobbiamo essere di questi tempi; la portata di quel che ci attende, di quel che è necessario fare, dei nostri impegni, delle responsabilità che siamo chiamati ad assumerci è senz’altro più gravosa di quanto già non lo fosse in quegli anni.
Prepariamoci allora per l’assemblea delle delegate e dei delegati della Cgil del 12 settembre, perché il respiro sia grande e il confronto sia ampio e costruttivo
Andiamo all’assemblea Filcams del 18 e 19 settembre per prendere decisioni, per mettere azioni e fatti concreti davanti a ogni parola che pronunciamo.
Organizziamoci per la riuscita della manifestazione della Cgil del 7 ottobre, perché quello che stiamo per compiere è un salto storico, e ogni nostro risultato deve essere ottenuto nel nome di tutte e di tutti.
Affrontiamo, come solo noi con le nostre persone sappiamo fare, questa importante fase di coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori.
Confrontiamoci con Fisascat e Uiltucs per preservare il valore imprescindibile dell’unitarietà.
Uniti sotto lo stesso cielo, nella solidarietà, nella discussione e nella lotta per l’umanità del lavoro.
Il tempo della mobilitazione, delle mobilitazioni è ormai arrivato.
Avanti dunque, avanti tutte e tutti, perché domani tutte e tutti possiamo dire di avere fatto fino in fondo il nostro dovere.
Il nostro dovere che è quello di marciare ogni giorno un passo, dieci passi, un miglio più avanti dei nostri padri e delle nostre madri.
Il nostro dovere che è quello di riprenderci la parola e dare al paese una vera coscienza democratica.
Il nostro dovere che è quello di restituire all’Italia la certezza delle regole, la vita e la dignità di ogni persona, il sorriso della civiltà.
Buon lavoro a tutti noi!