Lavoro, famiglia, casa e relazioni sociali: cosa è cambiato per le donne durante l’emergenza Covid-19? Si alternano i numeri dei contagi, le idee sulla trasmissibilità, ma una cosa è certe per tutti: il virus ha stravolto le nostre vite. Una rivoluzione che ci ha obbligati a confrontarci con una dimensione diversa, sia nella sfera privata che in quella pubblica: lavoro, famiglia, casa e relazioni sociali, tutto è cambiato in questi mesi e non sappiamo ancora come si trasformerà nel futuro. Le fasi di crisi, però, possono essere un’opportunità di cambiamento, un’occasione per evolversi e migliorare, diminuire le disuguaglianze e offrire pari opportunità a tutti. Sarà così per le politiche di genere e gli stereotipi sul lavoro delle donne? Abbiamo rivolto alcune domande a Susanna Camusso, responsabile delle politiche di genere della Cgil per cercare di analizzare l’attuale situazione e ipotizzare prospettive future. Tratto da Il Magazine FILCAMS Scuole chiuse, smart working e gestione famigliare, quali sono state le difficoltà per le donne in questi primi due mesi di emergenza covid-19? La decisione di chiusura per emergenza covid-19 è stata improvvisa, con un cambiamento drastico tra politica delle zone rosse e lockdown generalizzato. Questo ha determinato una gestione improvvisata e priva di soluzioni. Gli antichi stereotipi si sono reinsediati saldamente e le lavoratrici hanno continuato a fare le acrobate, ma in casa. È tutt’altro che “più” semplice, se lavori da casa e non hai mezzi, o devi condividerli per tempo, spazi e supporti con i figli che fanno lezioni a distanza o con il tuo compagno. Questo pensando solo alla “materialità”, ma poi c’è un ulteriore carico che deriva dalle conseguenze della clausura. L’attenzione ai figli che va nutrita delle compensazioni alla loro perdita di socialità e relazione, il cambiamento dei ritmi ordinari di vita, le nuove difficoltà dovute all’interruzione del percorso di apprendimento. Tutte nuove contraddizioni che non puoi isolare con uno schermo di plexiglass o con la sola divisione degli spazi. Nella crisi covid-19 si sono ampliate le diseguaglianze, anche quelle di genere, oltre a quelle di reddito e abitative. È diventato ancor più evidente l’assenza di un welfare universale e di quanto poco sono diffuse pratiche di condivisione della cura. È all’opera un pensiero patriarcale e senza visione sociale. Per questo come riaprire la scuola, dall’infanzia in su, non è nei fatti all’ordine del giorno e tutto il tema della cura ruota intorno all’angelo del focolare. Pulizie delle scuole, addette mense, colf e badanti, il lavoro femminile nei settori della Filcams è stato messo a dura prova in questa fase di emergenza, cosa dovremmo cambiare per supportare le donne che lavorano ed eliminare le disuguaglianze per uscire dalla crisi migliorati? La pandemia ha reso evidente che un modello di sviluppo senza cura, senza centralità delle persone non funziona, non funziona per l’ambiente, non funziona per la salute, non funziona per il lavoro. Si è messo in evidenza il conflitto pubblico-privato, l’asimmetria tra bene pubblico e profitto, si è reso evidente come tutta la scala di valori, anche quello dato al lavoro, non funziona, perché svalorizza il prendersi cura ed esalta il guadagnare tanto. Anni di teoria di sola sostenibilità economica hanno determinato esternalizzazioni dei e dai servizi, welfare fai da te delle famiglie e così via. L’esito è quella trappola di lavoro faticoso, mal retribuito, invisibile che conosciamo: dalle lavoratrici delle pulizie, alle collaboratrici famigliari. Che fare? Nell’emergenza, come la Filcams sta chiedendo, bisogna garantire loro una protezione dignitosa del reddito e, per molte altre, ottenere la regolarizzazione delle migranti insieme a quella dei migranti. La fase 2, e quelle che verranno, devono essere il tempo per ridiscutere il sistema che pesa e sfrutta questo lavoro. Non esternalizzare, concedere detrazioni fiscali alle famiglie per l’emersione dal lavoro nero e precario, creare albi che permettano di riconoscere e valorizzare professionalità, possono essere alcuni terreni di proposta. La pandemia, l’assenza di strumenti adeguati a sostegno della genitorialità, nessuna presenza femminile nei gruppi di lavoro organizzati dal Governo per uscire dalla crisi, i diritti delle donne e delle lavoratrici sono sempre più a rischio? Il monopolio maschile delle task force è l’indicatore di una mentalità e di stereotipi che attribuiscono de facto agli uomini la “visione generale”, affermando che il loro punto di vista è di per sé universale e gli effetti si sono visti: un programma di riapertura che dava per scontato, direi quasi per naturale, che le donne stessero a casa. Svanito in un battito di ciglia tutto il plauso alle lavoratrici che ci hanno accudito e curato durante la crisi, torna la logica del massimo profitto e del risparmio sul welfare. È un non detto, ma la fase due così come concepita presuppone che le donne stiano a casa a farsi carico di tutte le politiche di cura, di organizzazione della famiglia, anche di sostegno ai traumi che il lockdown ha lasciato e lascerà nei minori. Penso, davvero, che ci sia il rischio, molto alto, di un arretramento dei nostri diritti, ancor più se pensiamo al clima oscurantista che già si respirava. L’abbiamo visto nella fatica di difendere la legge 194 in era covid, in scelte immediate come le protezioni che dimenticano che corpi maschili e femminili non sono uguali. Per questo bisogna immaginare tanta contrattazione, orari, condivisione, controllo sulla rotazione negli ammortizzatori, ma anche vigilanza sull’uso degli stessi ammortizzatori, sul lavoro da casa, e sulle dimissioni volontarie, cercandone eventuali cause che potrebbero essere nei fatti forzate dalla chiusura dei servizi e delle scuole. Dalle aggressioni fisiche all’odio online, in questa fase le violenze domestiche sono aumentate del 75%, lo stato ha messo in campo gli strumenti adeguati a sostegno delle donne? Le convivenze forzate sono una trappola nella trappola delle mura domestiche per le donne. Si è visto sia nella preoccupante diminuzione delle richieste di aiuto del primo periodo, sia nell’aumento costante nelle fasi successive. Alcuni provvedimenti importanti sono stati fatti: la campagna per il 1522, l’app diretta con le forze dell’ordine, gli stanziamenti per i centri antiviolenza e le case rifugio, il finanziamento per gli strumenti di sicurezza sanitaria, l’accordo con le farmacie come possibile luogo di richiesta di aiuto. Non in tutti i territori questi strumenti sono stati recepiti e tradotti, purtroppo, quindi c’è moltissimo da fare, anche per impedire che torni il silenzio sul tema. Poco invece si è fatto sul piano culturale e del linguaggio. e certo non aiuta il linguaggio bellico, il considerare un distanziamento fisico, necessario, come sociale. sono tutti linguaggi che celano la discriminazione di genere che poi si traduce nell’alimentare gli stereotipi ed anche la violenza verbale sui social, ed anche, in taluni casi, non pochi, nell’informazione. la pandemia di per sé alimenta paura e non necessariamente genera buoni sentimenti, anzi come abbiamo visto può alimentare il peggio, e tanti segni del patriarcato, mai morto, riprendono spazio.