martedì 30 gennaio 2007

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    RIFORMISMI. C’È CHI PARLA DEL PD COME DEL «PARTITO DEL LAVORO», MA...

    E' il sindacato che dovrebbe pensare all'unità

    di Emanuele Macaluso

    Diciamo la verità, il dibattito sul futuro della sinistra è scadente: si vuole ancora una volta sciogliere un partito, i Ds, che, bene o male, è quello che raccoglie più consensi nell'arco del centrosinistra; si vuole, ancora una volta, andare “oltre” il socialismo europeo, ma la discussione si nutre solo di interviste, articoli e discorsi propagandistici. Anche nel seminario di Orvieto, di cui tanto si è parlato, non si è andati oltre una ricapitolazione di analisi e storie note. Il dibattito si è acceso solo sulla relazione del professor Vassallo perché metteva in dubbio l'atterraggio morbido dei gruppi dirigenti nel “nuovo” partito. Quando invece la discussione si è fatta più concreta - con le dimissioni dal partito di Nicola Rossi, il distacco polemico di Peppino Caldarola e le critiche di molti all'operato del governo - e i giornali hanno svolto il loro mestiere nel riferire e commentare, nei Ds è scattata la vecchia sindrome del complotto e la vecchia molla della mobilitazione di tutti per respingere l'attacco del “nemico” che vuole delegittimare il segretario e il gruppo dirigente del partito. Una molla che al tempo stesso deve anche servire a mostrare che il consenso per la costruzione del cosiddetto Partito democratico è largo ed entusiastico.

    In questo quadro, a nostro avviso, va letto con attenzione l'articolo che il nostro amico Achille Passoni, segretario confederale della Cgil, ha scritto sull'Unità del 10 gennaio scorso e le dichiarazioni rilasciate ai giornali da altri segretari della stessa organizzazione sul tema, mentre il segretario generale Guglielmo Epifani, in materia di Pd, non ha ancora parlato e appare più cauto dei suoi colleghi. Diciamo subito che le argomentazioni che abbiamo letto nell'articolo di Passoni e nelle dichiarazioni di altri dirigenti ci sorprendono. Lo diciamo senza acrimonia ma con chiarezza anche perché la questione che in questa occasione vogliamo sollevare è di eccezionale rilievo. Nell'articolo del segretario della Cgil il punto centrale è questo: il Partito democratico «deve porre il lavoro al centro dei suoi riferimenti valoriali, delle sue scelte programmatiche, delle sue concrete politiche». E continua: «il lavoro rappresenta la chiave di volta per affrontare i temi fondamentali dello sviluppo eticamente sostenibile e della crescita, del governo dell'internazionalizzazione dell'economia e delle sue ricadute concrete sugli assetti economici e sociali del Paese». Si potrebbe continuare a lungo dato che le due colonne ribadiscono essenzialmente questo punto centrale. Ma la sorpresa, nella lettura dell'articolo, sta nel fatto che non c'è un minimo di analisi di ciò che sono oggi i due partiti che dicono di volere il Pd e se è pensabile che, insieme, si definiscano come il «Partito della rappresentanza politica del lavoro». Chissà perché e come mai Carlo De Benedetti vuole la tessera numero 1 di quel Partito del Lavoro.

    Purtroppo da anni nella vita politica tra il dire e il fare c'è sempre un mare che nessuno attraversa. E non è difficile capire che il cosiddetto Partito democratico non sarà il Partito del Lavoro, ma Passoni e i suoi compagni della segreteria saranno certamente in quel partito perché loro lo considerano il Partito del Lavoro. Così vanno oggi le cose. Nel momento in cui Passoni e altri spingono per il Pd, il segretario della Fiom, Gianni Rinaldini, e altri sindacalisti della sinistra massimalista partecipano attivamente e allegramente, insieme a gruppetti e parlamentari di questa sinistra, per dare forza alla cosiddetta Sinistra europea, nata in opposizione al Pse.

    Insomma chi tira da una parte, chi dall'altra, chi da destra, chi da sinistra, l'obiettivo comune è delegittimare il Pse come forza socialista e riformista, di governo o di opposizione. Tuttavia, la nostra osservazione centrale è un'altra: non c'è una parola, un solo accenno, né nell'articolo di Passoni né nelle altre prese di posizione dei segretari della Cgil né in quello che in altre occasioni dice Epifani, al tema dell'unità sindacale. La stessa osservazione la rivolgiamo ai dirigenti della Cisl e della Uil. A tutti, ma in particolare a chi predica la necessità di unire le forze che si richiamano al riformismo. Ci volete spiegare perché bisogna «unificare i riformisti» in un solo partito e non unificare i sindacati, che quel riformismo dovrebbero alimentare con le loro elaborazioni e con le loro lotte unitarie?

    Storicamente, non c'è mai stata l'unità politica dei “riformisti”. C'è stata invece l'unità sindacale, spezzatasi nel 1948. Negli anni '70 nessuno pensava di unire politicamente i “riformisti” ed era già fallita l'unificazione socialista. Ma il sindacato tentò e raggiunse quasi la soglia dell'unificazione. Perché dopo il crollo del muro di Berlino tutti gli assetti politici sono stati messi in discussione e quelli sindacali no? È su questi nodi, cari amici del sindacato, che bisognerebbe aprire una discussione vera. A meno che il tema dell'unità politica dei riformisti e del cosiddetto Partito democratico o della Sinistra europea (massimalista) serva ancora una volta ad eludere il tema centrale dell'unità sindacale. Non mi stupisce che i leader dei Ds e della Margherita non ne parlino, pensano ad altro. Mi stupisce invece che i dirigenti del sindacato parlino d'altro. O no?


    Tratto dall'ultimo numero de “Le ragioni del socialismo” da lunedì prossimo in edicola