La scelta (che rompe un tabù) di Torino, Genova e Palermo. Milano ci pensa
Il 25 aprile è stato già «sdoganato», ora i commercianti milanesi vorrebbero fare la stessa cosa anche con il Primo maggio: tenere alzate le saracinesche dei negozi, come già è stato concesso a Monza, Genova, Cagliari, Palermo e Torino.
I sindacati. Le organizzazioni sindacali hanno già detto di no. «Comprendo la loro opposizione, ma non posso ignorare le richieste del mondo del commercio», dice l’assessore Terzi. La decisione nei prossimi giorni.
E’ il Primo maggio, tutti al lavoro». Quella che fino a ieri sarebbe passata come una provocazione, oggi diventa un invito a cui, complice la crisi, è difficile dire no. A violare la sacra festa dei lavoratori è sempre più spesso il mondo del commercio. Si allunga anno dopo l’elenco dei comuni che autorizzano i negozi a tenere aperto il Primo maggio. E anche nel mondo della piccola impresa il Natale laico dei dipendenti non è più un tabù.
Dall’anno scorso i milanesi possono fare shopping il 25 aprile. Per la prima volta nel 2009 i negozi hanno avuto la possibilità dal Comune di accogliere i clienti anche in occasione della Liberazione. Oggi si pensa anche al Primo maggio. Sebbene ieri, durante una riunione a palazzo Marino, i confederali abbiano espresso un no categorico. «Comprendo l’opposizione dei sindacati — riflette l’assessore al Commercio del capoluogo lombardo, Giovanni Terzi —. D’altra parte non posso ignorare il richiamo del mondo del commercio, soprattutto in un momento di crisi come questo. Nei prossimi giorni prenderemo una decisione».
«I nostri associati ci chiedono sempre più spesso di poter tenere aperto anche il 25 aprile e il Primo maggio — si inserisce Pietro Rosa Gastaldo, direttore generale di Confesercenti Milano —. Il calo dei consumi impone un sacrificio, anche personale, per evitare di perdere occasioni di vendita, in particolare nelle grandi città e nelle zone con maggiore attrazione turistica».
Intanto a Milano una certezza c’è già: il prossimo Primo maggio i mercati comunali scoperti si terranno come se fosse un sabato qualunque. A Torino è sicuro: le saracinesche nell’area turistica del centro potranno restare alzate. È la prima festa dei lavoratori con i negozi aperti sotto la Mole. Domenica due maggio si farà il bis. La decisione è stata condivisa dal sindacato, complici anche le esigenze legate all’ostensione della Sindone: non si possono trascurare i turisti che arrivano copiosi in città. Ma i centri che il Primo maggio terranno aperti i negozi sono anche altri: Monza, Genova, Cagliari, Palermo per fare solo qualche esempio.
Richieste in crescita
A dire il vero sulle aperture festive il mondo del commercio è diviso. Anche se la crisi tende a far pendere il piatto della bilancia dalla parte di coloro che vogliono alzare le saracinesche. «Registriamo un aumento delle richieste di deroga motivate da esigenze di bilancio. Per alcuni tenere aperto vuol dire anche riuscire a difendere meglio l’occupazione», osserva Renato Borghi, vice presidente Confcommercio. «D’altro canto— tiene ad aggiungere Borghi — il Primo maggio rappresenta conquiste e valori di partecipazione democratica che riteniamo anche nostri. Sull’argomento affineremo il sondaggio che registra i pareri degli associati».
Ma cosa vuol dire per la cassa di un negozio un sabato come quello del prossimo Primo maggio? «Molto dipende dal settore merceologico. Ma in media gli incassi del sabato valgono come quelli di due giorni feriali», dimensiona la posta in gioco Sandro Castaldo, docente di Marketing alla Bocconi di Milano. «Di solito tenere aperto anche nei festivi è più facile per chi ha un’organizzazione del lavoro su due o più turni», precisa Castaldo. Quindi per la grande distribuzione. Non è un caso che tra coloro che a Milano chiedono a gran voce l’apertura il Primo maggio ci siano anche alcune grandi catene.
«Molti dei nostri associati hanno questa esigenza— constata Paolo Barberini, presidente di Federdistribuzione, associazione che rappresenta le grandi insegne —. Avere più opportunità per tenere aperto spesso vuol dire aiutare le famiglie a fare acquisti più ragionati. Inoltre anche in questi primi mesi del 2010 i consumi sono deboli. Più giornate di apertura danno ossigeno ai conti delle imprese». «I beni non di prima necessità vengono acquistati nel tempo libero. Per questo le aperture di sabato e domenica sono così importanti», fa notare Alberto Baldan, direttore generale di Rinascente. «Certo, bisognerebbe che i comuni si decidessero per tempo. Ci terremmo ad avvertire i dipendenti con un certo anticipo».
A interrogarsi sulla necessità di una declinazione del Primo maggio aggiornata ai tempi non è solo il mondo del commercio. Negli Anni ’60 il 50% dei dipendenti in Italia si trovava in aziende con più di mille dipendenti. Oggi quel mondo non esiste più. «In molte piccole imprese datore di lavoro e dipendenti sono fianco a fianco. Gli stessi lavoratori si autogestiscono. Il conflitto sociale si è ridotto, con buona pace del sindacato. Così se arriva una commessa urgente in tempi come questi nessuno si tira indietro anche se è il giorno del lavoratori», esemplifica il presidente di Confapi, Paolo Galassi.
Festa operaia
«Il Primo maggio era la festa della classe operaia. Oggi gli operai sono sempre meno. E dove ci sono vengono ignorati — aggiunge un altro tassello Giulio Sapelli, docente di Storia economica alla Statale di Milano. « Questo appuntamento ha una centralità simbolica sempre minore. La cultura diffusa del Primo maggio è sparita — continua Sapelli —. Anche se bisogna rilevare una recente inversione di tendenza. Si sta riscoprendo il valore del lavoro, compreso quello operaio. Una nuova centralità che potrebbe tradursi col tempo in un Primo maggio rivisto e aggiornato».
Ultimo ma cruciale in questo dibattito il parere del sindacato. «Di anno in anno a ridosso di feste fondamentali come il 25 aprile e il Primo maggio aumenta la tentazione dei comuni di fare forzature», rileva Maria Grazia Gabrielli, responsabile del tema «orari» per la Filcams, i lavoratori del commercio della Cgil. «Ora la crisi fornisce un nuovo argomento — conclude Gabrielli —. Ma resta il fatto che non tutto può essere giustificato dalla necessità di favorire i consumi. Ci siamo spinti troppo oltre. Una valutazione, questa, che condividiamo con il mondo cattolico».