Uno stipendio dignitoso, orari abbordabili e la garanzia di avere alle spalle un ente sicuro: ecco l'identikit del lavoro pubblico, il sogno di molti italiani. Ma il mito sfuma in fretta, perché negli ultimi tre anni l'inflazione ha divorato quasi il 20% dello stipendio di questa categoria. Tra il 2001 e il 2004, sia l'aumento incontrollato dei prezzi che gli effetti del fiscal drag (resistenza fiscale) hanno contribuito a una perdita complessiva del 18,4% del potere di acquisto delle retribuzioni per circa 3 milioni e 400 mila lavoratori del pubblico impiego; inoltre la perdita del potere di acquisto dei dipendenti pubblici, per il solo effetto dell'inflazione, non è stato come sostiene l'Istat del 9,8% ma del 22,2%. È quanto emerge dallo studio effettuato dall'Eurispes basato anche su dati Istat. Prendendo come punto di partenza il 2001, anno al quale fanno riferimento la maggior parte dei contratti da rinnovare e di quelli già firmati, ma per i quali manca ancora l'accordo per la parte economica, si osserva che, utilizzando i dati Istat, l'inflazione, da allora a oggi, è aumentata complessivamente del 9,8% mentre le retribuzioni del settore pubblico sarebbero cresciute soltanto dell'8%. Quindi la conseguenza è lampante: anche volendo prendere per buoni i dati dell'Istituto di statistica vi è una sicura, seppur modesta, perdita di potere di acquisto delle retribuzioni del pubblico dipendente. Inoltre, all'effetto inflazione vanno sommati gli effetti prodotti dal meccanismo del fiscal drag dovuti al carattere di progressività del nostro sistema fiscale. L'Eurispes ha calcolato un valore medio del fiscal drag prendendo come pesi le retribuzioni del pubblico impiego e ha ottenuto un coefficiente di 0,525, questo ha permesso di calcolare la perdita complessiva di potere d'acquisto dei dipendenti pubblici, in regola con il pagamento delle tasse. La perdita di potere d'acquisto è stata quindi di oltre il 18%. Per valutare il sacrificio sopportato in media da questa categoria, ai pubblici dipendenti sono stati sottratti, in soli tre anni, quasi 200 euro ogni 1.000 percepiti. Una perdita secca corrispondente a quella quota di reddito che in tempi migliori e secondo più efficaci e lungimiranti politiche economiche governative veniva destinata al risparmio, al quale sempre meno famiglie in Italia riescono ad avvicinarsi. Tale tesi è stata anche avvallata da Antonio Foccillo, segretario confederale Uil, il quale ha sostenuto che le richieste delle organizzazioni sindacali del pubblico impiego sono giuste e che la perdita del potere di acquisto dei salari nel settore pubblico è stata abbondantemente superiore all'inflazione, senza considerare gli effetti prodotti del fiscal drag. Naturalmente questo incide profondamente sui consumi e non produce sviluppo e ridistribuzione di ricchezza con grave danno non solo per tutti i settori produttivi, ma per l'intero paese. Inoltre lo stesso Foccillo ha anche sostenuto che i lavoratori hanno diritto ad avere presto i contratti poiché sono già stati costretti a fare enormi sacrifici con una serie di scioperi.
L'inflazione secondo l'Eurispes
La prima correzione da fare in merito all'inflazione, secondo l'Eurispes, riguarda proprio il calcolo della stessa inflazione. Dal 2001 (gennaio) al 2004 (agosto) l'Istituto centrale di statistica denuncia una perdita del valore della moneta pari al 9,8%. Tutti i lavoratori con un reddito inferiore ai 50 mila euro annui hanno avvertito negli anni passati una decurtazione del proprio potere d'acquisto ben più grande, e tale da costringerli a ridurre i consumi e a rinunciare alle proprie abitudini di risparmio. Questo è confermato da tutti gli indicatori economici, che mostrano un calo della domanda di prodotti di consumo e durevoli, una riduzione delle famiglie che riescono a risparmiare, un forte calo della produzione industriale, un crollo degli ordinativi e del fatturato delle imprese. La omogeneità di comportamento delle famiglie, che riducono la spesa e il risparmio, al Nord come al Sud, fa ragionevolmente ritenere che la perdita d'acquisto abbia colpito indifferentemente gli autonomi, i dipendenti privati e i lavoratori del settore.
Il potere d'acquisto del dipendente pubblico
L'Eurispes non ha fatto rilevazioni dei prezzi negli anni precedenti al 2002, anche perché i dati forniti dall'Istat erano in quegli anni apparsi in linea con le percezioni medie delle associazioni dei consumatori, dei rappresentanti dei dettaglianti e soprattutto coerenti con gli altri indicatori economici. Secondo le rilevazioni sui prezzi è proprio il 2002 l'anno in cui si inizia a registrare in Italia una marcata e incontrollata spirale inflazionistica. Relativamente al 2003 e nel primo semestre 2004, le rilevazioni mostrano differenze più contenute ma pur sempre significative, e negli ultimi sei mesi i settori della ristorazione, dei pubblici esercizi e servizi alberghieri hanno mostrato un'impennata preoccupante dei prezzi. Il divario non è quindi esclusivamente riconducibile al solo 2002, ma è il salto compiuto dai prezzi di quell'anno che ha modificato in maniera significativa il panorama macroeconomico del quadriennio 2001-2004, periodo rispetto al quale si collocano gli accordi da stipulare dei dipendenti pubblici che, se perfezionati, avranno valore, per la maggior parte dei soggetti implicati nella trattativa, dal 1° gennaio 2003. Quindi secondo l'impostazione metodologica Eurispes, è stato possibile rilevare che la perdita del potere di acquisto dei dipendenti pubblici, per il solo effetto dell'inflazione, dal 2001 al 2004, non è stata come sostiene l'Istat del 9,8% ma del 22,2%. Così come mostra la tabella, sia con i dati Istat che con quelli Eurispes, i pubblici dipendenti hanno visto diminuire il proprio potere d'acquisto. Se l'inflazione è stata negli anni passati superiore a quella calcolata dall'Istituto centrale di statistica, tale perdita di potere di acquisto è stata di natura tale da modificare profondamente le abitudini di consumo dei pubblici dipendenti. Tuttavia, la perdita del potere d'acquisto dei dipendenti pubblici e in genere di ogni percettore di reddito è ben maggiore di quella misurata operando un semplice confronto tra l'aumento della retribuzione e aumento dell'inflazione. Infatti se la retribuzione si accresce e non importa se questo aumento sia reale o fittizio, se dunque la retribuzione si accresce anche solo in termini nominali, automaticamente scatta il cosiddetto fiscal drag, ossia un aumento del carico fiscale superiore all'incremento nominale del reddito.
Questo perché il sistema fiscale è progressivo e richiede sacrifici proporzionalmente maggiori al crescere del reddito. (riproduzione riservata)
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