Negozi aperti o chiusi di domenica? Facile dire: è un problema per le grandi città e per quelle con una vocazione turistica. Nel 1900 la popolazione urbana del mondo rappresentava il 10% del totale e nei cinque continenti, contava circa 150 milioni di cittadini. Da tre anni, nelle città del pianeta abitano il 50% degli esseri umani e, secondo stime attendibili, si tratta di circa 5 miliardi di anime. Attualmente, 22 città superano gli 11 milioni di abitanti. Tra dieci anni, Tokyo e Bombay supereranno i 27 milioni. Già oggi, come in un prossimo futuro, chi vorrà testimoniare e annunciare Cristo non potrà dispensarsi da alcuna forma di “modernità” perché antistorico e, quindi, antievangelico. E il bello dell’antropologia sociale è proprio questo, prevedere i cambiamenti materiali delle culture da piccoli segni che ne anticipano le crisi strutturali.
Per dirla meglio: per la secolarizzazione della società italiana ha fatto più il cattolico Andreotti quando a metà anni Settanta sfoltì il numero delle feste religiose (per motivi di finanza pubblica: anche allora, la crisi economica motivava tutto) riconosciute dallo Stato, ottenendo anche il silenzio del Papa (che tacque, si disse in giorni agitati dal terrorismo, “pro bono pacis”) che i tanti laiconi che in quegli anni (la citazione è di Longanesi) cercavano la rivoluzione e trovavano il benessere.

Fa dunque sorridere il silenzio dei bravi cattolici che, nel segreto della fiera delle carriere di Todi, sembrano aver perso la parola a favore di un incantamento economicistico che sta facendo a pezzi anche la domenica degli italiani, un residuo pezzetto ancora intatto dell’identità del popolo: la forbice dei nostri connazionali che, ogni settimana, osservano il precetto festivo varia tra i sette-dodici milioni. Una delle dispute tra Gesù e i farisei riguarda proprio lo shabbat, giorno sacro degli ebrei e che i cristiani, agli inizi del secondo secolo, sostituirono con la domenica. Lo shabbat era regolato da norme talvolta infrante da Gesù e dai suoi discepoli. I farisei infatti rimproverano severamente a Gesù di fare guarigioni proprio durante il giorno sacro. Noi conosciamo la sua risposta da Luca 6,7:«Domando a voi: è lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o perderla?». In un’altra occasione i farisei fanno osservare al Signore come, avendo insieme ai suoi discepoli sradicato spighe di grano per nutrirsene, avessero violato la legge dell’astensione dal lavoro nel giorno festivo. E questa volta è Marco 2, 27-28 a consegnarci la risposta di Gesù: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell’uomo è il signore anche del sabato». Qui Gesù lascia intendere il grande enigma della sua identità profonda: si presenta come più grande di Mosè, colui al quale Dio aveva rivelato la legge, ma spiega anche qualcosa di molto attuale nella nostra società multiculturale.
Egli proveniva dalla Galilea dove la sua famiglia ebrea viveva in un contesto fortemente abitato da non ebrei, e dove era dunque facile rinchiudersi nel proprio particolarismo. Eppure, secondo il Cristo, i regolamenti religiosi non devono ostacolare la gioia del vivere ma, al contrario, sostenerla e guidarla verso una giusta relazione con Dio e con i fratelli. Come ricordato anche dai vescovi italiani, l’interpretazione della legge religiosa dovrebbe essere interiore, personale e responsabile e non un’obbedienza servile fatta di paure e scrupoli. La domenica non va sacrificata all’imperante legalismo economicistico, «altrimenti si perde di identità e coesione: non solo la famiglia non ha più tempo per sé, ma la società non diventa più efficiente e produttiva, ma meno coesa, più agitata e nevrotica», così il giorno di Pasqua, nella sua omelia, il cardinale Bagnasco ha detto ai suoi fedeli genovesi, riferendosi a chi vorrebbe trasformare la domenica in giorno di lavoro ordinario, quindi anche al manipolo di devoti del governo, ed ha così continuato: «come cristiani, non possiamo fare a meno della domenica, giorno del Risorto…in questo santo giorno l’uomo si riposa dal lavoro, la famiglia si ritrova con tempi distesi, i cristiani partecipano alla liturgia eucaristica, la società cresce».
Le parole che nelle esortazioni vescovili ricorrono sono “lavoro” (quindi diritti del lavoratore), “famiglia” (quindi politiche a sostegno), “partecipazione” (dunque libertà di realizzarsi non solo come cittadino ma anche come credente, sportivo, turista…), e “crescita sociale” (quindi interscambio tra individui e gruppi diversi). Facile gridare “valori non negoziabili” quando si contano i numeri dei ginecologi obiettori di coscienza e quello dei farmacisti che non vendono medicine condannate all’ostracismo. Ma quando si tratta di tutelare la vita quotidiana e ordinaria, chi grida?