5/11/2007 ore: 10:31
Milano: la battaglia delle commesse per il contratto
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Pagina 16 - Economia & Lavoro Assemblea a Milano per la vertenza del commercio, un settore in cui convivono una estesa precarietà, buste paga magre e diritti sindacali negati Laura Matteucci «È impossibile vivere con mille euro al mese? Figuriamoci con 500!». Salario (troppo basso), precarietà (troppa e troppo diffusa): sono le parole che più ricorrono nel salone Di Vittorio, Camera del lavoro di Milano, attivo dei delegati del commercio in preparazione dello sciopero nazionale previsto per il 16 e 17 novembre. «Una cosa mai successa prima: Confcommercio ha rotto le trattative sul rinnovo del contratto senza nemmeno entrare nel merito delle questioni, solo per motivi politici. Sostanzialmente, in polemica con il protocollo del welfare e col governo». Così spiega Graziella Carneri, segretaria della Filcams Cgil Milano. Morale: i quasi 2 milioni di lavoratori del commercio, donne per il 60% circa, sono senza contratto dal dicembre 2006, e nemmeno riescono a sedersi con la controparte al tavolo della trattativa. Eppure, i problemi del settore sono in esponenziale aumento, e qui sotto il grande ombrello dei precari c’è una categoria in aggiunta, oltre a contratti a termine, a progetto, interinali, stagionali: ormai, l’80% delle nuove assunzioni viene contrattualizzata part-time, un miraggio per tante neo-mamme dell’industria, un incubo per migliaia di commesse e commessi. «L’80% di noi, 4.800 lavoratori su 6mila, è part-time - dice Massimo Cuomo, delegato Ikea - Non bastasse, nello stesso negozio girano circa 340 contratti a termine l’anno». Tradotto in busta paga, significa mediamente 6-700 euro al mese, con minimi di 500 euro e massimi che si raggiungono solo lavorando anche quattro domeniche su quattro. Che Draghi, il governatore di Bankitalia, pensasse alle commesse, l’altro giorno quando ha dichiarato che in Italia i salari sono troppo bassi? Quello domenicale e festivo è un altro punto dolente del settore, con Confcommercio che tenta sempre più di «normalizzare» gli orari (e i relativi compensi) che sono sempre stati straordinari. All’inizio dell’Ikea le domeniche venivano pagate anche il 300% in più, adesso si arriva al 30%. E sembra essere già un lusso. Di più: «Dal 2006 - continua Cuomo - Ikea assume solo con l’obbligo di lavorare anche nei festivi. Siamo di fronte ad uno stravolgimento della società e dello stesso assetto familiare, eppure nessuno ne parla». I figli, i mariti, le mogli e gli amici si vedono poco. «Quando ci sono, perchè è chiaro che fare un progetto familiare con questi stipendi diventa complicato...». Ikea, il colosso svedese del mobile fai-da-te, leader nel part-time, pare abbia in programma di aprire 45 nuovi negozi nel prossimo decennio: «Se queste sono le condizioni...». Alla catena di discount Lidl, invece, dove la politica del part-time è meno dilagante, le otto ore sono all’insegna del più operoso trasformismo: mansioni indefinite, si passa dallo scaricare i camion ed aprire i cartoni a mani nude allo stare alla cassa per ore e ore di fila, non senza aver imparato a memoria cetinaia di codici di altrettanti prodotti. C’è chi ha dieci minuti di pausa per turni di sei ore, la cassa è una catena di montaggio da cui non si può staccare nemmeno per andare in bagno. Perchè il tempo, e quindi la produttività, è il sovrano assoluto. Lo sanno bene anche le commesse Coin, in particolare la quarantina della filiale milanese di piazzale Loreto, protagoniste un paio d’anni fa di una storica battaglia che spiazzò l’azienda con un mese e mezzo filato di sciopero (e buste paga in bianco), assemblee e presidi per mantenere delle «normali» turnazioni invece dell’introduzione dell’orario spezzato come deciso dall’azienda. Una battaglia che alla fine ll’azienda vinse anche con il ricatto della chiusura della filiale e quindi del licenziamento a tappeto: «adesso per lavorare otto ore stiamo in ballo dalla mattina presto alla sera tardi, perchè abbiamo un orario spezzato con pause di due ore e più», racconta la delegata Raffaella Patruno. Che, per inciso, con 36 anni di anzianità e tutti i plus previsti dal contratto, prende 1.240 euro al mese. «Reddito e precarietà sono problemi centrali, e diventano un problema sociale che pesa su tutti e di cui anche le aziende si devono far carico - dice ancora la segretaria Carneri - Ma, innanzitutto, c’è da riconquistare il tavolo della trattativa. Di certo, Confcommercio non può utilizzare il contratto come strumento di rivalsa politica». La piattaforma (unitaria) è lì da discutere: 78 euro lordi in due anni di aumento, e una serie di norme proprio a sostegno dei precari, dal riconoscimento dell’indennizzo di malattia e infortunio anche per gli apprendisti all’innalzamento del minimo orario contrattuale, che ora è di 16 ore. Ma il primo passo sono i due giorni di sciopero di metà novembre, venerdì e sabato pre-natalizi. |