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Relazione Introduttiva del Segretario Nazionale Cristian Sesena C. D. FILCAMS CGIL, 8-9/05/2012

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Il 23 marzo 2002 tre milioni di persone tra cui la maggioranza di noi, riempivano il Circo Massimo per protestare contro la pretesa del Governo Berlusconi e dell’allora ministro del lavoro Roberto Maroni di cambiare l’articolo 18, abolendolo per i giovani in via sperimentale e conservandolo per chi già ce lo aveva.

Forse una delle immagini di quella luminosa giornata che più restano ancorate alla memoria, è quella dei padri che sfilavano con i figli, dicendo NO alla divisione, alla frattura fra generazioni.

La CGIL vinse quella battaglia, da sola, riuscendo a convogliare in un sano antagonismo la sofferenza di un paese intero.

Il Governo, anche se non formalmente, fece di fatto un “passo indietro”. La CGIL vinse senza CISL e UIL e nell’indifferenza se non nell’ostilità delle forze politiche “amiche”.

Risvegliandosi all’indomani di quella giornata nessuno pensò che la guerra era appena iniziata e che quella, seppur decisiva, sarebbe stata solo la prima fase di uno scontro lunghissimo che registrò per noi fasi alterne.

Il libro bianco di Maroni, la legge impropriamente e, con chiari intenti mediatici definita “Biagi”, il decreto 276, di fatto riuscirono laddove lo scontro frontale non aveva pagato: la precarietà entrò nella vita dei giovani e non solo, attraverso 46 forme contrattuali diverse, che non soggiacevano a tutele di sorta e tantomeno all’articolo 18.

Queste leggi seppur da noi contrastate, erosero lentamente il suolo sotto i nostri piedi, sgretolarono pian piano le basi stesse della nostra rappresentanza.

La contrattazione non ha arginato, se non in minima parte, questa ondata.

ll patto generazionale che era stato così icasticamente rappresentato dalla piazza del 23 marzo 2002 si incrinò.

Se volessimo saccheggiare grossolanamente la sociologia di strada, di certo, il berlusconismo come modus vivendi sociale imperante e modus operandi politico, ha fertilizzato questo terreno facendo germogliare paura, solitudine, individualismo.

Non a caso la Crisi che stiamo attraversando è una crisi che vede emergere tanti sentimenti contrapposti ma non certo prevalere quello che tutti noi ci saremmo aspettati: la solidarietà.
La difficoltà nella gestione sindacale e contrattuale di questi ultimi anni ci insegnano, senza ipocrisia, che, ad esempio, la nostra opposizione ai doppi regimi salariali fra vecchi e nuovi assunti, è diventata la battaglia della Filcams che a volte la Filcams ha combattuto e combatte a dispetto della Filcams stessa, nel tiepido interesse per non dire disinteresse dei lavoratori.
Ci tornerò, parlando della stagione contrattuale che stiamo attraversando.

Se pertanto la modifica unilateralmente introdotta dal Governo dei Tecnici all’articolo 18 sanguina perché inutile, dannosa, potenzialmente devastante, dall’altro non possiamo ignorare che essa non è che un anello di un articolato composito che si propone non senza retorica di sistematizzare tutto quanto determinatosi sul lavoro e nel lavoro nell’ultimo decennio.

Sistematizzare e “normalizzare”, ossia fare indossare la grisaglia della presentabilità all’esistente, come del resto si cerca affannosamente di rendere presentabile l’immagine di un Paese da operetta o da burlesque, nelle stanze del potere europee che ormai coincidono con le borse e i mercati.

Il disegno di legge del ministro Fornero ambisce ad essere organico ossia a ritratteggiare i contorni del mondo del lavoro e della vita lavorativa dal suo inizio, al suo termine, senza tralasciare i momenti di pausa o di interruzione, cui dovremmo imparare ad allenarci, perché la modernità prevede i lavori e non il lavoro, le postazioni mobili e non il posto fisso.

La risposta di una confederazione sindacale come la nostra che ambisce ad essere sindacato di tutti i lavoratori non può che, per essere incisiva e credibile, mostrarsi sfidante proprio sul terreno di questa presunta organicità.

Tutti noi sappiamo che l’articolo 18 va difeso impedendo che venga bruciato sull’altare di interessi che non sono quelli del paese.

Tutti noi sappiamo che la sua manomissione o il suo snaturamento, significherebbero non solo lo sbilanciamento dei rapporti di forza fra padroni e lavoratori in favore dei primi, ma anche tra l’altro, la progressiva sterilizzazione delle libertà sindacali e della nostra rappresentanza.

Tutti noi sappiamo che i paragoni con altri paesi sono stati incauti per non dire impropri.

I paesi che non hanno l’articolo 18 (mi riferisco ad esempio al Nord Europa) posseggono un sistema di ammortizzatori sociali tali da consentire realmente l’attuazione della “flexsecurity”.
Sono paesi poco popolosi, con alti salari ed una pressione fiscale altrettanto alta, paesi in cui il non pagare le tasse e il licenziare i dipendenti senza motivo, sono considerati reati lesivi dell’immagine non solo dell’imprenditoria locale, ma anche del vivere civile.

Paragonare Italia e Danimarca come ha fatto Monti risulta quantomeno bizzarro e poco credibile.

Se in Italia si tende a tutelare il posto di lavoro fisso è per due semplici motivi che con l’ideologia hanno poco a che fare: il primo è che l’approdo allo stesso non è mai stato immediato ed agevole, il secondo è che, una volta perso il posto di lavoro, soprattutto ad una certa età, lo stato non ha mai mandato a regime un sistema di welfare che accompagnasse il lavoratore verso una nuova occupazione.
Il Patto per L’ Italia di Maroni Angeletti e Pezzotta prometteva miliardi di investimenti sugli ammortizzatori sociali e le politiche attive: l’unica controriforma che si fece fu quella della legge 30, totalmente a costo zero.

Tutti noi lo sappiamo e facciamo bene a ripetercelo e a ripeterlo, perché certe argomentazioni perniciose e volutamente false, rischiano, nel gran bisogno di serietà e di certezze, di trovare sponde acritiche nell’opinione pubblica, soprattutto se pronunciate da cattedratici di chiara e sobria fama.

Ma non possiamo ignorare che dietro alla porta c’è altro. C’è una generazione o forse più di una che vanno recuperate, salvate, anche se magari la loro voce non ci viene forte dai cortei, perché a loro non è possibile nemmeno formare un corteo.
Conosco diverse persone, partite iva, collaboratori a progetto anche over 40 che quando c’è uno sciopero mi dicono “ io ci sarò col cuore”.
Queste persone molto spesso hanno un finto contratto autonomo che non prevede, pena la risoluzione, la possibilità di esercizio di un diritto costituzionale come quello dello sciopero.
E queste persone rischiano, paradosso dei paradossi, di appartenere ad un gruppo di “privilegiati” rispetto al 36% di giovani disoccupati che l’ISTAT ha impietosamente dichiarato, per un totale di 2.506.000 persone.

Alla CGIL pertanto spetta uno sforzo disumano in questa fase delicatissima: tenere insieme, condurre insieme, sanare quella frattura generazionale su cui non possiamo più tacere e che rischia di essere un solco tra chi un lavoro seppur sottopagato e sotto tutelato ce l’ha e chi no, e nemmeno più lo cerca.

Credo che ripercorrere brevemente la storia di questa “Controriforma” aiuti a chiarirci su alcuni aspetti che anche durante il dibattito confederale forse non sono emersi con il dovuto nitore.

Il Governo ha effettuato una consultazione di stampo europeo con le parti sociali, e se non fosse stato per l’opposizione della CGIL, le avrebbe ascoltate ad una ad una, arrogandosi poi il diritto dovere di fare sintesi.

La consultazione collettiva da noi pretesa si è prodotta in una policy governativa assolutamente stringata e interpretabile che non ha visto la firma di nessuna delle parti sociali. Anche in questo caso la CGIL aveva detto NO a partire proprio dalla incomprensibile modifica dell’articolo 18 che cancellava il reintegro nei licenziamenti per motivi economici.

Il sindacato che con maggior coerenza e linearità aveva contrasto metodo e merito ha pertanto iniziato, al termine di questo negoziato/ farsa, un’azione di pressione verso le forze politiche e verso il paese attraverso la mobilitazione per cambiare radicalmente tutta la riforma, che aldilà del suddetto passaggio consultivo, non rappresenta un accordo ma una libera decisione dell’esecutivo, presa assieme ai leader “ABC”, esautorando il ruolo delle parti sociali.

Davvero singolare il modus operandi dei tecnici, che decidono a prescindere il merito del confronto con le parti sociali (le pensioni ad esempio secondo la loro opinabile impressione non lo erano), e poi lo esportano a livello della politica, loro che più di una volta hanno dichiarato di essere disinteressati al consenso, non mirando a compiacere un potenziale elettorato ma solo al bene del paese.

La policy ha quindi germinato un disegno di legge che ha oggettivamente peggiorato quanto ci aspettava, solo su un aspetto si è registrato un avanzamento o meglio un arretramento rispetto alla prima stesura, la reintroduzione della facoltà del reintegro in caso di manifesta insussistenza della causale economica.

Facoltà e non automatismo come era prima degli interventi di Fornero e Monti.

Ad una analisi oggettiva, asettica e apolitica, se su tutto il resto si è peggiorato, in questa parte abbiamo assistito ad un seppur arzigogolato e blando ripensamento.

E’ sufficiente? Assolutamente No. Ma non si può in virtù del ragionamento fatto prima fermarci qua. Se ripristinassimo lo status quo ante sull’articolo 18 lasciando il resto come è ci riterremmo soddisfatti?
O forse non assisteremmo ad uno scenario, stavolta però concentrato nei tempi per gli effetti della crisi, e non dilatato in un decennio, di ulteriore erosione della nostra base e dei nostri diritti per via sussidiaria e non diretta, che ci obbligherebbe ad un arroccamento in cittadelle sempre più esigue di diritto mentre attorno dilagherebbe un far west incontrollabile?

Con 2 506 000 disoccupati, con l’esercito di precari destinato a rimpolparsi per effetto di misure correttive blande introdotte dalla riforma, con crescita zero o sottozero, il quadro che ho appena descritto potrebbe non discostarsi di molto da quello che ci attenderebbe non fra dieci anni, ma domani.

L’articolo 18 incardina un modello più ampio di idea del lavoro e un sistema di tutele universali che abbiamo il dovere di estendere e costruire per tutti i lavoratori. Lo incardina ma non lo esaurisce, come la riforma non si esaurisce alla inspiegabile, iniqua, manomissione dello stesso.

Il dito della professoressa Fornero si è levato insegnandoci a distinguere la flessibilità buona da quella cattiva.

Il concetto espresso era abbastanza chiaro; la sua traduzione nel dispositivo di legge assolutamente no. Nel senso che tutta la flessibilità cattiva rimane, nella migliore delle ipotesi viene resa solo, come si è detto, più “educata” , più presentabile.

Non è mia intenzione ripercorrere in questa sede punto per punto tutto il disegno di legge. Negli scorsi giorni la Filcams Nazionale ha prodotto una nota “tecnica” che mirava a contestualizzare la riforma nei nostri settori, e che voleva offrire un contributo integrativo a quelli espressi dalla Confederazione.

Ne piglierò alcuni secondo la logica appunto di voler continuare ad evidenziare quelli ai nostri settori più vicini e più impattanti.

Primo dato incontrovertibile: nessuno dei contratti atipici è stato abolito nemmeno quelli più pacificamente identificabili con la flessibilità cattiva.

L’associazione in partecipazione è stata resa di più complessa attuazione, ma ancora pienamente fruibile.
Contro questa forma contrattuale Filcams e Nidil avevano promosso una campagna di denuncia rispetto agli abusi che si registravano nei negozi di outlet e grandi centri commerciali. In epoca di estensione degli orari di apertura per effetto della liberalizzazione è facile intuire come esso non passerà facilmente di moda.

Il lavoro a chiamata ( il ricorso a questo contratto è cresciuto dal 2009 al 2011 del 247%) non potrà più essere a tempo determinato né funzionare come sostituto a basso prezzo del part time w end.
Ma seppur apparentemente il suo utilizzo è reso meno agevole da un obbligo di comunicazione preventiva e dal rischio di sanzioni pecuniarie in assenza delle stesse, esso continua a rimanere appetibile in molti nostri settori a partire da quelli a forte tasso di stagionalità.

La contrattazione è chiamata dalla norma esplicitamente a dover ragionare delle casistiche di utilizzo.
E’ abbastanza intuibile come la trattativa per il rinnovo dei CCNL del Turismo dovrà quasi certamente fare i conti con questo problema non secondario: la Filcams dovrà arrivare preparata all’appuntamento, interrogandosi fin da ora su quale atteggiamento assumere a quel tavolo, sapendo che a quel tavolo gli scambi saranno complicati (il settore alberghiero solo per fare un esempio, ha registrato un -18% nel 2011).

Nessuno chiedeva l’abolizione del rapporto a tempo determinato, ma che esso terminasse di essere un “contratto-ricatto” senza alcuna prospettiva di stabilità.

Proprio dagli interventi su questo istituto si misura il baratro esistente fra dichiarazioni dell’esecutivo ( il contratto dominante è il tempo indeterminato) e la realtà della norma ( per ogni primo rapporto a tempo determinato non è prevista la causale, ciò significa proliferazione di rapporti senza una motivazione reale).

Lo stesso apprendistato che pareva essere al riparo da ogni intemperie politico ideologica, è riuscito a peggiorare nel passaggio da policy a disegno di legge. La nostra categoria è stata quella che ha normato meglio e più diffusamente questo istituto, secondo quanto previsto dal Testo Unico, mettendolo, si spera, al riparo da ulteriori peggioramenti.

Gli Accordi Siglati con Confcommercio e Confesercenti per Terziario e Turismo sono notevolmente più avanzati di quello che si annuncia essere la nuova previsione di legge.

L’ iniziativa della CGIL del prossimo 10 maggio che mira ad accendere i riflettori sulla precarietà si propone di denunciare l’ennesimo imbroglio, forse il più doloroso, ossia che questo disegno di legge, con gli elementi che ho appena sommariamente indicato, dovrebbe aumentare l’occupazione.

Christine Laguarde presidente del Fondo Monetario Internazionale ha denunciato la perdita di una generazione.
Credo sia stata ottimista. Per l’Italia il rischio è ben più alto: quello di fare della disoccupazione giovanile e non, un fenomeno endemico come fu la Pellagra nelle campagne del Nord a fine 800.

L’Istat ci dice questo. L’ Istat però non ci dice come classificare quei lavori che producono redditi instabili e discontinui, che tratteggiano una zona grigia, ben più vasta.

Sugli ammortizzatori sociali il quadro degli interventi, se si eccettua l’intervento migliorativo sulla 223, volto a rendere strutturali e non annuali i finanziamenti per la CiGs rivolti alle imprese dei nostri settori ( imprese commerciali sopra i 50 addetti, agenzie di viaggio, istituti di vigilanza), è totalmente e drammaticamente inadeguato.

L’ Aspi non può sostituire non solo la mobilità, la cui cancellazione è gravissima, ma anche gli ammortizzatori sociali in deroga che per la Filcams sono stati in questi anni una vera scialuppa di salvataggio nel mare grosso della crisi.

La MiniAspi poi, su cui unitariamente si è presentato un’ emendamento al Senato, risulta essere peggio dell’attuale disoccupazione a requisiti ridotti, perché abbassa i livelli di tutela di tanti nostri lavoratori, a partire anche qui dagli stagionali dei pubblici esercizi o del turismo.

Come è possibile concepire una riforma degli ammortizzatori sociali a costi contenuti in una fase recessiva del paese, non facendo altro in buona parte, che ridistribuire l’esistente livellandolo verso il basso?

Una riforma seria degli ammortizzatori sociali ha costi elevati, altro che la “paccata” di soldi cui la Fornero si riferiva in una delle sue tante opinabili esternazioni.

La flexecurity danese è davvero un’altra cosa.

Siamo cioe’, fuor di metafora, veramente distanti dall’auspicata e attesa universalità delle tutele, come esemplificano chiaramente i Fondi di Solidarietà, vero oggetto misterioso di questo capitolo della riforma.

I Fondi di Solidarietà, a dispetto del nome, non daranno garanzie ai lavoratori impiegati in imprese sotto i 15 dipendenti (che nei nostri settori sono la maggioranza). Alle parti sociali per via contrattuale spetterà la loro istituzionalizzazione e l’inaugurazione di una stagione di “trilateralità”, che vedrà il ministero a far da garante e controller di entrate e uscite fra sindacato e imprese.
Primariamente (non è dato capire come) dovranno fornire sostegno al reddito per le imprese sopra i 15 dipendenti non coperte da Cig, ma potranno anche accantonare buone uscite che aiutino i lavoratori non troppo lontani ( non oltre i 4 anni) dalle pensioni a evitare di andare a rimpolpare una nuova ondata di esodati, cercando di costruire ponti instabili verso l’argine sempre più lontano della pensione.

Da una parte quindi si cancella la mobilità, dall’altra si dimostra che la sua funzione nobile di passerella verso la quiescenza lavorativa, non era poi così inutile, tanto da volerla maldestramente recuperare, concentrandosi sul requisito contributivo necessario e non certo sulle indennità retributive.

Infine la possibilità che appare solo sulla carta di distrarre i fondi dello 0,30 per finalità diverse dalla formazione continua, offrendo ai vari Forte, Fondimpresa, Fonter, la possibilità di confluire in questi nuovi Fondi.

Una riforma del lavoro che mira a dare risposte, secondo il Fornero-Pensiero, sia a chi il lavoro lo cerca, sia a chi lo perde, stabilisce cioè il principio che i fondi utili alla formazione e riqualificazione possono essere sacrificati e destinati ad integrazioni salariali, ossia che soldi che erano buoni per le politiche attive finanzino forme si sostegno passivo.

La contraddizione pesante fino all’insostenibilità pare essere la regola di questi provvedimenti.

Nel suo complesso siamo di fronte ad una esercitazione teorica verrebbe da dire “tecnica” che non trova e non potrà trovare nessuna applicazione concreta nella sua parte che ambisce a dare risposte a disoccupazione e precarietà, che rischia di risultare inadeguata per ciò che garantirà in termini di ammortizzatori, che invece potrebbe risultare devastante per quanto introduce in termini di licenziamenti individuali e collettivi.

Una esercitazione teorica oppure uno Spot utile per piazzare i nostri Titoli di Stato, o per tenere domato lo spread?

Peccato che si parli di vite e sempre più spesso di vite umane, di colpevoli abbandoni che trovano in gesti disperati l’unica risposta. Non di indici! Non di tassi! Non di interessi!

Onestamente è davvero improbabile che una riforma del mercato del lavoro come quella appena descritta sortisca qualche effetto positivo sull’esangue tessuto sociale del paese.

Da qui credo l’insistenza dei richiami del nostro Segretario Generale a inaugurare rapidamente una fase nuova di Crescita e Sviluppo, perché se una qualche prospettiva ci può essere, essa non può che scaturire da una decisa inversione di tendenza della politica economica del Governo.

ll rigore strangola ogni ripresa, soprattutto se il rigore trova traduzione in un aumento esponenziale delle tasse volto solo a comprimere le condizioni di vita delle classi meno abbienti impedendo la ripresa dei consumi e in una inesausta stretta creditizia delle banche verso le imprese.

Il rigore fin qui tra l’altro realmente attuato, a parte qualche lodevole tentativo di affondare il colpo sulla lotta all’evasione, è stato solamente prendere laddove i soldi erano certi, ossia da pensioni, e prime case, senza un minimo elemento di equità.

L’europeista Monti non ha fatto altro che ripetere stancamente quanto fatto da tanti altri governi italiani prima di lui, ossia la famigerata politica dei due tempi, agendo però su una situazione talmente compromessa in cui il risanamento preventivo rischia di ammazzare il paziente non consentendo la fase due (crescita e redistribuzione).

Tenere uniti in unico orizzonte concettuale il tema riforma con temi quali crescita, fisco e sviluppo ritengo sia non solo necessario nella strategia rivendicativa del sindacato, ma anche utile a smascherare e depotenziare gli aspetti più ambigui e destabilizzanti del disegno di legge sul lavoro.

L’articolo 18 non è un freno alla crescita delle imprese. L’imbroglio del Governo è averlo presentato come tale, avvalorando alcune credenze dei mercati. La sua manomissione non è giustificabile in questo modo. Il mettere mano all’articolo 18 non serve ad attrarre investimenti stranieri. Audi ha acquistato la Ducati per pura logica imprenditoriale. IKEA apre negozi e si lamenta non dell’articolo 18, ma della burocrazia e della scarsa flessibilità dei contratti.

Parlare e far parlare di Crescita significa soprattutto fare una operazione verità.

Chiedere al Governo lo Sviluppo significa porre al centro del dibattito argomenti quali, le infrastrutture, gli snellimenti burocratici e la trasparenza nelle pratiche, la promozione dell’imprenditoria virtuosa, gli investimenti in ricerca e innovazione.

Chiedere anzi rivendicare interventi sul fisco per imprese e lavoratori che hanno, soprattutto a causa della pressione fiscale, i salari più bassi dei paesi industrializzati, significa chiedere che la nostra economia non si impaludi troppo profondamente.

Lavoro, Crescita, Fisco, Sviluppo sono i soli punti cardinali che possono guidare la ripresa.

E’ nostro dovere dar loro adeguata cittadinanza nella nostra strategia e della nostra mobilitazione che deve essere anch’essa strategica e calibrata con intelligenza.

Fra i più di mille emendamenti presentati dai partiti è sicuramente una piacevole sorpresa leggere come il PD abbia presentato una proposta che preveda l’inclusione nel sistema della rappresentanza dei sindacati maggiormente rappresentativi anche qualora non sottoscrivano accordi.

Il dibattito di questi mesi ci ha visto riallacciare un rapporto di interlocuzione con CISL e UIL. Non parlerei di unità ritrovata, ma semplicemente di “prove tecniche di dialogo”.

La piazza del primo maggio a Rieti, ha visto una escalation di toni critici verso il governo che si aggiunge all’ormai palpabile fastidio dei partiti che lo sostengono.

La ricerca di una convergenza con Cisl e Uil è importante perché fortemente voluta dai lavoratori innanzitutto, non dimentichiamolo.

Sono certo decisamente troppi gli anni di divisioni per pensare ad un ritrovato e condiviso afflato unitario, né è pensabile che in nome del valore dell’unitarietà, troppo spesso difeso dalla sola CGIL, si modifichi la nostra agenda di priorità.

Sarebbe però opportuno capitalizzare fin da ora il rasserenamento del clima quantomeno relazionale, impostando una discussione su come costruire una intesa condivisa sulla rappresentanza, regole certe, che consentano di chiarire definitivamente come si gestiscono le rappresentanze, gli accordi, soprattutto se non condivisi o firmati da tutti.

L’intesa del 28 giugno pare essere stato superato dagli eventi. Il suo portato innovativo sulla materia della regolamentazione della rappresentanza dovrebbe essere liberato dagli angusti confini del settore industriale.

Per il commercio che ha conosciuto già due accordi separati, sarebbe un beneficio enorme.

Da qui bisogna partire con Cisl e Uil, stabilendo le regole del gioco, e successivamente definire il campo ove giocare la partita, sapendo fin da ora che non tutto è gestibile per via unitaria, (come testimoniano le divergenze sul tema anzi sui temi della riforma che si evincono dalle memorie presentate in senato), ma quanto più può essere oggetto di condivisione, tanto più va condiviso, portando loro verso di noi, e non lasciando loro alla mercè di altri.

Se la Riforma del Mercato del Lavoro non cambierà secondo le linee ben cristallizzate nella memoria presentata in senato dalla CGIL, ma se anzi, le spinte di alcune forze politiche ( emendamento Sacconi sui tempi determinati) e di Confindustria o Federdistribuzione prenderanno il sopravvento, con o senza Cisl e Uil, in piena autonomia dalla politica, lo sciopero generale sarà l’unica risposta possibile.

Una risposta decisa trasparente e senza ambiguità. Una risposta da dare tempestivamente, visto che anche il tempo è un fattore che ha il suo peso, in un iter di approvazione su cui grava il rischio del voto di fiducia.

Compagne e Compagni sono fermamente convinto che quando la fase diventa complessa fino ad ingenerare fibrillazioni e scosse che minano la stessa anima della Confederazione, bisogna rivolgersi alla società, alle radici della nostra rappresentanza, che spesso inviano messaggi estremamente semplici: basta ascoltarli.
Il malessere sociale di questo paese è grande.
E’ un coro di voci che unisce donne, sempre più sole nel tentativo di trovare un lavoro, e una volta miracolosamente trovato, impossibilitate a conciliarlo con la vita sociale. ( non mi soffermo sulle iniziative sulla conciliazione previste dalla ddl e mi limito a bollarle come irritanti);giovani che hanno rinunciato a cercarlo ormai il lavoro; anziani abbandonati dal welfare, traditi da pensioni che non garantiscono più loro la dignità del vivere quotidiano; lavoratori che si vedono, giorno dopo giorno, scivolare verso la soglia di povertà, per effetto del combinato disposto di bassi salari falcidiati dalla pressione fiscale, e dall’aumento di imposte e carburanti.

Bisogna però essere chiari con tutti e fra di noi: non è detto che uno sciopero generale risolva la questione.

La mobilitazione deve essere allineata alla strategia, articolarsi con essa, ed assumere un respiro lungo perché ci sarà appunto bisogno di fiato per reggere un percorso lungo e in gran parte in salita.

La riforma del mercato del lavoro ha messo fisiologicamente in ombra un altro iniquo oserei dire odioso, provvedimento di questo Governo, ossia la liberalizzazione degli orari commerciali.
Con il 25 aprile e il 1 maggio abbiamo assistito alla rappresentazione di quanto questa battaglia sociale e culturale sia per noi difficile e complicata.

Anche la memoria collettiva questa crisi pare intenzionata a sfregiare!

Vedere il corteo dei partigiani snodarsi fra le vie dello shopping milanese, provoca certo sensazioni di rabbia e sconforto, ma non può indurci alla rassegnazione.

Si è capitalizzato nel frattempo un interessante lavoro con l’ Anci: un passo importante nel difficile cammino di ricostruzione per via pattizia del vulnus che la legge ha aperto svuotando il ruolo sul territorio di enti locali e parti sociali. Ovviamente siamo di fronte ad un recupero parziale e limitato, attraverso la definizione dei tavoli di monitoraggio, di quanto il contesto legislativo preesistente prevedeva.

La Filcams CGIL ha il dovere di continuare ad opporsi ad un provvedimento che come per l’articolo 18 è innanzitutto inutile, privo di ogni giustificazione se non quella di creare ulteriori elementi di disaggregazione sociale. Ben vengano le strade che ridanno vigore al decentramento, alle istituzioni, al dialogo fra soggetti istituzionali e non.

Ma alla lotta e alla iniziativa politica, deve continuare ad affiancarsi la contrattazione come è già successo in alcuni gruppi (vedi l’accordo Sma) ove si è tentato di dare risposte concrete ai lavoratori evitando l’arbitrio e l’imperio aziendale.

Il tema del lavoro domenicale e festivo è un aspetto della fase della nostra contrattazione, non la esaurisce ma si può dire che la sintetizza in tutte le sue criticità.

Le politiche economiche recessive del Governo, l’ignorare aspetti centrali come la crescita e il recupero del potere di acquisto dei salari, si cristallizzano in una enorme crisi dei consumi su cui pesa il rischio di un’ulteriore aumento dell’iva.

Se i super tecnici chiamati a dare gambe alla Speanding Review falliranno, l’iva schizzerà al 23%. Senza tralasciare che anche un eventuale “successo” degli interventi sul risparmio si scaricheranno in tagli agli enti locali e alla scuola con un allarmante effetto domino sugli appalti di servizio.

La GDO per non dover aumentare ancora i prezzi, con ogni probabilità, farà pagare ai lavoratori questo aumento.

Le imprese del resto già usano le domeniche come ammortizzatore sociale, e scaricano sul costo del lavoro, la flessione delle vendite.

Dal blocco del turn over, dalla fruizione obbligata di ferie e permessi, alla messa in discussione di integrativi e maggiorazioni il passo è incredibilmente breve.

Le vertenze aperte con tante imprese ci raccontano come la grande distribuzione si organizzi per affrontare il lungo inverno della recessione chiedendo ai lavoratori sacrifici e sacrificando lo spirito e il ruolo delle relazioni sindacali sempre più d’ostacolo al raggiungimento degli obbiettivi di risparmio dei management aziendali.

I visi sorridenti dei giovani part time w end assunti da Pam, per far fronte alla liberalizzazione degli orari senza dover ricorrere al confronto sindacale, ci pone interrogativi seri su quanto siamo in grado di leggere il cambiamento per governarlo e non subirlo.

Emblematico infine il caso IKEA, dove le liberalizzazioni hanno accentuato e no mitigato la crisi delle vendite ( un tempo ad aprire tutte le domeniche erano loro e pochi altri ora sono in tanti…) a tal punto da chiedere una profonda manutenzione dell’integrativo firmato 6 mesi fa che sforbici le maggiorazioni domenicali e festive, ritenute troppo onerose.

Se quindi la contrattazione da un punto di vista quantitativo si sta esercitando all’interno della nostra categoria, è pur vero che una riflessione approfondita, su come affrontare alcuni temi perché con coerenza di impostazione si eviti che, dalle domeniche ai premi, la contrattazione non sia solo restitutiva, non è più rimandabile.

Un tema su tutti dovrebbe trovare spazio nella nostra analisi,lo dicevo in premessa: i doppi regimi salariali e retributivi fra vecchi e nuovi assunti, in materia di premi aziendali e soprattutto maggiorazioni domenicali e festive.

Su questo punto politico oltre che contrattuale è pacifico che difficilmente riusciamo a tenere, ossia a declinare la nostra posizione di contrarietà ai doppi regimi.

Il NO a fragorose e dolorose rotture generazionali per via contrattuale, trova francamente disinteressate Fisascat e Uiltucs, che in nome della salvaguardia occupazionale sono più che disponibili, e a volte anche i lavoratori che difficilmente sono pronti a spendersi in difesa dei diritti di chi ancora non li affianca sul posto di lavoro.

E’ necessario che di contrattazione cominciamo a ragionare mentre già la stiamo praticando, perché i temi liberalizzazioni e crisi necessitano di risposte innovative che non soggiacciano passivamente a logiche difensive e contenitive del danno, ma sappiano offrire risposte che, se non potranno essere nell’immediato salariali, dovranno incidere almeno sull’organizzazione del lavoro e sulla conciliazione dei tempi di vita.

La Festa non si Vende 2, dovrà continuare a portare alta la bandiera di un modello sociale differente ove il tempo libero può e deve avere un altro utilizzo rispetto al consumo, ma non potrà esimersi dal prevedere momenti di approfondimento e riflessione su come l’idea trovi applicazione nella pratica negoziale, arginando con diritti e tutele e soluzioni organizzative il rischio concreto che l’azienda organizzi il tempo del lavoro e il tempo di vita del lavoratore in base alle sue discutibili esigenze, facendo anche la figura della “buona” come Pam, che dà la paghetta, che i genitori più non riescono a garantire, a giovani studenti disoccupati.

Ma il comun denominatore della crisi accomuna tutta la contrattazione dei nostri settori che non è limitata al terziario privato. La nostra contrattazione presenta aspetti diversi e controversi che non possiamo non iniziare ad analizzare oggi, perché è stretto e stretto deve rimanere il legame che unisce la norma all’azione rivendicativa sindacale, il “testo” del nostro fare quotidiano al “contesto” della fase in cui la nostra quotidiana azione si colloca.

Il CCNL della Vigilanza da oltre un triennio fermo, ci ricorda come il settore degli appalti rischi di risentire le frustate più dure della crisi. Emblematico del disfacimento del settore, il caso del finto appalto della vigilanza armata della metropolitana di Roma, la vertenza Axistea, ove con estrema disinvoltura si è camuffata una cessione di ramo d’azienda con un “subentro”, azzerando i diritti di più di 100 lavoratori.

La Filcams Tutta è pertanto chiamata al massimo dello sforzo per sostenere l’iniziativa del 14 maggio, “Circondiamo la Rai”, che dovrà riaccendere le luci su un dramma collettivo che in troppo silenzio e per troppo tempo ha visto i lavoratori del settore letteralmente scippati di una tornata contrattuale.
Analoga sorte sta conoscendo il contratto delle farmacie pubbliche, ove in gioco, a ormai 17 mesi dalla scadenza, e dopo uno sciopero pienamente riuscito non è più il merito di una o più mediazioni anche sofferte, ma l’esistenza stessa di un contratto nazionale e di riverbero, di un settore da sempre strategico nel sistema di welfare del nostro paese.

Anche dal secondo livello, sia esso aziendale o territoriale gli spunti di riflessione giungono abbondanti.
Dopo la firma del sofferto accordo nazionale con la Cooperazione stanno emergendo sui tavoli aziendali temi di portata politica decisiva.

Se anche qua, a partire da Coop Adriatica Bologna, dove si è raggiunta una intesa transitoria, a Coop Nord Est , dove l’intesa è ancora lontana dall’intravvedersi, soprattutto per l’atteggiamento di una impresa che, unica, ha messo in discussione in toto i trattamenti economici domenicali previsti dal Cia, il tema delle liberalizzazioni risulta centrale, è pur vero che la maglia nera spetta a Coop Estense, che fedele alla sua recente storia antisindacale, ha azzerato di fatto 30 anni di contrattazione aziendale, applicando unilateralmente un regolamento al posto di un accordo condiviso con noi, sostenendo l’insussistenza dell’ultravigenza. A proposito segnalo che la Segreteria ha assunto una posizione di contrarietà netta a questa interpretazione capziosa e scorretta.

Coop Estense vuole legare il sistema premiante incentivante al merito, alla valutazione del lavoratore, da essa prodotta e da essa controllata e addomesticata, veicolando un pericoloso messaggio improntato all’individualismo e alla mortificazione del ruolo della RSU. Tralascio volutamente altri scenari compositi che vanno da sofferti rinnovi di integrativi, a licenziamenti collettivi.

La Cooperazione che, divisa e in piena crisi di identità, ha faticato a fare sintesi nel rinnovo del CCNL, in questo stesso rinnovo ora pare non riuscire a riconoscersi, e manda segnali di esplosione che la crisi dei consumi rischia di accelerare.

E’ importante credo riprendere le fila di una iniziativa politica che non sia solo la nobile gestione dell’ordinaria sempre più straordinaria amministrazione, ma al contrario che dia profilo, credibilità e rinnovato slancio alla Filcams in Coop, come attore negoziale attivo e non passivo.

Se così non sarà da subito l’esplosione o implosione della cooperazione di consumo sarà stata solo rimandata e non arginata dal rinnovo del contratto nazionale.

Il 30 aprile 2013 scade il contratto nazionale del turismo. La data sembra molto lontana, ma credo sarebbe un errore strategico non cominciare a pensare ora a come affrontare un rinnovo che si annuncia delicatissimo.
lI settore che potenzialmente potrebbe fare alzare il Pil del paese in maniera significativa, rimane per la sua economia, marginale.
I già citati dati provenienti da Federalberghi ci descrivono un trend negativo, con forte perdita di fatturato e di conseguenza di occupazione.
Abbiamo già descritto come su questo settore possa abbattersi in negativo la controriforma del mercato del lavoro, che non ha introdotto modifiche volte a sradicare la cronica tendenza ad occultare lavoro nero e grigio sotto il mantello di forme contrattuali precarie.
La Fipe che con tono implorante si rivolse mesi fa al ministro Fornero chiedendo il mantenimento di lavoro a chiamata e garanzie sulla stagionalità, pare essere stata esaudita. Questi sono problemi che assieme all’annoso e mai definitivamente risolto tema delle terziarizzazioni dovranno essere al centro di una valutazione preventiva fra noi e successivamente e per tempo fatti oggetto di verifica con Fisascat e Uiltucs.

Bisogna provare fin da ora a costruire un “cantiere Filcams” che produca materiali utili ad una piattaforma che possa vedere la convergenza anche delle altre sigle sindacali.

Se dovessimo guardare alla contrattazione territoriale di questo triennio essa non ha prodotto salvo che in rarissime eccezioni, nulla. Se spostiamo l’attenzione su quella aziendale vediamo che i risultati più eclatanti sono stati la conservazione dei Cia esistenti in alcuni gruppi della ristorazione veloce ( Mychef e Chefexpress) su cui però si allunga l’ombra nera della vertenza Autogrill, mentre sugli alberghi (Nh Starwood) le difficoltà sono palesi. Unica eccezione positiva il rinnovo del contratto integrativo di Star Hotel che ha recuperato effetti di una precedente disdetta e prodotto una sintesi di rilievo in materia di terziarizzazione.
Sembra quasi che alcuni tavoli siano utilizzati come palestre dalla controparte per provare a scardinare quanto di buono il CCNL aveva introdotto proprio ad esempio in termini di appalti e terziarizzazioni. E’ necessario pertanto da subito che anche il sindacato si attrezzi, si “alleni” per non farsi trovare impreparato all’appuntamento del rinnovo.

Accennando in precedenza alla esigenza di una riflessione vera anche impietosa se necessario, sul nostro fare contrattazione ed essere soggetto negoziale, mi riferivo alla necessità di continuare sul solco aperto dal seminario della contrattazione, prevedendo non uno, ma nuovi appuntamenti, laboratori, momenti di confronto, per tenere vivo, aggiornato, adeguato il nostro dna contrattuale.
Per far ciò tutta la Filcams e non solo la Segreteria Nazionale debbono attivarsi e partecipare, dimostrando che contrattare in tempi di crisi è una risposta altra e alta alla crisi stessa.
Contrattare nell’era della “Grande Crisi” può essere una opportunità e non solo un modo per difendersi alla meno peggio.

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In conclusione permettetemi qualche ulteriore battuta su di noi in questa fase della storia del paese davvero complessa non solo da vivere ma da leggere.
    ·L’ondata di antipolitica che ha travolto i partiti di tutti i colori, fino ad abbattersi anche sulla Lega a seguito delle note vicende di corruzione, la crescita esponenziale di un nuovo qualunquismo assai pericoloso, perché dietro al qualunquismo c’è un personaggio forte, dai tratti leaderistici e autoritari (Beppe Grillo).
    ·L’esito delle elezioni amministrative che ci consegna il ritratto di un paese sospeso fra la rassegnazione, la sfiducia e la rabbia fine a se stessa.
    ·Il governo dei Professori che si pone come pilota automatico di questa sgangherato aereo, la cui sola presenza, ci testimonia quotidianamente il fallimento di una intera classe dirigente e che non può pensare di limitarsi al ruolo di traghettatore, soprattutto se la sponda a cui approdare allo stato attuale delle cose, non esiste.

Tutti questi elementi debbono preoccuparci, perché da questa onda di rifiuto acritica e violenta potremmo essere travolti pure noi.
    ·Ancorarci alla società vera cercando di rappresentarne i bisogni, che sono diventati bisogni primari ( la casa, il lavoro, il salario).
    ·Rivendicare per loro, dar voce alla protesta contro gli errori di un governo che seppur pilota automatico, agisce senza autonomia da una scuola di pensiero che si sta fortunatamente rivelando perdente, anteponendo l’austerità alla crescita.
    ·Fare supplenza morale nel vuoto di etica che i partiti stanno lasciando, non commettendo l’errore che ci sarebbe fatale, di affrontare “tecnicamente” la fase, il momento, senza preoccuparci di agire con un orecchio sempre volto al disagio che ci circonda.

Se saremo tutti convinti nel perseguire questi obbiettivi credo che anche la nostra dialettica interna dovrà trovare una soglia di buon senso oltre il quale non andare, per evitare appunto, di non essere compresi, o di essere accomunati e ammassati ad altri corpi sociali divenuti essenzialmente corpi estranei alla società.

La democrazia è un valore irrinunciabile purché sia maneggiata con cura perché fragile, e purché chi la maneggia abbia come orizzonte e confine il bene di tutti e non di una parte.

La sintesi non deve pertanto essere solo cercata ma alla fine trovata.

Ci vuole coerenza e chiarezza di posizione per essere identificabili, che si affronti la riforma del lavoro, che si parli di esodati, o di crescita, o di fisco, il nostro messaggio deve essere riconoscibile al primo ascolto, non può essere interpretabile e quindi equivocabile.

Il nostro messaggio è anche come è sempre stato messaggio di civiltà capace di evitare le scorciatoie, di combattere le derive di ogni tipo a partire da eventuali rigurgiti di violenza e di eversione, di farsi baluardo contro chi cavalca la sofferenza sociale veicolando azioni e pensieri di distruzione e non di speranza.
Non possiamo pertanto non provare preoccupazione e sdegno per quanto accaduto ieri a Genova all’amministratore delegato dell’ Ansaldo Nucleare ed esprimere ferma condanna per un gesto inqualificabile, qualunque sia la sua matrice.

Essere CGIL è stato per più di 100 anni coincidente con l’essere all’altezza della Storia di questo paese.

Non è stato mai facile, non lo è di certo ora. La difficoltà assoluta e la gravità conclamata, ora come allora, non ci possono esimere dal provarci appieno.

Se c’è una categoria che quotidianamente ci prova, coi piedi ancorati a terra, è la Filcams; il nostro contributo di realtà credo sia patrimonio irrinunciabile per la Confederazione soprattutto in questa fase, dove, lo ribadisco, fra le tante priorità, la priorità delle priorità, è dare voce al disagio, incanalandolo nella protesta, ma soprattutto traducendolo in proposta.