The New Order 2023, relazione di Fabrizio Russo
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Diciamolo in premessa, compagne e compagni, non ci attende una discussione semplice, questi saranno due giorni impegnativi.
Ma del resto noi abbiamo costruito la nostra forza, la nostra identità, le nostre lotte facendo i conti con la complessità, con le complessità! Anche quando le narrazioni di comodo sul mondo dell’impiego continuavano a parlarci di lavori a progetto, flessibilità, ingaggi interinali, stage, appalti stagionali per nascondere la brutalità dei diritti calpestati e dello sfruttamento di milioni di donne e uomini, noi abbiamo sempre capito e dichiarato che il clima si stesse facendo pessimo, che alla trasparenza delle regole si stava sostituendo la cecità degli interessi, che gli spazi di movimento andavano strappati palmo a palmo.
E quante volte, dove si è scritto semplificazione si deve leggere in realtà brutale imposizione del privilegio datoriale? Quante volte dietro l’aggettivo “smart” non si mostra qualcosa di intelligente, agile, snello, ma si nasconde la furbizia di vecchie volpi e faine della deregolamentazione selvaggia? Quante volte abbiamo sentito invocare il disboscamento di una giungla di regole e garanzie, e si è fatto in realtà spazio a una savana, fatta di pura predazione delle risorse?
No, compagne e compagni: noi non facciamo rappresentanza perché è facile. La facciamo proprio perché è duro e difficile ma indispensabile.
Sono anche questi i motivi per cui siamo alla terza edizione delle nostre iniziative The New Order, tra quelle caratterizzate da questa modalità: la prima organizzata nel 2016, a Torino, dal titolo “Nuove frontiere per l’inclusione”, la seconda nel 2018, a Roma, dal titolo “(Futuro di) contrattazione e inclusione nel 4.0”, e oggi, a Firenze, contestualizzata, diversamente non sarebbe potuto essere, rispetto a quanto sta avvenendo nel nostro paese e nei nostri settori, intitolata “Mobilitazioni – contratti, appalti, umanità del lavoro”.
Siamo partiti dal parco scientifico e tecnologico per l’ambiente di Torino, nato da una grande opera di riqualificazione urbana, siamo passati per i magazzini della Ex dogana di Roma, ormai a tutti gli effetti area di archeologia industriale e ferroviaria, e approdiamo in questa due giorni alla stazione Leopolda, la prima stazione ferroviaria costruita a Firenze.
È di tutta evidenza, abbiamo viaggiato attraverso sedi storiche che ponessero in risalto, anche plasticamente, le grandi trasformazioni compiute e quelle in atto, nell’economia e nel lavoro; cambiamenti, transizioni, conversioni, riorganizzazioni che da sempre, dall’origine dei nostri settori, sono tra i paradigmi della categoria. È appunto questa la complessità, con cui facciamo i conti.
Rispetto al molto raccontato, soprattutto più di recente, sul luogo in cui ci troviamo sarei invece per soffermarmi su un aspetto di rado menzionato: la valorosa condotta negli anni dell’occupazione nazista degli operai della stazione Leopolda, appartenenti ai movimenti della Resistenza, che operarono sabotaggi e occultarono materie prime, almeno fino al bombardamento che avvenne nel 1944, esattamente in questi giorni, e che fece chiudere le officine.
È anche questa, detto veramente senza presunzione, una delle cifre interpretative di questa nostra iniziativa, più in generale delle nostre iniziative: in una fase che necessita di pragmatismo e di concretezza, siamo senz’altro noi, le nostre decisioni, il nostro essere conseguenti, a fare la differenza.
I luoghi, anche i luoghi importanti, diventano spesso loro malgrado, per il poco rispetto che si nutre nei loro confronti, nei confronti della loro storia, sovrastruttura, ideologia, narrazione, come se le proprie idee non avessero forza per sorreggersi da sé e si avesse necessità di ricorrere ad altro, di distrarre, di creare diversivi, quasi per nascondere le reali intenzioni o la debolezza delle proprie idee, delle proprie posizioni, delle proprie decisioni.
È anche per questo che oggi siamo qui, per il rispetto che certo si deve ai luoghi ma soprattutto alle persone che hanno contribuito, anche a scapito della loro vita, a liberare un paese occupato e a riconquistare la libertà. E poi, anche qui senza presunzione, per dire la nostra – chi se non noi! -su temi, problematiche, questioni, che ci hanno riguardato prima - nel 2015 ad esempio con il Jobs Act - come ci riguardano oggi da vicino; temi, problematiche, questioni, che hanno riguardato e riguardano soprattutto i nostri settori; che hanno riguardato e riguardano soprattutto la Filcams.
E allora ci è parso che, dopo tante discussioni affrontate qui alla Leopolda e tante decisioni prese, tra le quali diverse proprio in tema di lavoro appunto, fosse arrivato il momento che se ne parlasse noi, che ne parlasse chi il lavoro lo conosce, quantomeno perché lo pratica, perché sa cos’è un luogo di lavoro.
Era relativamente facile dire nel 1966, quando fu scritta la canzone “Contessa”, una frase come “compagni dai campi e dalle officine”. Ma adesso i tre quarti dei lavoratori non sono più lì, in quei luoghi “iconici”. Sono in un settore, quello terziario, che da sempre è stato definito in modo residuale, perché ci finisce dentro appunto tutto quello che non è “campi” e officine.
Anche in questa complessità sta una delle nostre sfide: partire da una miriade di luoghi più piccoli e frastagliati (che sono uffici, sportelli, bar, ristoranti, mense, alberghi, negozi e supermercati, e chi più ne ha più ne metta…) per ridare un senso al nuovo lavoro, che non è più solo di coltivazione e trasformazione. Ma che sempre di più incorpora attenzione, cura, dedizione, relazione con gli altri, umanità.
È questa la questione dalla quale partire, è questo l’argomento all’ordine del giorno, rappresentato dal sottotitolo della nostra iniziativa “Contratti, Appalti, Umanità del lavoro”. “Umanità del lavoro” che altro non è che come si decide di affrontare la situazione di milioni di persone che in modo crescente, anche nel nostro paese, si trovano a vario titolo in condizioni di fragilità, di disagio, di vulnerabilità, di debolezza, di precarietà, di povertà. Persone alle quali il proprio stato viene imputato come una colpa, una responsabilità, uno stigma anche da parte di chi dovrebbe avere invece il compito di proteggerle, tutelarle, averne cura e attenzione, a partire dalla politica e dalle istituzioni.
Persone nei confronti delle quali, nelle migliori delle ipotesi, continuano ad essere riservati disinteresse e disattenzione se non, sempre più di frequente, veri e propri attacchi.
Si attacca chi basta che venga da un posto “altro”, che sia un altro continente, un altro paese, o anche soltanto un’altra regione, persino chi viene dalla guerra, dalla fame, dalla disperazione;
si attacca, per il solo fatto di esserlo, chi è donna, è giovane, è migrante, è anziano, è disabile o chiunque non sia riconducibile al prototipo, per molti versi tipicamente italiota, della classica famiglia e comunità patriarcale; si attacca chi un lavoro non riesce a trovarlo, chi un lavoro l’ha perso, ma anche chi un lavoro ce l’ha ma povero e precario.
Si attacca per principio, per partito preso, quasi per ideologia, chi è in difficoltà meglio ancora se non in grado di difendersi.
Credo siano in buona sostanza queste, soprattutto queste, ancora una volta queste, le motivazioni per cui torniamo a mobilitarci, per cui Cgil, Cisl, Uil si mobilitano, per cui la Filcams si mobilita; sono motivazioni che assumono fisionomie, caratteristiche, tratti differenti, e che devono essere ricondotte a un contesto di ingiustizia sociale, di disuguaglianze reddituali, di disparità territoriali e di iniquità fiscale che il governo, giorno dopo giorno, provvedimento dopo provvedimento, dichiarazione dopo dichiarazione, non ha fatto e non fa altro che aggravare ulteriormente.
Poi ci siamo noi, ci sono i nostri settori, ci sono milioni di lavoratrici e lavoratori del commercio, del turismo, dei servizi e degli appalti che sono l’esemplificazione, la rappresentazione plastica di quello che è accaduto e che sta accadendo nel nostro paese in termini di perdita occupazionale e salariale, di arretramento di diritti e di tutele, di peggioramento delle condizioni di lavoro in una situazione che, senz’altro, non può e non deve più essere considerata di crisi.
Siamo in una fase di ripresa anche per quelle imprese, per quei comparti e per quegli ambiti che più di altri hanno subito le conseguenze della pandemia prima, della guerra poi e infine della crisi energetica.
Ma non si può continuare ad opporre alle giuste richieste ed esigenze dei lavoratori lo spauracchio di una crisi che non c’è più. Tutti i dati macroeconomici ci dicono che quella che stiamo vivendo è una fase di ripresa, e anche i salari e le condizioni di lavoro devono di conseguenza riprendersi.
Quante volte ne abbiamo discusso, quante volte abbiamo provato a far comprendere la drammaticità, la gravità di quanto accaduto nel turismo, nel commercio, negli appalti, nei servizi, tra il 2020 e oggi, durante la pandemia ma ancora nel biennio 2022/2023, tra milioni di lavoratori che anche nel pieno dell’emergenza sanitaria sono stati costretti a continuare a lavorare e centinaia di migliaia di lavoratori obbligati ad andarsene verso altri settori o che hanno comunque scelto di cambiare definitivamente lavoro; così prima è stata messa in discussione l’occupazione più povera e precaria e successivamente non si è risparmiata neanche quella più stabile e regolare.
Però c’è un dato su tutti che è stato confermato per l’ennesima volta, soltanto qualche giorno fa dall’ispettorato nazionale del lavoro: nei settori del turismo e dei pubblici esercizi il 76% delle aziende controllate è risultato essere in situazione di irregolarità.
E qualche datore di lavoro ancora ci viene a dire – ascoltato con deferenza dall’intervistatore televisivo di turno – che in realtà in Italia non c’è più nessuno che abbia voglia di lavorare sul serio, e che anzi più di qualcuno osa rifiutare le tante offerte di lavoro che il mercato prospetta.
Ma questi intervistatori così brillanti e attenti, non si chiedono mai perché? Perché le persone se ne vanno, si tirano indietro da lavori degradanti, perché, di fronte a ingranaggi stritolanti di mestieri ripetitivi e umilianti dicono no, e voltano le spalle?
Attenzione che il fenomeno sta assumendo dimensioni di massa: avrete letto, ad esempio, che negli Stati Uniti si parla già da tempo della Great Resignation – il movimento delle grandi dimissioni, centinaia di migliaia di addetti che ogni anno, umiliati e offesi, lasciano il lavoro anche in totale assenza di una prospettiva.
Meglio la dignità nella fame che un lavoro disumano, meglio il rispetto per sé stessi che l’arroganza del nuovo caporalato algoritmico; meglio l’amore per la vita reale che l’odio per la sveglia che ogni giorno suona per ricondurci nell’irrealtà della nuova alienazione.
La narrazione ufficiale dice che si stanno liberando nuove idee ed energie in vista della new economy dei metaversi. In realtà a noi sembra che il lavoro stia sempre più assomigliando alla fattoria degli animali, una specie di universo totalitario dove tutti gli animali sono uguali ma – lo ricorderete – alcuni animali sono più uguali degli altri. A noi sembra che il 2024 non assomiglierà agli spot pubblicitari di Mark Zuckerberg, ma al 1984 dei romanzi di George Orwell.
Nella pubblicistica americana ormai si distingue tra due termini: il primo è bullshit jobs, cioè lavori di consulenza insensati e assurdi che fanno guadagnare piuttosto bene, ma alla fine non servono a niente. E poi shit jobs, cioè lavori che fanno guadagnare tutti e servono a tutti, tranne chi li fa. Mestieri brutti, sottopagati e stressanti.
Credo di non dover commentare. Credo invece di dover dire che la deriva che stanno prendendo le società industriali mature è molto pericolosa. Un lavoro senza qualità, senza espansione e maturazione delle competenze, senza rispetto dei diritti più elementari e sacrosanti non è neanche lavoro. È prestazione pura e cieca, è asservimento e sconfitta.
Per questo abbiamo messo, come ho già avuto modo di ricordare, nel titolo di questo nostro appuntamento fiorentino la frase “umanità del lavoro”. Ovvio, tutti sentiamo l’eco in queste parole di quella “futura umanità” che si celebra nell’internazionale.
Ma la nuova internazionale del precariato e dei server remoti non vive nella speranza di futuro. Vive nell’eterno presente senza coscienza del profitto immateriale, un metaverso dove non ci si sveglia e non si dorme mai, un mondo che non ha amore, né affetti, né relazioni, né famiglia, né può più permettersi di avere figli né un futuro né una prospettiva.
Se non c’è, se non ci sarà più umanità nel lavoro, il lavoro stesso, per come lo intendiamo noi, non ci sarà più. E al suo posto ci sarà la programmazione immateriale pura di tante funzioni brutalmente materiali, servite e assolte in maniera ripetitiva da corpi e menti di operatori in affitto.
Credo che ormai lo possiamo dire, che tutti noi ce ne siamo accorti da un pezzo: più la gestione degli ingranaggi sociali si smaterializza in algoritmi e applicazioni e più si accorcia il guinzaglio del controllo sul collo delle persone che lavorano, più si viene messi alla frusta dalla disumana esecuzione di mansioni materiali umilianti, ripetitive ed estenuanti.
Una volta qualcuno lo chiamava “sussunzione del lavoro al capitale”, e le cose in questi secoli non sono poi cambiate più di tanto. Sono cambiate le forme, le attività e i luoghi, e si è creata quella complessità di cui stiamo parlando, la nostra, che innesca nell’economia e nella società una ennesima rivoluzione non più industriale, ma certamente culturale. A cui noi Filcams in primo luogo siamo chiamati a dare senso, ma anche immagine, rappresentazione, narrazione.
Più l’organizzazione del lavoro si raccoglie nelle mani di poche multinazionali senza volto, più sono segnati e angosciati i volti di milioni di lavoratori anonimi, precari, temporanei, affittati, comprati e venduti senza scrupolo, trattati come pezzi di un’equazione matematica, come imbarazzante residuo umano rispetto all’onnipotenza del software.
Più le parole del dominio si fanno narrazione e propaganda suggestiva - e viene sfornata una formula ogni mese, il cloud, lo smart working, la green economy, l’outsourcing – più alle cassiere, alle colf, alle badanti, ai cuochi, ai fattorini, agli inservienti, ai vigilanti, ai camerieri, ai bagnini e ai baristi viene chiesta una cosa sola: rompetevi la schiena, e non badate alla paga e alla fatica.
La terra è diventata una rete caotica, sempre sotto sorveglianza di computer e telecamere, controllata 24 ore su 24 da orari scanditi al secondo: sappiamo fra quanti minuti arriva un autobus, a che punto è un pacchetto in consegna, quanto tempo di attesa abbiamo per parlare con un operatore, fra quanti minuti arriva il cibo che abbiamo ordinato a casa. Ma, curiosamente, gli unici a cui viene chiesto di non star tanto a guardare agli orari, e lavorare senza limiti, senza garanzie, senza futuro, ma ad ogni modo sempre più a termine e a tempo sempre più parziale, sono proprio loro, i milioni di nuovi schiavi di un’economia deregolata e balcanizzata.
Più il controllo del territorio si sposta lassù, tra i satelliti con cui vengono prenotati il cibo, i viaggi, le vacanze, i servizi e gli acquisti, più quaggiù, sui territori, troviamo una forza lavoro disorientata e stanca, considerata massa di manovra usabile, spendibile, sacrificabile e sostituibile._
Ma comunque il nostro lavoro resta indispensabile: è da qui che dobbiamo trarre la forza per ri-partire, è da qui che dobbiamo trarre la forza per le nostre mobilitazioni.
Perché lassù, nelle sfere angeliche dell’algoritmo perenne, tutto è analizzato, previsto e prevedibile. Tutto è leggero, pulito, asettico. E invece quaggiù, nelle sfere infernali del precariato selvaggio, la gente scoppia, sta male, le brigate di cucina o le file di casse negli ipermercati sembrano i banchi di rematori incatenati nelle antiche galere, i fattorini pedalano fino a rimetterci la pelle, la gente si alza all’alba e a tarda notte ancora suda sulle spiagge, nei fast food, negli alberghi, nei negozi, nei magazzini, nelle piattaforme.
E la loro produttività, la nostra produttività, viene comunque misurata a ritmi stringenti, anche nel terziario: camere rifatte, pratiche evase, chiamate effettuate, scontrini emessi, consegne porta a porta… e ore, tante ore, sempre meno pagate e sempre più frazionate, con vite sacrificate sull’altare della flessibilità, come nel caso delle aperture festive.
Il segno della sofferenza in fondo è scritto nella memoria e nella storia del lavoro: labor, ogni tanto ce lo diciamo, in latino voleva dire sofferenza, perché ai servi della gleba, agli schiavi, ai precari dell’antichità non veniva data alternativa possibile al sudore e alla fatica. Nella saggezza del dialetto napoletano, infatti, lavorare si dice ancora faticare.
Per secoli si è lottato per strappare conquiste che oggi dovrebbero sembrare acquisite per sempre: lavorare in condizioni di salute e di sicurezza, la malattia e l’infortunio, la durata dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, le ferie, i permessi, la previdenza, e via discorrendo.
Poi sono arrivati gli “spiegatori” – variamente e trasversalmente ricompresi tra imprenditori, rappresentanti della politica e delle istituzioni, sociologi, esperti, ricercatori, professori, studiosi, influencer, opinionisti – coloro che a vario titolo hanno cominciato a volerci convincere a tutti i costi che il lavoro materiale fosse ormai in via di estinzione che come l’agricoltura, presto avrebbe riguardato sì e no il 2% della popolazione.
Niente più fatica fisica, ma solo libero contributo di pensiero alla creazione robotizzata di beni materiali e di servizi immateriali. Certo, una bella favola, una favola che tale sarebbe, se in realtà non fosse grottesca.
Ma allora, che è finito il lavoro materiale, che non si fatica più, andatelo a dire a chi impasta le pizze fino alle 3 di notte, a chi pulisce bagni e pavimenti, a chi lavora al freddo e al caldo, di giorno e di notte a sorvegliare una banca o una fabbrica, a chi cucina, stira, assiste e lava gli anziani, a chi ogni mattina e ogni sera pianta ombrelloni e pulisce le spiagge, a chi sta inchiodato come un pollo in batteria a parlare in un call center, a chi consegna il cibo, la spesa, i pacchi e gli scatoloni a domicilio ogni giorno.
Certo, scrivono e parlano benissimo, costoro, e firmano titoli di successo. L’unica cosa che si rifiutano di scrivere e di sottoscrivere sono dei contratti di lavoro piuttosto che un codice degli appalti dignitosi, aggiornati e decenti.
E oltre al danno degli “spiegatori”, ci tocca la beffa dei datori di lavoro che pretendono e non concedono, che parlano di efficienza ma intendono obbedienza, che parlano di puntualità ma chiedono affanno, ritmi forsennati, usura fisica e psicologica.
Queste sono le nuove catene, le nuove fabbriche dello sfruttamento di oggi. Queste sono le nuove officine della lotta.
Queste sono le nuove trincee di uno scontro per l’umanità del lavoro. Uno scontro che non abbiamo provocato noi, ma che combatteremo fino all’ultimo, per testimoniare, per resistere, per vincere!
Non c’è dubbio, è complicato discutere di umanità del lavoro, di condizioni di lavoro, di qualità dell’occupazione a fronte di sedici rinnovi contrattuali aperti che si trascinano da anni.
Certo sarebbe interessante però porla anche sul piano dell’analisi: come ci si è arrivati ad una situazione che non ha precedenti neanche nella nostra, pur complessa, storia contrattuale di categoria, una situazione in considerazione della quale tutti i contratti dimensionalmente e politicamente più rilevanti della Filcams attendono un rinnovo da quattro, cinque e più anni, per arrivare fino agli otto anni della vigilanza.
Credo, in tal senso, anche alla luce della discussione che ci attende in questa due giorni, una decina di punti, non di più, (sintetizzati) sia opportuno tenerli presenti, evidenziarli nel rapporto con la politica e le istituzioni e con le associazioni datoriali certo, ma anche al nostro interno, nel rapporto con la Confederazione e con le altre categorie:
1. Ai fini dell’avvio della fase di rinegoziazione di parte rilevante dei contratti ci siamo assunti la responsabilità di predisporre e presentare piattaforme o, all’occorrenza, documenti rivendicativi, contestualizzati rispetto alla fase di difficoltà, di forte difficoltà, che diversi tra i nostri settori hanno attraversato; questo è un aspetto che non può non essere tenuto in considerazione;
2. Diverse tra le controparti hanno ritenuto ugualmente di dover presentare a loro volta delle contropiattaforme, spesso addirittura a seconda dell’andamento della discussione, mesi, anni dopo rispetto all’avvio del confronto;
3. Io sarei per dirlo una volta per tutte, non siamo più in una situazione di crisi, non siamo certo nel 2020 o nel 2021 ma neanche nel 2022, siamo a 2023 inoltrato, i nostri settori stanno attraversando una fase di ripresa importante, su tutte la filiera del turismo, della ristorazione e della cultura; non considerare questo dato significa affrontare una discussione antistorica, incoerente ma soprattutto strumentale;
4. Le controparti continuano ad avere un approccio dilatorio comunque volto a produrre un esito negoziale restitutivo anche su temi che non solo consideriamo “sensibili” ma che riconducono ad istituti che potremmo definire di “civiltà contrattuale” (ferie, permessi, scatti di anzianità, malattia…), secondo una sorta di schema che prevederebbe uno scambio, ferale verrebbe da dire, tra diritti e salario;
5. Continuiamo, non abbiamo mai smesso, ad essere in una fase di emergenza reddituale; in settori nei quali le retribuzioni sono strutturalmente più basse che in qualsiasi altro settore, gli ultimi anni, per centinaia di migliaia di lavoratori, sono stati, nelle migliori delle ipotesi, di ricorso agli ammortizzatori sociali; il tema di incrementi salariali adeguati rappresenta senz’altro una priorità;
6. Più i tempi di rinnovo si dilazionano più il tessuto normativo, i diritti, le tutele, le garanzie, che rappresentano storia e struttura portante dei contratti nazionali, si indeboliscono e maggiore è il rischio di diffusione di contrattazione irregolare; dato, anche questo ormai notorio, non ci sono altri ambiti nei quali l’incidenza di contratti “pirata” sia pari ai nostri di settori, però, e credo questo sia un elemento da precisare ancora, anche nella discussione che ci apprestiamo ad affrontare la soluzione è il rinnovo dei contratti nazionali, non il ricorso a regimi derogatori;
7. Da questo punto di vista, per una questione che attiene ancora al piano dell’umanità, è inimmaginabile che vengano definiti due o più schemi, contesti, paradigmi, criteri, o in altro modo li si voglia definire, due modelli di vita e di lavoro diseguali, difformi a seconda delle aree del paese in cui ci si trova; del resto sono proprio questi valore e ruolo della contrattazione nazionale;
8. Come si contratta rispetto ad un mercato del lavoro sempre più ostile e arrembante, rispetto a riforme che rendono il lavoro sempre più povero e precario, come testimonia il provvedimento del governo in via di definizione in queste ore; c’è una sorta di correlazione ideale tra le discussioni degli anni 2010 che si sono svolte qui alla Leopolda e gli arretramenti in materia di lavoro che oggi si stanno consolidando, con parte dei temi, delle problematiche, delle questioni che sono esattamente gli stessi: i voucher, l’ulteriore deregolamentazione del lavoro a termine e dell’apprendistato, la destrutturazione del lavoro in appalto per citarne solo una parte;
9. E ancora, quali sono le linee guida, gli orientamenti, i tratti distintivi nel caso, attuali e ai quali tendere, della categoria rispetto a temi più trasversali quali le politiche di genere, la formazione, la bilateralità, il mercato del lavoro;
10. E infine un’analisi di quali siano stati gli sviluppi della contrattazione integrativa, di quella inclusiva – d’anticipo, di sito, di filiera – ma anche di quella sociale, nel pre pandemia, negli anni delle crisi e nel corso della ripresa, e di quale sia stato, in questi ambiti, il lavoro prodotto nel rapporto con la Confederazione e le altre categorie.
Sono questi i temi che affronteremo nel corso di questi due giorni, motivo per cui ho premesso che non sarebbero stati giorni semplici.
Proprio per questo, e mi avvio alle conclusioni, ci sono momenti in cui si fa una pausa per guardare indietro, capire da dove veniamo e come siamo arrivati qui, cosa abbiamo fatto bene e cosa potevamo fare meglio. Solo così possiamo ritrovare la nostra carica, sentirci forti della nostra storia, ritrovare il nostro progetto.
Poi ci sono momenti in cui ci si sofferma a riflettere, a leggere le carte, a studiare e a pianificare. / questi sono i momenti che danno linfa e concretezza alla rappresentanza. Solo così possiamo sederci a un tavolo e negoziare con autorevolezza, in nome di milioni di donne e uomini, guardando in faccia i nostri interlocutori.
Ma alla fine arriva il momento in cui bisogna alzarsi tutti insieme, con le nostre bandiere e con i nostri striscioni, e mettersi in cammino. E prenderci le strade e le piazze, e far sentire la nostra voce, e mostrare che la forza siamo noi. Mostrare che la giustizia, anche quando è stata ben temprata dalla nostra pazienza, non può più attendere.
Bene: questo momento, compagne e compagni è arrivato. È arrivato perché non possiamo consentire oltre. È arrivato perché ai doveri, cui milioni di persone assolvono con autentica fatica e sudore, si risponde ancora con pseudo-contratti e pseudo-diritti.
Questo momento è arrivato perché il futuro del paese si costruisce solo con noi – noi che non abbiamo rinunciato e non rinunceremo mai alla dignità e al rispetto per la persona, per le persone.
Allora eccoci, tutte e tutti insieme, alla mobilitazione.
La mobilitazione a sostegno della piattaforma Cgil, Cisl, Uil.
La mobilitazione per il rinnovo dei contratti.
La mobilitazione per una vera trasparenza e correttezza degli appalti.
La mobilitazione per il rispetto, per la dignità e la libertà.
Una mobilitazione, forte e incisiva, di donne e uomini che lo sanno e lo gridano:
È la lotta che dà sostanza al bisogno.
E la rabbia senza l’umanità conduce solo alla disillusione e alla resa.
No, compagne e compagni, noi non ci arrendiamo e non ci arrenderemo: la nostra stagione è appena cominciata!