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Relazione F. Martini Convegno “…ma la Coop sei ancora tu…?”, 4/06/2009

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Convegno Nazionale “…ma la Coop sei ancora tu…?”
Firenze, 4 giugno 2009


Relazione introduttiva di Franco Martini, Segretario generale FILCAMS CGIL

Il titolo scelto per questa nostra iniziativa ricorda uno degli spot che più ha reso famosa la Coop presso l’opinione pubblica. Il riferimento è indubbiamente ironico, ma è noto quanto nella terra che qui ci ospita, l’ironia sia parte fondamentale della filosofia di vita. Spesso se ne fa uso per stemperare, alleggerire, per smussare gli angoli e favorire così il confronto sereno, come quello che vorremmo qui sviluppare, sulla qualità delle relazioni sindacali, sui risultati della contrattazione e, più in generale, sulla qualità delle politiche settoriali portate avanti dal mondo della cooperazione.
Alla base c’è la convinzione che il sistema delle relazioni sindacali con la cooperazione dovrebbe essere un riferimento eccellente nel panorama sindacale, per quanto riguarda la disponibilità al confronto ed alla valorizzazione della contrattazione. In effetti, il bilancio complessivo di anni di storia della contrattazione con le Coop offre importanti risultati, sia su scala territoriale, che in ambito nazionale.
E, tuttavia, non vogliamo nascondere che quel titolo tende ad evidenziare una preoccupazione, una situazione sempre più diffusa di insoddisfazione (reciproca) nei rapporti, soprattutto, all’interno delle singole aziende cooperative, incomprensioni sul versante della contrattazione, con tensioni crescenti, che rischiano di indebolire la peculiarità che ha contraddistinto la storia sindacale nel mondo della cooperazione.

Crediamo sia giusto ammetterlo reciprocamente, soprattutto, che sia il momento giusto per farlo, con molta trasparenza, tanto più a fronte di una situazione generale di difficoltà del settore e del paese, a fronte di un livello della competizione nel mondo della grande distribuzione, che induce a misurarsi con le politiche aziendali condotte dalle grandi catene distributive private del settore
Per chi, come noi, è sempre più convinto che il settore del consumo ed il sistema distributivo italiano deve essere investito da profonde trasformazioni, per guardare oltre la soglia della semplice sopravvivenza alla crisi; per chi, come noi, guarda ad una funzione del sindacato capace di battersi per rivendicare e favorire una prospettiva di sviluppo all’altezza delle sfide che anche nel nostro settore sono imposte dalla globalizzazione, il mondo della cooperazione ed il sindacato presente nella cooperazione, rappresentano un punto di riferimento importante.

Sarebbe ipocrita anche negare che verso questo mondo, noi guardiamo con occhi e cuore diversi da quelli con i quali guardiamo all’universo mondo delle imprese nel nostro settore. Le radici della cooperazione, la sua storia, la cultura politica e sociale che la pervade è la storia di tanti di noi ed anche per questo verso l’impresa cooperativa siamo spesso più esigenti nel rivendicare politiche virtuose, che abbiano al centro la qualità del lavoro e dell’impresa. Questa, è anche la stessa ragione per la quale ci capita di essere critici, a volte più che nei confronti dell’impresa privata, quando queste nostre aspettative ci appaiono essere deluse.

Con l’iniziativa di oggi –quindi- vogliamo rilanciare questo confronto, dargli continuità e sistematicità, offrire momenti di verifica e, con tutto ciò, difendere i valori positivi della cooperazione e la loro capacità di rappresentare un modello possibile di impresa ed un modello virtuoso di relazioni sindacali.

Non è indifferente la fase nella quale teniamo questa riunione. Il Paese è al centro di una crisi che investe l’intera economia mondiale. Ancora in queste ore sono stati forniti i dati che confermano quanto questa crisi investa lo stesso settore dei consumi, a partire da quello alimentare. Rispetto a marzo 2008 le vendite dei generi alimentari hanno registrato, dodici mesi dopo, un crollo del -5,6%. Nei piccoli negozi questa diminuzione arriva al 6,6% ed anche la grande distribuzione subisce una diminuzione del 5% tendenziale. Noi tutti sappiamo che quando è il consumo alimentare a subire cadute significative, vuol dire che la crisi morde, tocca la carne viva della condizione sociale delle famiglie e delle persone.
Nel caso della grande distribuzione, inoltre, il calo interessa tutti i prodotti, alimentari e non, il peggiore dal 1997, secondo le statistiche disponibili.

Una crisi di tali proporzioni pone due problemi: il primo, come starvi dentro, limitando i danni, sul piano occupazionale e su quello delle condizioni economiche e sociali delle persone; il secondo, come uscirne, con quali nuovi equilibri, dal momento che difficilmente si può immaginare che tutto resterà come prima, dal punto di vista dell’orientamento dei consumi e degli stili di vita.
Qui si pone un primo interrogativo: in che modo il sistema della cooperazione può rispondere a queste problematiche, come può farlo, ispirandosi e difendendo i valori fondativi della cooperazione e, quando richiesto, avendo il coraggio di favorire al proprio interno le necessarie trasformazioni?

Se la manifestazione più immediata della crisi è la crescita della divaricazione sociale, accompagnata dalla caduta del potere d’acquisto delle persone, occorre rimettere al centro il tema dei prezzi come una delle risposte più concrete, in grado di parlare alla condizione sociale della gente. Le associazioni dei consumatori hanno stimato in 565 Euro l’incremento annuo della spesa sostenuta per i consumi. Qui la Cooperazione può fare la differenza! In questi mesi di crisi è cresciuta l’idea, nelle più importanti catene distributive, che il modo per restare competitivi, quindi, favorire prezzi competitivi, sia quello di liberalizzare al massimo le aperture, a partire dalle domeniche, per arrivare anche alle altre festività, fino a poco tempo fa considerate sacre, come il 25 aprile ed il 1 Maggio.
Noi sappiamo che occorre ben altro per rendere competitiva la grande distribuzione italiana, rispetto ai competitori europei. Del resto, la dinamica dei prezzi non ha avuto riscontri positivi, né a fronte di ulteriori liberalizzazioni degli orari, né in presenza di nuove aperture, che in teoria avrebbero dovuto favorire la concorrenza, soprattutto tra i grandi formati distributivi. In alcuni casi, è più che fondato il sospetto che vengano a costituirsi dei veri e propri cartelli, a danno dei consumatori.
Controllo dei prezzi e trasparenza nella loro formazione deve essere terreno, tanto di iniziativa della pubblica amministrazione, quanto di etica dell’impresa.

Il sistema della cooperazione ha dalla sua un valore aggiunto, che risiede proprio nelle ragioni della propria esistenza e che fanno della responsabilità sociale il terreno sul quale, appunto, fare la differenza. E noi vorremmo che questo terreno fosse esaltato proprio in questo periodo di crisi, evitando un ripiegamento verso soluzioni organizzative sbagliate, inadeguate, come quella delle liberalizzazioni delle aperture.

Dobbiamo dare atto alla Cooperazione di importanti interventi attuati ed in programma sul fronte sociale. Il tema dell’etica è stato da sempre punto cardine dell’impresa cooperativa e la Coop è stata la prima azienda europea ad aver ottenuto la certificazione SA 8000. La responsabilità sociale è tema che orienta gran parte delle attività delle imprese Cooperative, in particolare su alcune problematiche, che rappresentano per noi terreni importanti per affermare un’idea diversa di sviluppo del consumo, ispirata alla sostenibilità sociale ed ambientale.

Innanzitutto il tema della salute e della qualità del consumo, attraverso un controllo su tutta la filiera, una garanzia superiore agli standard previsti dalle leggi, un impegno forte nel commercio equo-solidale, una tolleranza zero sugli OGM.
In secondo luogo, il tema dell’ambiente e del territorio. Qui, addirittura, gli scopi che appartengono da sempre alla missione della cooperazione, incrociano le principali sfide dello sviluppo contemporaneo, rendendo assolutamente attuali le ragioni delle imprese cooperative. Il rispetto del territorio e la compatibilità ambientale dei nuovi insediamenti; il controllo delle politiche agricole, il principio di precauzione applicato agli organismi geneticamente modificati (come possibili produttori di mutazioni ambientali); la riduzione degli imballaggi, la raccolta dei materiali nocivi, la diffusione dei prodotti biodegradabili. E’ importante sottolineare, a questo proposito, che proprio la cooperativa che ha sede a Firenze (Unicoop Firenze), anticipando una Direttiva Europea, ha dato avvio alla sostituzione di tutti gli shopper tradizionali con quelli biodegradabili.

Se tutto il settore del consumo è chiamato a misurarsi con l’insieme di queste problematiche, contribuendo a fare della crisi una opportunità, per uscirne nella prospettiva di una nuova qualità dello sviluppo, la Cooperazione ha una marcia in più, che sta nelle ragioni sociali della propria nascita e della propria esistenza. Il nostro compito è far si che questo terreno, già praticato da molte cooperative, non solo non venga abbandonato, al contrario, venga rafforzato e diventi l’elemento che caratterizzi il modo di stare della cooperazione nel mercato, anche ed innanzitutto in questo periodo di crisi.
Per queste ragioni, due anni fa abbiamo condiviso con l’Associazione Nazionale delle Cooperative di Consumo un accordo per lo sviluppo, sottoscritto presso la sede del Ministero del lavoro, nel quale sindacati e cooperative hanno individuato questi obiettivi, con l’impegno ad orientare concertazione e contrattazione verso il loro raggiungimento. Ed è la sua attuazione che vogliamo verificare, per rilanciarne tutta la sua attualità e necessità, per elevare il livello della risposta alla crisi.

Anche perché, un sistema di imprese che coniuga il proprio sviluppo con gli interessi più generali dello sviluppo del Paese, assume più autorevolezza e maggiore voce in capitolo per rivendicare misure a proprio sostegno, a partire dalla difesa di quelle previste nella Costituzione. Sappiamo quanto la legislazione a sostegno della cooperazione sia stata nel mirino dei governi di centro-destra e degli imprenditori privati concorrenti. Il sindacato è per difendere la cooperazione da questi attacchi, come facemmo in occasione del penultimo Governo Berlusconi e non saremmo sorpresi se il tentativo di annullare i vantaggi fiscali che derivano dalle finalità sociale e mutualistica della cooperazione, così come riconosciuti dall’articolo 45 della Costituzione, si riproponesse nella furia liberalizzatrice di questo Governo. Ma, a maggior ragione, dobbiamo esaltare tali finalità ed è per questo che, per la parte che riguarda il sindacato, noi contribuiremo a fare, sulla base di quanto concordato nel Patto per lo Sviluppo.

Ma la diversità Coop deve comunque misurarsi con le caratteristiche della crisi e con il mercato degli agguerriti competitori, con la consapevolezza che una esperienza nata alla fine del XIX secolo, deve poter riproporre le proprie finalità sociali, rileggendo la propria storia, le proprie tradizioni consolidate, le dimensioni dello sviluppo realizzato nel corso di questi decenni, a partire dalla propria struttura e dal suo rapporto col territorio.

Naturalmente, occorre avere una nostra idea di assetto della distribuzione italiana, della grande e di quella meno grande. Ed avere un’idea di come dovrebbe essere fuori dalla crisi.
La nostra opinione è che uno sviluppo tendente a polarizzare le strutture distributive sempre più verso i grandi formati sia socialmente insostenibile. A fronte di indubbi vantaggi sul piano delle economie di scala, risultano una serie di problematiche che nessuno pare intenzionato a mettere all’ordine del giorno, né imprese, né istituzioni, né a destra, né a sinistra. Noi vogliamo essere soggetto che apra questo confronto e, per quanto possibile, portalo dentro l’iniziativa di tutto il sindacato, anche dentro la contrattazione territoriale, che vede la Confederazione impegnata in prima persona.

Innanzitutto, non possiamo rimanere neutrali circa la natura divoratrice della grande distribuzione nei confronti del piccolo commercio. Non si possono richiamare, anche da parte delle istituzioni locali, le caratteristiche morfologiche del nostro Paese per giustificare la necessità che vengano mantenuti in vita anche in territori distanti dalle aree metropolitane, servizio di trasporto, servizio di assistenza sociale e sanitaria, servizio scolastico; non si può ricordare che l’Italia è fatta di tanti comuni, di tante comunità montane, di un tessuto sociale profondamente simbiotico con un territorio più unico che raro e poi, immaginare che tutto ciò non valga per il consumo. Conseguentemente, immaginare che per il consumo valga l’eccezione della nascita e della riproduzione all’infinito delle “cittadelle del consumo”, cittadelle sempre più caratterizzanti le periferie delle nostre città, ma non prive di conseguenze sul piano sociale.
I grandi centri commerciali non sempre rappresentano la miglior risposta alle fasce più disagiate della popolazione, soprattutto gli anziani, per la loro collocazione urbana distante dai centri minori. Il più delle volte, centro commerciale e automobile (trasporto privato) rappresentano un binomio indissolubile.

Ma di non secondaria importanza sono le implicazioni sociali e culturali derivanti dalla riproduzione indiscriminata di queste realtà. E’ singolare che da più parti ci venga spiegata la necessità di guardare alle aperture domenicali come una necessità dei tempi moderni ed altrettanta convinzione non venga spesa per dire che le aperture domenicali dovrebbero riguardare anche tutte le attività che possano offrire una risposta a giovani, adulti, anziani, famiglie in termini di tempo libero in grado di integrare l’offerta consumistica. Per non parlare del fatto che in queste attività commerciali ad essere impiegate sono prevalentemente donne e che le politiche di genere dovrebbero essere parte integrante degli insediamenti previsti nella grande distribuzione.

E poi vi sono le implicazioni di natura urbanistica, dove legittimo è il sospetto che sviluppo equilibrato ed armonico del territorio e delle periferie, venga facilmente sacrificato a benefici economici, spesso di breve termine, tanto delle aziende private della distribuzione, che delle istituzioni locali, che vedono nel centro commerciale la seconda attività economica più influente per il loro territorio.

Noi crediamo che la cooperazione debba ripensare gli indirizzi del proprio sviluppo, provando a smarcarsi dall’ondata prevalente, che guarda ad uno sviluppo a senso unico dei grandi formati distributivi. Indubbiamente, le economie di scala impongono la necessità di favorire processi di accorpamento, di aggregazione, di fusioni che superino i limiti di una struttura anacronistica. Ma questo, non fino al punto di smarrire la peculiarità del sistema cooperativo, quella di dare una risposta ai bisogni di consumo, anche là dove la grande distribuzione non può arrivare, funzione sociale che non può essere interamente sacrificata alle logiche di mercato e della concorrenza.
Fuori da una logica programmatoria, tali scelte spesso mostrano il limite di una debolezza strategica, con il rischio di bruciare importanti opportunità per lo sviluppo dell’impresa cooperativa. Il caso del Mezzogiorno è eloquente. Ad oggi il Sud, per le Coop, appare più come una palla al piede che come una opportunità ed in alcuni casi, costituisce un elemento di rischio per la stessa stabilità delle cooperative che hanno promosso l’investimento. Oggi, tali situazioni –vogliamo riferirci soprattutto al caso della Campania - rappresentano fonti di tensioni e disagi sociali non indifferenti, poiché l’apertura di un punto di vendita spesso rappresenta una delle poche prospettive occupazionali per il Sud ed appare evidente che per il sindacato è difficile gestirne le crisi in una pura logica aziendalistica, tanto più nel caso di una impresa cooperativa, che ha tra i suoi scopi sociali, proprio quello di promuovere l’occupazione. Il caso Campania è un pericoloso campanello d’allarme ed al tempo stesso una chiave di lettura di quanto la mancata programmazione nel settore distributivo possa dare luogo a calcoli sbagliati, quando il parametro prioritario assunto è quello dello sviluppo dei grandi formati. In quel caso si è continuato ad aprire grandi formati, quando le caratteristiche socio-economiche di quelle aree avrebbero consigliato scelte più congrue con le caratteristiche dei bacini di utenza interessati. Oggi, siamo a fare i conti con l’effetto boomerang e vorremmo ricordare che il sindacato non serve solo quando dobbiamo gestire le conseguenze di certe scelte, ma anche quando si programmano gli investimenti. Un sindacato che si confronta non è solo un adempimento previsto dalla prima parte dei contratti, ma una risorsa per le imprese, che sarebbe sbagliato non valorizzare.

Ripensare i modelli di sviluppo della distribuzione, basati prevalentemente sui grandi formati, dunque, non ha nulla di ideologico, ma guarda a dati obiettivi, a partire dal rapporto con il lavoro, con l’occupazione, ove occorre sfatare un luogo comune. Bastano poche cifre: 2 milioni sono gli occupati nel terziario; 400 mila sono occupati nella grande distribuzione; negli ipermercati sono impiegati in tutto il territorio nazionale 80 mila addetti. Va anche sottolineato che alla crescita degli addetti registrata in questi anni, ha corrisposto un diminuzione di ore lavorate, dunque, una destrutturazione del lavoro a tempo pieno.

Ma ripensare il modello della distribuzione significa, come dicevamo in precedenza, anche dare risposte ai problemi dell’ambiente e del territorio.
Se è vero che il terziario è andato gradualmente sostituendo buona parte dell’industria manifatturiera, ciò significa che l’azione di recupero dei siti industriali può rappresentare una valida alternativa alla costruzione di nuovi insediamenti distributivi e questa azione di recupero può rispondere ai nuovi criteri della bio-edilizia e della eco-sostenibilità ambientale, salvaguardando, al tempo stesso, l’identità storica dei nostri territori.
A questo fine, dovrebbero essere immaginate politiche fiscali ed urbanistiche, in grado di incentivare e premiare le imprese del settore che fanno scelte coerenti e compatibili con il rispetto ambientale. Abbiamo già detto che la grande distribuzione, soprattutto, ma il commercio in generale, rappresentano una delle principali fabbriche dello spreco, a partire dall’uso eccessivo di imballaggi e confezioni, per non parlare dello spreco energetico, connesso anche alla mobilità delle merci. Certificare i prodotti a Km 0 o a basso impatto ambientale dovrebbero rappresentare nuovi paradigmi di un commercio sostenibile, che assuma la qualità quale linea di demarcazione tra ciò che va favorito e ciò che va combattuto, tanto nella programmazione pubblica, quanto, nell’educazione al consumo.

In questo senso, occorre anche riflettere sulla diffusione dei Discount e più recentemente, degli outlet, che proprio sul terreno della qualità in rapporto ai prezzi, possono esprimere la loro maggiore incompatibilità con le scelte innovative.

Alla luce di queste considerazioni, è nostra intenzione aprire un confronto sui piani di sviluppo della cooperazione nei prossimi anni, per valutarne i contenuti, per verificare quanto essi siano coerenti con l’obiettivo di definire struttura e modello organizzativo del sistema Coop, in grado di stare al passo con le sfide del mercato, producendo innovazione nel settore. E riteniamo determinante che questo confronto si realizzi con tutte le associazioni impegnate sul terreno della qualità dello sviluppo ambientale, come Lega Ambiente.

Ovviamente, un ruolo importante lo hanno le istituzioni, centrali, regionali e locali per fare della programmazione e delle regole i criteri dello sviluppo settoriale.
Dalla legislazione nazionale in questi anni sono venute misure ispirate alla liberalizzazione del settore, a partire dalla Bersani. Guardando alle spinte che provengono dal settore, la legge del ’98 appare più come un tentativo di regolamentare il processo di liberalizzazione, piuttosto che il contrario, tant’è che ogni ipotesi di sua modifica, tanto più con questo quadro politico, non potrebbe oggi che andare nella direzione opposta a quella da noi auspicata.
Anche per questo è per noi importante il ruolo che in questo ambito possono e debbono svolgere regioni, province e comuni, per ricondurre a criteri di programmazione lo sviluppo del settore.
Le regioni, in particolar modo, debbono sempre più svolgere una funzione decisiva, dato che i bacini interessati allo sviluppo della distribuzione hanno confini che guardano oltre la mera dimensione comunale, spesso oltre la stessa dimensione delle province. Gran parte degli obiettivi che abbiamo delineato in questo nostro ragionamento, pur nel rispetto delle autonomie territoriali, pongono la necessità di ricostruire un quadro di indirizzi unitario nell’ambito delle diverse regioni, per evitare che a pochi chilometri di distanza esistano realtà a volte diametralmente diverse fra loro, con impatti più che comprensibili nel governo dei processi lavorativi.

Leggi regionali del commercio e loro regolamenti attuativi debbono poter offrire un quadro il più omogeneo possibile e coerente, anche per province e comuni, con l’obiettivo della sostenibilità, valorizzando la concertazione tra gli attori sociali ed istituzionali.
La regione che ci ospita per questa iniziativa, ad esempio, ha da poco approvato il regolamento attuativo della legge regionale del 2005 nel quale si definisce una disciplina contenente indirizzi ed obblighi per i comuni, in ordine alla qualità delle strutture di vendita, medie e grandi. Ci sembrano importanti tra i criteri adottati, quelli di compatibilità con gli strumenti urbanistici, che possono prevedere limitazioni dimensionali inferiori a quelli previsti; la previsione di strutture in forma aggregata e l’individuazione di aree vaste, sovra-provinciali; in particolare, ci sembrano importanti gli elementi di qualità previsti per le grandi strutture di vendita: il rispetto dei valori limite di prestazione energetica; la limitazione della produzione di rifiuti (riduzione imballaggi mono-uso, riduzione dei sacchetti di plastica), vendita attraverso mezzi erogatori alla spina, le aree di servizio per la raccolta differenziata e stoccaggio rifiuti, gli spazi destinati ai bambini,…
Ovviamente, è importante la definizione della disciplina degli orari e che tutto ciò si realizzi attraverso lo sviluppo della concertazione tra le parti sociali.

Vi sono altri casi, altri esempi che fanno ritenere quanto sia importante la ricostruzione di un quadro normativo omogeneo su tutto il territorio nazionale, in grado di salvaguardare le peculiarità territoriali, ed in questo senso è nostra intenzione aprire un confronto in tutte le regioni.

Naturalmente, questa nostra funzione di stimolo potrà esercitarsi al meglio soprattutto sul nostro terreno più congeniale, quello della contrattazione.
L’esperienza contrattuale costruita negli anni con la cooperazione rappresenta un patrimonio importante per la nostra riflessione, che è nostra intenzione valorizzare e qualificare al meglio.
Ovviamente, si tratta di una esperienza avanzata, rispetto a quella che abbiamo potuto realizzare nei settori privati, ma non priva di incomprensioni e contraddizioni. Del resto, ognuno fa il suo mestiere, noi quello di tutelare le lavoratrici ed i lavoratori della cooperazione, le cooperative, quello di far funzionare l’azienda cooperativa. In questo senso, i rapporti sono sempre stati schietti, senza sconti particolari, pur senza perdere mai di vista la nostra volontà di favorire processi di qualificazione del lavoro e della azienda cooperativa.

Questa nostra riflessione si svolge a valle di una stagione contrattuale, nel settore terziario, caratterizzata negativamente dal contratto separato siglato da Confcommercio. Aver rinnovato il Ccnl di lavoro della cooperazione ed averlo fatto –invece- unitariamente rappresenta di per sé un fatto positivo, al di là dei giudizi, che come sempre si presentano molto articolati tra noi e non deve essere motivo di imbarazzo per nessuno valorizzare i risultati ottenuti. A partire, ad esempio, da quelli ottenuti in materia di stabilizzazione dei rapporti di lavoro, dato che la crisi di questi mesi dimostra che proprio questo è il punto più difficile del nostro rapporto con la grande distribuzione. Credo sia giusto dare atto del fatto che la cooperazione ha scelto di condividere con noi questo risultato, dato che la stabilizzazione costituisce indubbiamente una risposta in controtendenza con quella che fa della riduzione del costo del lavoro l’unica strategia messa in campo dalla grande distribuzione e, più in generale, dal padronato italiano.

Naturalmente, compito nostro è valorizzare questa scelta e non farla vivere come un handicap, come una tassa in più che la cooperazione paga, compito nostro è indicare quella strada quale l’unica in grado di offrire una risposta avanzata alla crisi, quella della valorizzazione del capitale umano, della risorsa professionale, dell’investimento sul fattore umano, contro la destrutturazione del lavoro.

Per questo, a fronte di questo importante risultato, vogliamo tenere alto il confronto sulla qualità dell’organizzazione del lavoro nell’impresa cooperativa e vogliamo fare della contrattazione di secondo livello il terreno sul quale misurarci con le scelte della cooperazione. Ed è su questo punto che la nostra esperienza registra qualche scricchiolio, dando luogo ad una crescente insoddisfazione tra noi, nel rapporto con le aziende cooperative.
Ovviamente, il panorama nazionale è molto diversificato, in particolare emergono anche caratterizzazioni territoriali, frutto di storie, tradizioni, consistenza dell’insediamento territoriale della cooperazione. Non c’è dubbio, ad esempio, che dove più forte è la presenza dei competitori privati delle grandi catene distributive, le condizioni della sfida appaiono diverse da quelle che possono registrarsi in una realtà caratterizzata da un tessuto economico e sociale molto più polarizzato verso l’impresa cooperativa, come nel caso del Centro-Italia. Così come, aver orientato quote di investimento verso il Mezzogiorno ha significato per la Cooperazione doversi misurarsi con la debolezza strutturale del tessuto economico delle aree del Sud, oltreché con fenomeni endemici di penetrazione malavitosa, estranee alle tradizioni ed alla storia della cooperazione.
Conseguentemente, la stessa iniziativa contrattuale ed i suoi risultati hanno subito il riflesso di queste situazioni diverse fra loro, dando luogo ad intese più o meno soddisfacenti.

Tuttavia, la nostra preoccupazione è che, nel complesso, la qualità delle relazioni sindacali e contrattuali possa andare incontro ad un crescendo di incomprensioni e di tensioni, tali da vanificare le potenzialità e le ambizioni che lo stesso patto per lo sviluppo e per nuove relazioni sindacali, del 2007, si era dato. Credo che su questo capitolo siano necessarie tra noi parole schiette e sincere.

Quello che forse di più può sintetizzare il malessere diffuso è la crisi di partecipazione del sindacato alle scelte dell’impresa. Quasi che il sistema di relazioni sindacali fosse interpretato come una sorta di acritica adesione del sindacato alle scelte dell’impresa cooperativa. Come dire, “vi diamo la stabilizzazione del rapporto di lavoro, il resto lasciate fare a noi, orari, turni, straordinari, festività, ecc..”.
Se è così dobbiamo capire perché questa sia l’interpretazione prevalente tra le Cooperative. Se attiene ad una cultura sindacale che pervade la dirigenza Coop, dobbiamo essere chiari sul fatto che noi non accetteremo mai, né consentiremo che si scambi la partecipazione con gli ordini di servizio. Se è così dobbiamo consigliare la cooperazione di assumere un corretto sistema di relazioni sindacali, quale fattore di innovazione della sua stessa dirigenza.

Se, invece, è la nostra scarsa capacità di innovazione ad essere additata quale ostacolo ad un corretto ed efficace sistema di relazioni, allora bisogna sapere di cosa parliamo. Noi non rinunciamo a metterci in gioco, non rinunciamo a guardare dentro noi stessi, ad interrogarci sulla necessità di evolvere gli stessi nostri approcci, per capire quali siano le nuove esigenze poste dalle evoluzioni del settore distributivo di questi anni, ma vogliamo sapere di cosa parliamo. C’è flessibilità e flessibilità! Forse è vero che dobbiamo saper guardare di più ad una tutela universale di chi lavora nella cooperazione, evitando contrapposizioni tra vecchi e nuovi lavoratori. Il tema del lavoro domenicale –ad esempio- è terreno sul quale dobbiamo evitare di dividere lavoratori tra più o meno garantiti. Mentre, invece, è tema sul quale non intendiamo rinunciare alla tutela delle differenze di genere, poiché non vogliamo dimenticare che per la donna il lavoro domenicale comporta problemi ancora più complessi che per gli uomini.

Ma non ci pare una grande scelta innovativa, moderna inseguire la via dei rapporti individuali tra impresa e lavoratore, che hanno quale effetto proprio quello di rompere la solidarietà interna, che è ingrediente indispensabile per far funzionare al meglio l’ingranaggio produttivo dell’azienda stessa. Il salario legato al merito individuale, ad esempio, ci sembra una innovazione che sa molto di antico, non perché la meritocrazia rappresenti un disvalore, quanto perché assomiglia più al tentativo di imboccare qualche scorciatoia rispetto alla strada maestra della concertazione dei modelli organizzativi. Se si pensa di fare senza sindacato si deve dire, perché questa ci sembra la suggestione! Se si pensa, invece, che con il sindacato si possono costruire soluzioni avanzate, condivise, allora noi ci siamo e ci saremo! Nel caso della cooperazione, inoltre, fare col sindacato significa fare soprattutto con la nostra organizzazione, la Filcams e spesso ci resta difficile capire come possa essere by passata la rappresentanza sindacale reale, se non per evitare il confronto con noi, innanzitutto, con il sindacato più forte e rappresentativo che c’è nelle Coop.

Nel rilanciare spirito ed obiettivi del Patto per lo sviluppo e nuove relazioni sindacali del 2007, dunque, vogliamo invertire la tendenza alla mortificazione ed alla sottovalutazione degli intenti, certo ambiziosi, che hanno promosso quell’intesa, ma assolutamente indispensabili per qualificare il settore distributivo.
Rilanciare e qualificare le nostre relazioni rappresenterebbe anche un segnale di inversione di tendenza con la logica ispirata alle divisioni tra i soggetti della rappresentanza sociale, non solo sindacale. Se qualcuno in questo Paese pensa che una crisi di queste proporzioni si affronti meglio dividendo, isolando chi rappresenta parti importanti della società, piuttosto che tenere insieme, forse guarda più ad interessi propri, che a quelli generali.

La vicenda dell’intesa separata che ha portato alla riforma del modello contrattuale, senza la firma della Cgil, è forse la principale manifestazione di tale cecità politica. La Lega delle Cooperative ha aderito a quell’intesa, omologandosi alla corrente prevalente, che spinge all’isolamento della nostra confederazione e ci interesserebbe sapere quale sia l’opinione dell’ANCC, dato che quell’intesa prevede adesso la realizzazione degli accordi di settore.
Avremmo auspicato che alle nostre ragioni di merito, che ci ha portati a ritenere non condivisibile quell’intesa, fossero venute alle ragioni di merito, invece che luoghi comuni su una nostra presunta incapacità di innovare le contrattazione. Abbiamo criticato il meccanismo di recupero salariale, a fronte della caduta del potere d’acquisto, che ha effetti non secondari sul livello dei consumi; abbiamo parlato di indebolimento del Ccnl e della contrattazione di secondo livello; abbiamo criticato il pericolo insito nelle deroghe al Ccnl. Infine, abbiamo espresso ragioni di dissenso su un sistema di protezioni sociali vincolato al ruolo della bilateralità. Tutti argomenti di merito, ai quali non abbiamo ricevuto risposte altrettanto circostanziate.

Noi non auspichiamo che le nostre ragioni dimostrino la loro validità a danno di qualcun altro, soprattutto, a danno dei lavoratori ed anche per questo continueremo a lavorare per ricomporre, per ricostruire le condizioni dell’unità, pur nella chiarezza e coerenza delle posizioni, nonché nel rispetto di tutti, quindi, anche il nostro.
Un contributo importante a questo fine può venire dalle vicende nei singoli settori, perché è lì che i teoremi generali impattano con la realtà concreta e con il bisogno di trovare soluzioni condivise. Per questo questa nostra esperienza ed i suoi sviluppi è importante, lo è per noi e per i problemi che siamo chiamati a risolvere.

Questo è lo spirito con il quale abbiamo promosso questo confronto, al quale intendiamo dare continuità e metodo. Auspichiamo che questo spirito venga colto in tutta la sua autenticità, come sempre, disponibili ad ascoltare le ragioni degli altri, ma senza rinunciare alle nostre, che nascono e si consolidano attraverso l’esperienza e la condizione di chi rappresentiamo, quelle lavoratrici e quei lavoratori che si sentono un pezzo fondamentale dell’impresa cooperativa e che, per questo, intendono continuare a battersi per il futuro di questa impresa, che è futuro del loro lavoro, ma soprattutto, dei valori della cooperazione, ai quali non hanno rinunciato a credere.