Relazione F. Martini Comitato Direttivo FILCAMS CGIL, 19-20/07/2010
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Come consuetudine, dedichiamo l’ultima sessione del Comitato Direttivo prima della pausa estiva, ad un riepilogo meditato degli aspetti più significativi della nostra agenda politica e sindacale, per avere chiaro il quadro che ci attenderà alla immediata ripresa di settembre (beninteso che nei nostri settori è difficile immaginare una pausa assoluta nello stesso mese di agosto!).
Quest’anno, ancor più dell’anno precedente, il bilancio si presenta denso di preoccupazioni, per certi versi, addirittura inquietante.
Siamo dentro la più grande crisi conosciuta dalle economie occidentali, dal dopoguerra e la situazione richiederebbe una adeguata tensione ideale e morale, necessiterebbe la mobilitazione di sentimenti di equità e solidarietà sociale, richiederebbe la forza ed il coraggio di produrre quelle inevitabili discontinuità con modelli economici e di sviluppo che hanno mostrato il loro limite; insomma, una situazione nella quale sarebbe lecito immaginarsi la mobilitazione di tutte le energie intellettuali, democratiche, civili, ed invece la storia del nostro Paese sta vivendo una delle pagine più brutte, più buie della sua storia.
Il carattere di classe della manovra approvata venerdi dal Senato mostra la lontananza siderale dei poteri forti e del Governo che li rappresenta, dalla nozione di interesse generale, del suo valore prioritario. Ancora una volta i forti contro i deboli, al costo di negare al Paese una vera prospettiva di ripresa e di rilancio del suo sviluppo, su basi economiche e sociali realmente innovative.
Ma fosse solo questo! Ancora una volta ciò avviene in coincidenza, ovviamente non del tutto casuale, con il marcio che cova dentro la vita delle istituzioni. La vicenda della P3, conferma la profondità raggiunta dalle inestirpabili radici dei poteri occulti, dal disprezzo per le stesse istituzioni, conferma la fragilità di una democrazia, sottoposta ripetutamente agli abbordaggi di chi la vive come un impedimento all’affermarsi di interessi di parte, di corporazione.
Se non fosse per l’aspetto inquietante della vicenda, vi sarebbe da ridere e non poco alle affermazioni del Presidente del Consiglio, circa l’autorevolezza internazionale del nostro Paese, guadagnata in questi anni di Governo. L’Italia viene vissuta sempre più come un problema, nel panorama delle democrazie occidentali. Non c’entrano la destra o la sinistra, quanto, il senso dello Stato, il rispetto per le regole democratiche, che dovrebbero appartenere a tutte le formazioni politiche, il profondo intreccio tra politica ed affari, in grado di creare imbarazzo anche a livello della comunità internazionale, come nel caso della Legge Bavaglio, giudicata pericolosa dagli stessi Paesi con i quali, attraverso le intercettazioni telefoniche, abbiamo combattuto i sistemi criminosi.
E se il messaggio che la crisi avrebbe dovuto sollecitare era quello di una grande tensione ideale e morale, per mobilitare un nuovo senso dello Stato, un sentimento di appartenenza ad un grande progetto rinnovatore, dove il gioco della democrazia divenisse la competizione di idee, di programmi, di soluzioni alla crisi, quello che viene fuori è il Paese senza regole, senza identità, dove l’impunità diventa la regola con la quale tutto si auto legittima.
Se dovessi proporvi una immagine che da sola offra l’idea di questo coacervo inquietante, vi proporrei quella delle statue di Falcone e Borsellino che dovevano essere inaugurate ieri a Palermo, in occasione del diciottesimo anniversario delle stragi mafiose, distrutte dall’arroganza di chi non teme di sfidare quotidianamente lo Stato e la democrazia e sa di poterlo fare sempre più, in ragione di un potere politico che, attraverso la vicenda della P3, conferma l’intreccio tra mafia-politica-interessi economici, che sono alla base dei tanti misteri della Prima Repubblica e che stanno già scrivendo nuovi capitoli della Seconda.
La battaglia contro le mafie, per la legalità è la battaglia della Filcams e non solo della Filcams meridionale, dove è opinione comune che il fenomeno sia maggiormente radicato. Le ricerche condotte in diverse aree del Paese confermano che i settori della grande distribuzione, o quello alberghiero, sono oggetto del riciclaggio dei capitali delle cosche.
Per questo ritengo che la nostra categoria debba essere parte del movimento che combatte tutte le mafie, a partire dalla difesa delle norme sui beni confiscati alla mafia, che il Governo intende modificare, rimettendo sul mercato quelli invenduti, che andrebbero a rifinire nelle stesse mani delle cosche.
Di questa immagine del Paese, quella offerta dal capitalismo italiano contribuisce non poco a spiegare le ragioni per le quali il Paese appare avvitato su se stesso, incapace di “battere vie nuove”. Che si chiami Fiat, ovvero Telecom, ma potrebbe chiamarsi Carrefour, oppure Pam, ci troviamo di fronte ai limiti di un sistema cresciuto storicamente con il sostegno fondamentale della spesa pubblica, o che della leva pubblica si è avvalso senza freni, come dimostra lo sviluppo invasivo della Grande Distribuzione.
Anni fa era diffusa la definizione di “capitalismo straccione”, per definire la nostra industria o, più in generale, il sistema imprenditoriale nostrano. Sicuramente, quello cresciuto sotto l’ala assistenziale dello Stato è un “capitalismo viziato”, pigro mentalmente, nel senso della scarsissima vocazione all’innovazione strategica.
Del resto, non è un caso che quella esigua fetta di imprese che ha cercato di posizionarsi sui sentieri dell’innovazione e della ricerca, hanno dovuto cercare spesso fuori dall’Italia i necessari sostegni, che il nostro Paese ha sempre negato o sottovalutato.
La vicenda di Pomigliano è emblematica e sarebbe un errore serio sottovalutarla o considerarla eccessivamente peculiare. Quella vicenda parla a tutti noi, parla di una ricetta tutt’altro che esclusiva, che i nostri settori già da tempo stanno subendo.
Anche per questo sarebbe ingeneroso interpretare la firma separata, imposta col ricatto da Marchionne, come l’ennesima incapacità della Fiom di essere della partita.
E’ ovvio che la Fiom starà dentro la gestione dell’accordo. Ciò non di meno, non possiamo non cogliere il crinale pericoloso che si è inteso imboccare e che i meccanici della Cgil hanno cercato di impedire fino alla fine: la messa in discussione di diritti considerati fino a quel momento indisponibili, in quanto diritti delle persone, sanciti dalla Costituzione.
Sarebbe illusorio considerare quella rottura, frutto di un evento eccezionale, quale condizione per invertire la tendenza alla delocalizzazione. Vi sono due modi per combattere la delocalizzazione: il primo, è guadagnare nuovi margini di competitività, attraverso processi fortemente innovativi, investendo sulla ricerca e la valorizzazione delle risorse umane; attraverso politiche industriali (o settoriali) e fiscali di sostegno. Il secondo è quello di importare in Italia le condizioni più vantaggiose, presenti nei “paradisi della delocalizzazione”. Conosciamo bene quali siano quelle condizioni vantaggiose, abbiamo criticato la Cina in quanto modello basato sul supersfruttamento delle persone e sulla negazione dei diritti.
In salsa italiana la ricetta Marchionne ha la stessa filosofia quale principio ispiratore: orari, ritmi, carichi di lavoro debbono subire una pesante revisione; i diritti sindacali non possono rappresentare un freno, un lacciolo, quindi, vanno misurati, come pure il livello del conflitto.
Domando: c’è una differenza davvero rilevante con quanto ci viene chiesto nella grande distribuzione? E’ davvero così diverso –ad esempio- con la richiesta di abolizione della pausa retribuita, o della liberalizzazione delle aperture nelle giornate festive e domenicali, con la pretesa di retribuirle come lavoro ordinario? E con la riduzione delle agibilità sindacali, imposte in alcune catene distributive?
E’ chiaro che se tutto ciò avviene è per l’effetto combinato di un quadro politico favorevole e di una difficoltà sindacale che ha raggiunto uno dei suoi massimi livelli da molti anni a questa parte.
Il Governo, fin dall’inizio, ha fatto capire che la direzione di marcia sarebbe stata quella chiesta da Confindustria. L’”uomo all’Avana”, il Min. Sacconi, ha indicato nella controriforma del mercato del lavoro e nella revisione dello Statuto dei Lavoratori le tappe principali di questa marcia.
Cisl e Uil, fin dalla vittoria del centro-destra alle ultime elezioni politiche, hanno ritenuto inevitabile cercare di “venire a patti” col Governo, in considerazione dell’estrema debolezza del fronte sindacale, che la crisi in arrivo avrebbe ulteriormente implementato. Si può essere d’accordo o meno con quella scelta (e noi non lo siamo stati), ma è legittimo avere opinioni diverse.
Quella che può essere considerata la responsabilità principale delle altre organizzazioni sindacali è aver assecondato con le loro scelte il tentativo di isolamento della Cgil. L’accordo separato del 22 gennaio, sul modello contrattuale, demarca due fasi e segna una rottura seria con la tradizione sindacale del nostro Paese. E’ difficile negare che contenuti e metodo che hanno portato a quell’accordo hanno avuto nel disegno di isolamento della Cgil il suo principio ispiratore.
Lo dico, per richiamare la necessaria attenzione su ciò che sta accadendo oggi in Fiat. Dopo l’accordo separato, il licenziamento di lavoratori iscritti alla Fiom, C’è un evidente salto di qualità, dal ricatto che ha imposto l’accordo, all’intimidazione verso i dissidenti. Che questo salto di qualità venga dalla principale impresa italiana deve disilludere circa l’eccezionalità del caso. Verrebbe da domandarsi perché se lo fa Fiat, non dovrebbe poterlo fare un’altra impresa, perché se è concesso alla più grande azienda nazionale, non dovrebbe esserlo ad altre, che sicuramente potrebbero portare giustificazioni ancora più corpose? Basti pensare ai settori ancor più esposti alla concorrenza asiatica, come il sistema della moda. Riportare le produzioni del tessile-abbigliamento in Italia comporterebbe altro che accordo Pomigliano…!
Alla luce di queste considerazioni, credo che la Filcams debba vivere questa fase con la piena consapevolezza della partita che si sta giocando e che rischia di vedere i nostri settori tra quelli più esposti al pericolo di una regressione delle libertà sindacali. Oltretutto, nel terziario agire le libertà sindacali comporta un tasso fisiologico di difficoltà già superiore ad altri mondi, quindi, basta proprio poco.
Dopodichè, democrazia e rappresentanza sindacale costituiscono la carta d’identità del nostro sindacalismo confederale e la sua difesa non costituisce iniziative categoriale, ma di tutto il sindacato.
Per questo, dobbiamo aggiungere alla solidarietà verso coloro che sono fatti oggetto di questo attacco, la messa in campo di una forte iniziativa sul tema delle regole, come la Cgil ha deciso al suo ultimo Congresso. Non possiamo negare (e dobbiamo denunciarlo con forza davanti a tutto il Paese), che tutto ciò che si va sviluppando oggi nel sistema di relazioni sindacali, avviene con grande dispiego di arroganza, senza alcuna disponibilità dei protagonisti di sottoporre il loro operato a verifica.
Da un lato si invoca il rispetto della volontà popolare, per giustificare la legittimità di Berlusconi a governare; dall’altro, si nega al popolo interessato di esprimere una volontà.
Si tratta di una violenza insopportabile, che va denunciata e sulla quale dobbiamo innescare l’iniziativa che abbiamo deciso di sviluppare.
C’è sicuramente un malessere più diffuso di quello che appare, nel Paese e nei luoghi di lavoro. -Il referendum a Pomigliano lo ha dimostrato, anche a noi stessi, alla Cgil.
Un malessere che continua a non trovare una sua traduzione in termini di discontinuità politica, anche per un panorama offerto dall’opposizione, che non pare attrarre i necessari consensi.
Anche per questo, la Cgil deve continuare ad offrirsi come punto di riferimento di quella ampia parte del mondo del lavoro e del Paese che subisce le scelte del governo, che esce penalizzato dal carattere iniquo di quelle scelte, dal loro carattere esplicitamente di classe.
L’ultima manovra economica da 25 miliardi, approvata giovedì al Senato, contiene un attacco esplicito alle condizioni della parte più povera del Paese, senza avere il respiro di una operazione in grado di traguardare l’uscita dalla crisi verso una nuova prospettiva di sviluppo.
Il punto non è la necessità di fare sacrifici, ma la qualità delle scelte compiute, il cui carattere sociale è profondamente iniquo. In alcuni casi sono misure che gridano vendetta, quando si tende a colpire i deboli e gli indifesi, come nel caso dei disabili e dei non autosufficienti; quando si penalizzano le aree più povere del Paese, quando si cerca di sottrarre fondi europei per lo sviluppo nel Sud; così, come l’attacco ai servizi, di cui le fasce più deboli della popolazione necessitano, aprendo con Regioni ed Enti Locali un conflitto senza precedenti; per non parlare della manomissione surrettizia della riforma delle pensioni, attraverso lo spostamento delle finestre per coloro che hanno maturato i requisiti per la pensione; oppure, l’attacco al lavoro pubblico, costruendo un impietoso parallelo tra lavoro pubblico e sprechi, negando la funzione sociale dello stesso.
Sono considerazioni che abbiamo già avuto modo di svolgere nel precedente Direttivo e che mantengono la loro validità, dato che nulla è cambiato.
I poveri pagano di più ed i ricchi vengono abbondantemente salvati, le misure fiscali e di lotta all’evasione sono assolutamente irrisorie!
Tutto ciò assume contorni ancora più inquietanti, per l’assenza di ogni profilo di politica economica e industriale. Potremmo dire che l’unica misura di politica industriale nell’agenda del Governo è la revisione dell’art.41 della Costituzione, per rendere più accessibile la libertà d’impresa. Ovviamente, favorire la libertà di fare impresa significa aggirare buona parte delle norme che faticosamente avevamo in questi anni conquistato in materia di sicurezza e regolarità. Il preannunciato provvedimento teso a rendere facoltativo il Durc negli appalti privati è semplicemente scandaloso, tanto da aver suscitato la reazione degli stessi costruttori, notoriamente abbastanza vicini al Presidente del Consiglio.
Quello che può essere aggiunto è che niente di questa manovra va nella direzione dei nostri settori, né sul piano delle risorse destinate allo sviluppo, né su quello della crisi, dove avevamo chiesto misure strutturali in materia di ammortizzatori sociali.
E non sembra che la prospettiva sia migliore, dato che la stessa manovra viene considerata da molti economisti, insufficiente per lo stesso obiettivo di fare cassa. Tremonti smentisce, ma non convince tutti gli osservatori, circa la necessità di una manovra correttiva, tornati dalle vacanze.
Alla domanda “che fare?” non possiamo rispondere che in un modo: dobbiamo continuare a denunciare il fallimento di questa politica, a proseguire l’iniziativa per pretendere un suo cambiamento, sapendo che dobbiamo combattere non solo contro avversari agguerriti, ma anche contro la crisi di fiducia del Paese, il disincanto, il ripiegamento nell’individualismo. Ma sarebbe sbagliato catalogare l’intero Paese come una entità rassegnata. Dobbiamo insistere, senza le illusioni di scorciatoie che non risolverebbero il problema di una prospettiva alternativa attorno alla quale convergere il consenso necessario.
In questi giorni, le vicende che hanno scosso il Partito della Libertà hanno eccitato qualche speranza di troppo. Indubbiamente, sono il segno della profondità della crisi raggiunta da una coalizione cementata essenzialmente dal potere del capo/padrone e da interessi corporativi.
Ma la partita che si va giocando non può essere vinta grazie agli autogol degli altri, dobbiamo dimostrare l’esistenza di una idea forte in campo, cosa che stenta ad affermarsi. Noi dobbiamo insistere nel rappresentare le ragioni del lavoro, non tanto per un dovere di rappresentanza, quanto perché l’attacco ai suoi valori ed al suo ruolo nella società rappresenta la negazione di una prospettiva di crescita del Paese.
Per quanto riguarda noi, la Filcams, non c’è dubbio che tutto ciò rende più complessa l’iniziativa contrattuale e sindacale. Il contesto della crisi non fa che rendere ancora più difficile il nostro lavoro, che dobbiamo portare avanti su due terreni, fra loro collegati: quello contrattuale e quello sulle politiche di settore.
Sul piano contrattuale:
Qualche giorno fa è stata siglata l’intesa per il Ccnl Turismo Confindustria, che conclude la vicenda del rinnovo in tutto il settore.
Sostanzialmente, valgono le considerazioni fatte per il precedente Ccnl firmato con Confcommercio, con una considerazione in più, relativa alle terziarizzazioni, che in questo contratto trova una soluzione ancora più avanzata che in quello firmato a febbraio.
Sul mercato del lavoro è sorta una incomprensione con la Cgil sul lavoro a chiamata, che, però, non viene introdotto da questo Ccnl, essendo in vigore da anni una legge che ne consente il ricorso nel settore turismo. E’ stata nominata una commissione che farà un lavoro di approfondimento, circa la possibilità di regolamentarne l’uso, in alternativa al lavoro extra e non in aggiunta.
Questa mattina si è svolto l’attivo dei delegati del turismo che ha ratificato il risultato della consultazione.
Occorre che il Direttivo rifletta seriamente sul risultato della consultazione, poiché il numero delle aziende coinvolte è largamente inferiore a quelle della consultazione di andata. In particolare, negli alberghi il numero degli alberghi è poco più superiore ad un quarto di quelle svolte sulla piattaforma.
Naturalmente, non si può parlare di scarso impegno delle strutture. Il problema è interrogarsi sulle possibilità di un settore come il nostro di produrre un largo coinvolgimento democratico. La democrazia non può essere solo declamata, né diventare palestra per la dialettica interna ai gruppi dirigenti. La democrazia deve poter essere esercitata ed in un settore destrutturato come il nostro, occorre che la Filcams produca uno sforzo superiore, per quantità e qualità, delle altre strutture di categoria o confederali.
Il tavolo della vigilanza privata, invece, è in pieno “alto mare”. Nessuna evoluzione positiva è stata prodotta negli ultimi incontri, neanche quello svolto con i Segretari Generali la scorsa settimana.
Ci si è aggiornati al 29 luglio ed in quella sede avremo la conferma o meno delle attuali difficoltà, rappresentate soprattutto da una compagine datoriali molto articolata nelle proprie posizioni ed incapace di fare sintesi.
Va da sé che in autunno ci troveremo a quasi due anni dalla scadenza del Ccnl ed il rischio che “salti” il contratto non può passare sottosilenzio. Dovremo pertanto valutare, a partire dal coordinamento, con molto realismo e determinazione, quale dovrà o potrà essere l’iniziativa più adeguata per fronteggiare la situazione
Il tavolo Multiservizi ha subito la brusca frenata di cui abbiamo parlato in questi giorni. Ci eravamo resi disponibili ad un rinnovo contrattuale “leggero”, che non entrasse molto in merito alla normativa, consentendo così di apparire come una via di mezzo tra secondo biennio e rinnovo triennale. In questo senso, erano stati dati alcuni affidamenti, poi smentiti negli incontri recenti.
Si tratta, pertanto, di verificare al prossimo incontro previsto tra qualche giorno se potrà essere recuperata l’impostazione per la quale ci eravamo resi disponibili e della quale vi abbiamo informati attraverso le note della struttura nazionale.
E’ in corso la consultazione sulla piattaforma Terziario Distribuzione e valgono anche per questa consultazione quanto già detto per la precedente. Non risulta che si sia raggiunto il ritmo che l’importanza del settore e del coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori richiede.
Abbiamo tempo fino Sabato 11 settembre ed è richiesto alle strutture il massimo sforzo per definire i programmi di assemblee in tutti i territori.
L’iniziativa sulla contrattazione vede, poi, il secondo livello di contrattazione quale terreno meritorio di nuova attenzione da parte nostra. Tanto più che buona parte dei capitoli definiti nei Ccnl nazionali rimandano al ruolo della contrattazione di II livello, soprattutto, in materia di organizzazione del lavoro.
Dobbiamo in tutti i modi sfatare l’opinione delle nostre controparti, le quali ritengono poco credibile la nostra volontà o capacità di riprendere al secondo livello le questioni oggetto dei Ccnl. Spesso, si tende a pensare che demandare al secondo livello sia una via di fuga, per superare l’impasse che spesso si produce nel negoziato nazionale. Invece, dobbiamo provare a mettere in pratica le cose che abbiamo detto su organizzazione del lavoro, salute e sicurezza, mercato del lavoro.
Circa un anno fa abbiamo svolto un primo seminario sulla contrattazione di secondo livello. Alla ripresa autunnale, dovremo impostare una “seconda puntata”, per offrire a tutta l’organizzazione alcune linee di indirizzo, dentro le quali sviluppare la contrattazione aziendale o territoriale, sapendo che a questa seconda, con il coinvolgimento della Confederazione, è chiesto di cercare risposte ad un bel pezzo di problemi dei settori che noi rappresentiamo.
Anche per questo, la nostra agenda autunnale dovrà rimettere al centro le principali questioni di politica settoriale. Come già ripetutamente annunciato, le iniziative centrali saranno quella sugli appalti, tema sul quale nella sessione di domani mattina ci occuperemo, alla presenza della Segreteria Confederale e quella sul settore distributivo, per mettere in campo un confronto all’altezza sul settore distributivo e la crisi, sulle nuove vie dello sviluppo, ripensando assetti, modelli organizzativi e dimensionali e quanto discusso al recente congresso nazionale.
Infine, anche in questo quadro, fa data omogeneità al nostro modo di stare dentro la definizione dei regolamenti comunali e leggi regionali. In questo periodo sono diversi i tavoli istituzionali ove sono in atto confronti tra le parti su orari, aperture, deroghe, ecc… Pur nelle specificità locali, occorre stare dentro questo confronto (che, in alcuni casi, è interpretato in modo autoritativo dalle stesse istituzioni), avendo un filo conduttore da seguire.
Tutte queste proposte costituiranno la nostra agenda politica e sindacale della ripresa autunnale, sulla quale impegneremo tutte le strutture,, anche in uno sforzo di verifica sulla coerenza del lavoro che dovremo mettere in campo.