18/3/2025 ore: 16:51

La Filcams celebra i suoi 65 anni

Introduzione del Segretario Generale Fabrizio Russo

Contenuti associati

Buon pomeriggio a tutte e a tutti.

Grazie a Serena Dandini, che ha accolto il nostro invito a coordinare questo incontro e a Stefano Massini per le parole che ha voluto dedicarci. Parole che toccano il cuore e la mente di chi come noi ha l’assillo di rendere il lavoro dignitoso e umano per tutte e per tutti.
Grazie a Michela Ponzani, a Gianrico Carofiglio, a Riccardo Falcinelli e a Babelnova Orchestra per l’importante disponibilità a prendere parte alla nostra giornata.
E un grazie anche al segretario generale della Cgil, Maurizio Landini che chiuderà i lavori della giornata, e alla segreteria confederale tutta.
Grazie a Maria Grazia Gabrielli, a Franco Martini, a Ivano Corraini, già segretari generali della Filcams e ai nostri ex segretari nazionali che ci accompagneranno nel corso di questa iniziativa.
Grazie ai segretari generali e ai segretari nazionali di categoria e ai segretari generali e ai segretari confederali regionali e di area metropolitana presenti.
Grazie a Davide, a Paolo e a Marco – Davide Guarini, Paolo Andreani e Marco Verzari – segretari generali di Fisascat, Uiltucs e Uiltrasporti, per la loro presenza.
Grazie agli esperti, ai ricercatori, ai consulenti che hanno contribuito anche oggi con la loro collaborazione a qualificare ulteriormente il nostro lavoro.
Grazie ai nostri dipartimenti organizzazione e comunicazione e a Cemu e al nostro centro studi, per il grande impegno che ha consentito la realizzazione della giornata. 
Grazie a voi, che siete qui in tante e in tanti a celebrare l’anniversario della nostra organizzazione, perché siete indiscutibilmente parte rilevante della straordinaria forza della Filcams.
Ma soprattutto, grazie alle migliaia di delegate e di delegati che ogni giorno con la loro partecipazione, con il loro sostegno, con la loro determinazione, ci consentono e consentono alla Filcams e alla Cgil tutta, di avanzare, di progredire, di porre e di porci sempre nuovi obiettivi.
Grazie compagne e compagni
E siamo a 65! Ne dimostriamo senz’altro meno ma è come se fossero almeno il triplo, tante sono le cose che abbiamo fatto e tanti i cambiamenti avvenuti nel frattempo nella nostra società e nel mondo del lavoro! 
La nostra storia è ormai nota e oggi vogliamo ricordarne i passaggi salienti.
E’ una storia che si intreccia inevitabilmente con la storia del Paese, della società e con la vita di milioni di persone, di milioni di lavoratrici e di lavoratori del terziario dalla cui attività altrettanti milioni di persone hanno ricevuto e continuano a ricevere cura, beneficio, benessere.
La Filcams nasce nel 1960. Potremmo dire, scherzando, che si tratta di una “boomer”.
Sessantacinque anni di lotte, di partecipazione, di vertenze contrattuali mai facili, mai scontate.
Come quelle che abbiamo concluso nel 2024, firmando 13 contratti nazionali, dopo anni di difficoltà e di ostacoli non certo tutti superati.
Ogni miglioramento nelle condizioni di vita delle persone che rappresentiamo e organizziamo ha richiesto impegno, scioperi, mobilitazioni. Ma ha richiesto anche idee, analisi e continua innovazione perché i settori e i comparti lavorativi nei quali operiamo sono per loro natura, e continueranno ad essere, in continua crescita e in permanente trasformazione.
Questa spinta innovativa non dobbiamo mai perderla perché ci aspettano anni di ulteriore cambiamento in cui non mancheranno certo le insidie, insieme alle opportunità.
E se non saremo pronti a misurarci con le nuove sfide verremo tagliati fuori! E saremo incapaci di tutelare i diritti di chi lavora! Guardiamo avanti, dunque!
Tenendo bene a mente che “un popolo senza memoria è un popolo senza futuro”. Ce lo ricordava una persona cara a tante e a tanti di noi, un militante socialista in Cile, arrestato e imprigionato dopo il golpe di Pinochet. Riuscì a fuggire dal carcere e dal suo paese e regalò storie bellissime a lettori di tutte le età e di tutto il mondo. Parlo, lo avrete capito, del grande scrittore cileno Luis Sepulveda.
La memoria che dobbiamo coltivare riguarda una storia, la nostra, in realtà ben più lunga di 65 anni perché inizia nella seconda metà del diciannovesimo secolo, attraverso le “società di mutuo soccorso” e le “unioni di miglioramento”; passa per la grande guerra e per “il biennio rosso”, l’ondata di scioperi proclamati tra il 1919 e il 1920, e infine per l’Internazionale sindacale rossa nell'ambito del III Congresso della Terza Internazionale l’anno successivo.
Poi, se possibile con ancora maggior forza e coraggio, l’opposizione al regime fascista con la Filam come avamposto, le persecuzioni e le condanne nei confronti di lavoratori e sindacalisti ad opera del Tribunale speciale fascista per la difesa dello stato, gli anni del secondo conflitto mondiale e poi il ruolo della nostra categoria nella resistenza e infine nella liberazione.
Tra settembre e dicembre del ’44 vennero stampati due numeri di un foglio clandestino, titolati La mensa e Il lavoratore della mensa. Contenevano un doppio appello: il primo era l’invito alle lavoratrici e ai lavoratori della categoria a dare il proprio contributo attivo all’insurrezione antifascista, anche collaborando alla difesa delle città e delle infrastrutture produttive che i tedeschi minacciavano di distruggere.
Il secondo appello era squisitamente sindacale: bisognava far ripartire il conflitto di lavoro, dopo vent’anni in cui le lotte erano state soffocate dalla repressione, dal carcere e dal confino degli attivisti.
Descrisse bene quegli anni drammatici uno dei quaderni mensili della Filam pubblicato nel marzo del 1951, a conferma dello stampo marcatamente antifascista della categoria. Così veniva scritto:
"[…] la nostra Filam, malgrado tutto il terrorismo fascista, non si è mai autonomamente sciolta. […] alla fine del 1925 avvenne l’arresto e la condanna a 16 anni di galera al compagno Giovanni Nicola e successivamente altri lavoratori della Filam: Palmieri, Barochelli, Carrà, De Simoni, Angelino, Butini, Boiani e tanti altri accumularono decine e decine di anni di carcere e persecuzione, altri diedero la loro vita combattendo per la libertà in Spagna e nella lotta partigiana".
Ecco, quelle donne e quegli uomini li dobbiamo ricordare, anche perché questo è un anno speciale: il mese prossimo, il 25 aprile, festeggeremo gli ottanta anni dalla liberazione dell’Italia dal nazifascismo.
E ricorderemo, a noi stessi innanzitutto, che non bisogna mai abbassare la guardia! Che la libertà è un bene che non si conquista una volta per tutte! Che i suoi nemici sono sempre pronti a colpire e a tornare!
Ce lo conferma, purtroppo, quello che sta accadendo oggi nel mondo, tema sul quale mi soffermerò ancora a breve.
Proseguendo con noi, il dopoguerra conobbe poi un grande fermento per la nostra categoria. 
Il 1946 è stato l’anno della Filcea, la Federazione italiana lavoratori commercio e aggregati ed è dello stesso periodo la rifondazione della Filam, in rappresentanza dei lavoratori di alberghi, mense e terme e infine, appunto, il 18 marzo di 65 anni fa la fusione dei due sindacati e l’origine della Federazione italiana lavoratori commercio, alberghi, mense e servizi, la nostra Filcams, portata a compimento nel 1974 con l’accorpamento della Filai.
Si arriva così agli ultimi decenni e all’attualità, con il tanto fatto e il tanto ancora da fare.
Accennavo poco fa a quel che sta succedendo nel quadro internazionale.
Non sono poche le persone, anche delegati e militanti del nostro sindacato, che in questi giorni stanno condividendo il loro smarrimento e le loro preoccupazioni per le notizie che arrivano dal mondo.
I telegiornali ci lasciano attoniti. La strage terroristica del 7 ottobre e poi lo sterminio della popolazione di Gaza: lo slogan che è anche nostro “due popoli, due stati” sembra ogni giorno di più una chimera.
Tre anni di guerra in Ucraina che potrebbe finalmente terminare, ma con la resa di fatto di Kiev e con una pace venduta a suon di terre rare e minerali preziosi all’amico fraterno dell’aggressore, che ora risiede alla Casa Bianca e che si chiama Donald Trump.
Cose inimmaginabili, poche settimane fa.
Il diritto internazionale violato continuamente, l’Onu e le sue agenzie sotto attacco. È la legge del più forte, del più ricco o del più attrezzato militarmente. 
Ma così evidentemente il mondo non va lontano.
Nell’attesa di porre fine alle guerre in corso, se mai accadrà, è stata avviata dall’amministrazione Trump una guerra commerciale. E, come ci dice la  storia, quelle commerciali rischiano di portarci dritti dritti alle guerre guerreggiate.
Su questo e contro il “protezionismo di ritorno” ha speso parole chiare il presidente Mattarella, quando ha detto nei giorni scorsi “un ordine mondiale aperto, libero e inclusivo è l’unico presidio di stabilità”.
Anche da questa sala e ancora una volta inviamo al Capo dello Stato un saluto affettuoso e pieno di gratitudine. 
Sì, siamo infinitamente grati al presidente Sergio Mattarella perché in un’epoca segnata da così tante incertezze e inquietudini, con la sua azione e le sue parole sta rappresentando un punto di riferimento certo per tutta la popolazione. Parlo del costante riferimento ai valori costituzionali, ai principi del diritto internazionale, alle fondamenta del progetto europeista.
Dal canto suo Trump ha già deciso tariffe generalizzate del 25% per i prodotti importati dal Messico e dal Canada, del 10% per i prodotti petroliferi canadesi e di un ulteriore 10% per le importazioni dalla Cina.
E la Casa Bianca ha annunciato per il 2 aprile nuovi dazi che colpiranno direttamente l’Europa.
Ma anche se non lo facesse, i dazi imposti a Messico e Canada colpirebbero inevitabilmente anche i paesi del vecchio continente.
Anche alla luce della selva di altri ordini esecutivi, dazi e disposizioni via social, significa mettere a rischio decine e decine di migliaia di posti di lavoro.
Ma – si badi bene – viene offerta alle imprese europee, messicane e canadesi un’alternativa: abbandonate i vostri paesi e venite a produrre negli Stati Uniti. Gli incentivi a farlo non mancheranno.
La desertificazione produttiva in corso in Italia farebbe passi da gigante!
La verità è che l’Unione europea è presa tra due fuochi, quello di Mosca e quello di Washington, incapace di una reazione che non sia quella sbagliata e senza prospettiva del riarmo scriteriato di ogni singolo paese – che non è la difesa comune  – (un riarmo) pagato anche con i soldi destinati ai fondi di coesione.
Chi critica questa scelta e parla, come noi facciamo, di un’Europa di pace, di un’Europa sociale e non militare, viene preso come un’anima bella e un visionario, poco realistico.
Vorrei però ricordare che il progetto dell’unità europea nacque in un’isola, quella di Ventotene, ad opera di alcuni confinati dal fascismo, mentre i popoli europei si combattevano uno contro l’altro.
Il manifesto di Ventotene fu scritto lì nel 1941, mentre le città europee erano devastate dai bombardamenti.
E fu pensato proprio per dire che se i nazionalismi avevano portato a due guerre mondiali, bisognava creare qualcosa di più grande, che andasse oltre i singoli paesi, gli Stati uniti d’Europa appunto.
Erano visionari a scrivere questo in quel frangente? Era un visionario Altiero Spinelli, o Ernesto Rossi, o Eugenio Colorni o Ursula Hirschman? Si, lo erano.
Ma ben vengano allora i visionari, che alzano lo sguardo oltre il quotidiano e sono capaci di immaginare un futuro migliore.
Così dobbiamo fare noi! Mentre il mondo si riarma e rischia la terza guerra mondiale, noi chiediamo invece una grande iniziativa diplomatica e politica per la pace.
Con questo spirito abbiamo partecipato alla manifestazione di sabato scorso, per un’Europa di pace, per l’Europa sociale, per l’Europa di Ventotene.
Ma ancora a proposito di visionari, come potremmo non esserlo noi! 
Non lo fossimo stati fin dalle origini non saremmo neanche riusciti ad organizzarci e a diventare quello che siamo oggi.
Visione, coraggio e speranza, fiducia nel futuro. La combinazione di queste nostre virtù ci ha consentito, pur in situazioni di fragilità, di invisibilità, di vulnerabilità, di non arrestare il nostro cammino e soprattutto, di andare avanti.
E oggi più che mai siamo convinti che una serie di luoghi comuni, di false certezze, di presunti stereotipi che ci hanno accompagnato per lungo tempo dovremmo cominciare a metterli da parte.
E dobbiamo avere maggiore consapevolezza della nostra forza, delle nostre potenzialità, dei nostri mezzi.
Lo dobbiamo a noi stessi, a quel che siamo diventati, a quel che potremo essere, a quel che saremo.
E allora pur conoscendo le nostre scontate e note debolezze dobbiamo concentrarci su priorità, traguardi e ambizioni che pure emergono con sempre maggiore assiduità nelle nostre discussioni, e ricondurle ad alcune parole d’ordine entrate ormai nel nostro vocabolario quotidiano e che si chiamano, per citarne solo alcune, emancipazione, liberazione - o meglio liberazioni, al plurale - e umanità del lavoro.
Il grande dibattito che stiamo affrontando delinea esattamente questo orizzonte e questi obiettivi da perseguire con un approccio come non mai pragmatico.
Le mobilitazioni di iniziativa confederale e di categoria, la sottoscrizione di 13 rinnovi contrattuali in un solo anno, la vertenza avviata dalla Filcams Per l’Umanità del Lavoro in tema di contrasto alla precarietà e al lavoro povero, i cinque quesiti referendari, sui quali saremo chiamati ad esprimerci l’8 e il 9 giugno e per i quali dobbiamo continuare a impegnarci a fondo, una elaborazione più organizzata e consapevole di politiche rispetto ai nostri diversi settori e del terziario nel suo complesso, l’instaurazione di rapporti più strutturati e articolati con la politica e le istituzioni, l’impegno sempre più qualificato nella nostra attività internazionale e nel rapporto con i sindacati internazionali, la necessità di ridefinire per il nostro perimetro un nuovo assetto contrattuale e di rappresentanza sono parti, tutte quante rilevantissime, di un nostro progetto più complessivo di cambiamento, di svolta, di evoluzione del lavoro nei nostri contesti e più in generale nella società e nel Paese.
Non considero né retorico né velleitario, tantomeno presuntuoso da parte nostra il ricorso a termini come resistenza e liberazione perché è assolutamente vero che dobbiamo essere in grado di resistere, di liberare e di liberarci dalle tante e nuove forme di oppressione, di sopraffazione e di arretratezza che si stanno diffondendo, che ci coinvolgono e che hanno ripercussioni, inevitabili, sulla nostra società, sulla nostra cultura, sullo stesso senso di civiltà che per anni, per decenni abbiamo preso comunemente a riferimento, ma anche (ripercussioni) sulle nostre condizioni di vita e di lavoro e sul nostro futuro.
È questo l’oggetto del contendere, non altro, non altri: la vita reale di milioni di persone, delle loro famiglie, delle persone a loro care, di milioni di giovani, di donne e di migranti che non casualmente coincidono in larga parte con le lavoratrici e i lavoratori dei nostri settori, degli appalti, dei servizi, della filiera del turismo, della ristorazione e della cultura, del terziario, del commercio, della distribuzione. 
È la Filcams; siamo noi. Siamo plurali e siamo uniti. E vogliamo esserlo ancora di più!
Forti dei nostri 65 anni di storia, forti dei 119 anni di storia della nostra confederazione!
Ecco, questa è la Cgil! Questa è la forza della Cgil! Questa è la nostra forza!
E allora, la portata delle mobilitazioni, delle vertenze, tante e tutte importanti che stiamo sostenendo soprattutto in quest’ultimo periodo presuppongono che ciascuna delle lotte, ciascuna delle resistenze, ciascuna delle liberazioni che perseguiamo siano di tutte e di tutti, nessuno escluso.
E questo significa un’assunzione di responsabilità da parte dell’organizzazione nel suo complesso. 
Non è un caso che in questo momento non ci sia categoria della Cgil che non si stia mobilitando; è indice della gravità della situazione in cui versa il Paese, ma anche della nostra combattività.
E il discrimine, in una fase come quella attuale, sta nella capacità, nella responsabilità, nella consapevolezza di affrontare il proprio ruolo soprattutto in relazione all’ambizione, alla quale dobbiamo sempre tendere, di rappresentanza generale del Paese. 
Rispetto ad un obiettivo così alto e impegnativo, una sorta di precondizione non può che essere rappresentata dalla capacità, dalla volontà, dalla convinzione di superare un’ormai sempre più presunta diversificazione o distintività settoriale; un lascito veramente di altri tempi!
La questione, posta in termini ancora più espliciti, è come si tiene insieme il Paese, come si tiene insieme la società, come si tiene insieme l’economia nel suo complesso, come si tengono insieme il lavoro e i differenti lavori, e quindi quale sia, quale debba essere in questo senso il ruolo del sindacato, della Cgil, in un periodo di profonde divisioni e di contrapposizioni radicali.
È una sfida, senz’altro tra le più importanti delle diverse che ci attendono: come il sindacato possa e debba contribuire alla definizione di un nuovo modello – occupazionale, sociale, economico, culturale, ambientale – che sia sostenibile, responsabile, umano, finalmente “di pace”, diremmo noi.
Mi sentirei di dire, anche qui senza presunzioni o velleità, che da questo punto di vista partiamo avvantaggiati, grazie ai nostri trascorsi e alla nostra storia, ma grazie anche alla franchezza, alla schiettezza e alla dinamicità con le quali continuiamo a muoverci sul piano del confronto anche al nostro interno, con la necessità di definire una prospettiva che, come dicevamo, non lasci indietro nessuno.
Ecco che cosa intendiamo quando parliamo di “confederalità”: una direttrice che dobbiamo continuare a tracciare.
È l’esatto contrario del corporativismo, della pretesa, dell’illusione che un’unica categoria di lavoratrici e di lavoratori possa da sola affrontare e risolvere i suoi problemi ed è al contrario la certezza che soltanto unendo le forze e perseguendo una finalità più generale si produca un progresso nelle condizioni di vita e di lavoro di tutte e di tutti, a partire dai più deboli.
Ma questo modo di intendere l’azione sindacale ci dice una cosa molto chiara e cioè che contestualmente alla gestione delle vertenze e delle mobilitazioni, alle urgenze quotidiane che sono indiscutibilmente il core business della nostra attività, per le peculiarità dei settori di lavoro che rappresentiamo, abbiamo bisogno di un sempre maggiore impegno nell’elaborazione, nella discussione, nell’analisi. Ce lo impongono il contesto nel quale operiamo e la crescente complessità delle questioni che affrontiamo.
La Filcams deve essere nelle condizioni di definire e proporre il proprio punto di vista anche rispetto a tematiche di portata più generale.
Una sfida così rilevante la si vince solo se la si affronta unitariamente. 
Continuiamo ad essere fortemente convinti del valore dell’unità sindacale e questa nostra convinzione è confermata dal lavoro straordinario che abbiamo fatto insieme a Fisascat, Uiltucs e Uiltrasporti, anche nel corso degli ultimi anni, dalle mobilitazioni del 2023, dai tredici rinnovi contrattuali del 2024, dalle attese vertenze e rinegoziazioni dell’anno in corso. 
Ora è necessario proseguire questa azione unitaria verso un effettivo miglioramento delle condizioni di lavoro di chi presta attività nei nostri settori. Le priorità le abbiamo condivise nel corso di questi ultimi anni anche attraverso la rinegoziazione della contrattazione nazionale.
Ora, è necessario aprire una nuova stagione di rivendicazioni e di diritti, confrontandoci con le istituzioni e con la politica, è necessario aprire nuovi versanti di negoziazione anche coinvolgendo le controparti, è necessario aprire una grande vertenza del terziario che entri realmente nel merito della qualità dell’occupazione nei nostri settori.
Mi riferisco, veramente in ordine sparso, ai temi del contrasto alla precarietà, al lavoro povero e al part time involontario, della lotta al lavoro e alla contrattazione irregolari, di una effettiva tutela della salute e della sicurezza per chi presta attività nei nostri settori, di una maggiore protezione per le lavoratrici e i lavoratori in appalto, di un approccio più incisivo, più convinto, più pragmatico rispetto alla contrattazione inclusiva e d’anticipo, di una ridefinizione degli ammortizzatori sociali per il terziario e ancora alle annose questioni delle liberalizzazioni, della destagionalizzazione, delle inevitabili ripercussioni dell’innovazione digitale, di giusta attenzione rispetto alle politiche  dell'intersezionalità, dei nuovi diritti e della non discriminazione lgbtqia+, di politiche antiabiliste per l’autodeterminazione dei disabili e della non autosufficienza che ci portino finalmente al 2025 e non ci lascino al 1960, di una bilateralità che continui ad essere sempre più virtuosa.
Sono evidentemente solo alcune delle priorità di una nostra possibile “piattaforma” per i mesi e per gli anni a venire. 
Ma su un tema in particolar modo ritengo di dovermici soffermare ancora una volta e già da oggi, perché come una battaglia di tutte e di tutti dobbiamo vivere quella per i diritti delle donne e delle donne che lavorano, e non solo perché le donne rappresentano la maggioranza della nostra categoria.
È una battaglia di civiltà innanzitutto! Ed è una battaglia per il lavoro, perché rimaniamo l’ultimo paese dell’Unione europea nell’occupazione femminile.
Per la parità di retribuzione, perché dagli ultimi rapporti dell’Inps risulta un divario salariale medio del 20%  tra uomini e donne e perché è ormai acclarato che, a livello globale, su 145 paesi analizzati l’Italia è al 111° posto.
Ed è anche una battaglia contro le molestie sui luoghi di lavoro.
Secondo i dati Istat in Italia il circa il 14% delle donne che lavorano, vale a dire quasi due milioni e mezzo di donne, ha subito molestie a sfondo sessuale nella propria azienda.
Troppo spesso si sottovaluta l’impatto psicologico che possono avere sulle donne anche quelle che vengono chiamate le micro-aggressioni e cioè le battute sessiste, gli sguardi offensivi, le proposte allusive.
Non va bene! Questa mentalità va cambiata! 
C’è una battaglia culturale da fare. 
Il principio inviolabile è quello che dà il titolo ad una legge spagnola contro la violenza di genere: “solo sì è sì”. E cioè: senza il mio consenso esplicito è molestia e violenza!
Bisogna metterselo bene in testa!
L’occupazione femminile e la dignità del lavoro per le donne verranno messe a rischio anche dalle novità che stanno intervenendo con una velocità impressionante nel mondo del lavoro.
Pensiamo all’intelligenza artificiale.
Ci dicono da più parti che da qui al 2035 l’introduzione dell’intelligenza artificiale produrrà un aumento del Pil italiano di decine e decine di miliardi di euro
Tutto bene, dunque?
No, perché, sempre secondo valutazioni ormai unanimi ci sarà una perdita di posti di lavoro. Profitti più alti, numero di occupati più basso!
In particolare  milioni di lavoratrici e lavoratori saranno a rischio sostituzione e diversi altri milioni  dovranno integrare la propria professionalità con l’intelligenza artificiale.
Entro il 2030 circa il 30% delle ore lavorate in Europa sarà automatizzato e i settori maggiormente interessati saranno anche i nostri.
Le donne risultano, ancora una volta, più esposte rispetto agli uomini - tanto per cambiare, verrebbe da dire! - rappresentando circa il 55% dei lavoratori ad alto rischio di sostituzione.
Il divario di genere nel mondo del lavoro rischia di acuirsi ancora di più.
Un’ovvietà, ma bene tenerlo a mente, l’intelligenza artificiale deve essere al servizio di chi lavora, non del profitto fine a se stesso.
Deve essere e può essere uno strumento per rendere il lavoro più umano, più sostenibile, che si armonizzi di più con il tempo liberato.
Stiamo da un po’ di tempo a questa parte delineando un piano di lavoro complesso, articolato, impegnativo, la cui attuazione, lo abbiamo evidenziato a più riprese, ne siamo pienamente consapevoli, non può prescindere anche dal rapporto con la politica e le istituzioni.
L’autonomia del sindacato dai governi e dai partiti, che è un antico caposaldo del sindacalismo italiano, non ci deve portare, ovviamente, a disinteressarci di quel che dicono e fanno, o non fanno, il Governo e il Parlamento.
Abbiamo detto no all’autonomia differenziata, che introduce nuove diseguaglianze in un paese già lacerato dal punto di vista sociale ed eravamo pronti al referendum anche su questo.
Come pronti ci dichiariamo fin da oggi a sconfiggere nel referendum confermativo l’introduzione del cosiddetto premierato, che porterebbe l’Italia a non essere più una repubblica parlamentare, una democrazia compiuta. 
Abbiamo di fronte purtroppo un Governo che abbagliato dall’amicizia con gli uomini più ricchi del mondo, con Elon Musk, con Donald Trump, non vede le crescenti sofferenze sociali, le povertà che colpiscono non solo i disoccupati ma anche i tanti che un lavoro ce l’hanno.
Un Governo che usando strumentalmente e miserabilmente il tema dell’immigrazione, non vede che il vero, grande problema italiano si chiama emigrazione.
Sì, l’emigrazione delle giovani e dei giovani che lasciano il nostro Paese e vanno all’estero perché qui non trovano le condizioni per soddisfare le proprie legittime aspirazioni.
Il Governo dei condoni, non della giustizia dell’equità fiscale.
Ma a tutte le forze parlamentari, anche a quelle che sono ora all’opposizione, chiediamo di ascoltarci di più e di recepire le nostre istanze, chiediamo un rapporto più stretto e maggior attenzione.
Come dicevo prima, non siamo una corporazione che pensa al tornaconto di una parte. Siamo un sindacato confederale che si batte per un Paese migliore.
E allora, concludendo, compagne e compagni, amiche e amici,
È di tutta evidenza ormai, noi operiamo per così dire nello stato nascente, nel cuore della new economy dove le ingiustizie, i soprusi, i ricatti sono più evidenti e conclamati.
Garanzie considerate ormai acquisite in altre categorie, qui non vengono neppure contemplate da lontano.
E qui è maggiore – talvolta maggioritaria – la componente di nuove povertà, di esclusione sociale, di precari e di soggetti deboli.
Bene, proprio per questo è importante che tutti sappiano che noi non siamo una retrovia ancora poco organizzata e mal configurata della battaglia sindacale, economica, sociale.
Semmai, noi siamo la prima linea del fronte.
Noi siamo la prima linea perché si attaccano e si calpestano oggi le nostre libertà e i nostri diritti per avere mano libera domani anche sulle altre categorie più regolamentate e protette.
Noi siamo la prima linea perché, se dovessimo cedere noi, arriverebbe a cedere poco a poco tutto il sistema di garanzie e di contrappesi che regola la convivenza civile e democratica.
Noi siamo la prima linea perché, volenti o nolenti, conosciamo il volto di un’economia futura in cui profitto finanziario e tecnologia si coalizzano contro gli interessi e i diritti di chi lavora.
Noi siamo la prima linea perché viviamo sulla pelle e sulla carne viva il costo della ristrutturazione violenta delle catene di valore globali, dove con poche applicazioni digitali si possono governare da remoto milioni di lavoratrici e di lavoratori, in modo automatizzato e impersonale.
Noi rappresentiamo un capitolo cruciale nel libro del nuovo sistema globale, in cui qualcuno ha la pretesa che i lavoratori non abbiano più alcuna voce in capitolo, ma siano ridotti a comparse e a figuranti.
Ma proprio per questo sarà dalle nostre rivendicazioni, dalle nostre mobilitazioni e dai nostri avanzamenti che trarrà nuova linfa e ragion d’essere tutta la rappresentanza, in ogni suo ordine e grado.
E allora, care compagne e cari compagni, care amiche e cari amici, buon anniversario a tutti noi, per altri due secoli di battaglie, di conquiste e di Umanità del Lavoro.
Al lavoro, ad un lavoro migliore, al referendum, al voto, all’8 e al 9 giugno.
Grazie a tutte e a tutti 

Gallerie fotografiche