Sciopero Nord Italia, presidio a Milano: l'intervento di Fabrizio Russo
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Anche oggi è una giornata importante, come lo sono stati il 17 e il 20 novembre e come lo saranno il 27 novembre e il primo e il 22 dicembre
Una giornata di sciopero.
Una giornata di sciopero generale!
Un giorno cruciale per rimettere la rappresentanza al suo posto – al centro della vita, delle aspirazioni e dei progetti del paese.
Qualcuno ha pure provato a scherzarci sopra – senza sapere che lo scherzo è finito, e da oggi chi scherza se ne assume e se ne assumerà le responsabilità.
Abbiamo addirittura visto titoli di giornale che irridevano al fatto che saremmo “irritati” o “nervosi”.
Nervosi? Sono anni che proviamo a richiamare le classi dirigenti economiche, politiche e istituzionali a fare il loro dovere, a sedersi a un tavolo con la rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori.
Abbiamo fatto anche i “compiti a casa” per loro, se mi passate l’espressione: i nostri uffici studi, i nostri esperti, le compagne e le amiche e i compagni e gli amici anche dei territori hanno proposto analisi, cifre, revisioni di strutture contrattuali, piani di sostenibilità per rimettere il paese in condizione di respirare e di crescere.
Ma loro niente – come una classe di scolari svogliati invece che una classe dirigente – preferiscono le vie brevi della decretazione, delle leggi capestro, dei provvedimenti di impulso. Non si sono presentati ad appuntamenti cruciali per la vita del paese, hanno scavalcato rappresentanze dei lavoratori, consigli regionali, ed anche il Parlamento per agire nel puro arbitrio.
E adesso, producendo un vulnus, una ferita che rimarrà indelebile nella storia delle relazioni sindacali italiane, provano a fermare il fiume in piena della protesta mettendo mano in modo antidemocratico e antisociale alla precettazione.
La precettazione! Il più odioso dei rimedi dell’ultima ora di una politica latitante e di una classe datoriale che della democrazia reale e della costituzione se ne frega.
La violenza anti-istituzionale che stanno mostrando non è indice di forza, e neppure di lucidità. Costoro sono scomposti, sgomenti, disorientati.
Sono come un esercito in rotta, che prima di abbandonare posizioni ormai insostenibili mostra i pugni e fa scempio di tutto quello che ha intorno: leggi, contratti, garanzie democratiche.
Usare un atto di forza come la precettazione, vuol dire non rispettare e forse non conoscere neppure la natura del lavoro stesso, della pattuizione contrattuale, e più in generale del contratto sociale che tiene insieme una democrazia avanzata.
E giusto per chiarezza, lo sciopero non è il capriccio di qualcuno, una frivolezza, una stramberia, non è nemmeno una stravaganza, una bizzarria, una stranezza, lo sciopero è un diritto costituzionalmente garantito, disciplinato, affermato, preservato dalla nostra carta costituzionale.
Nel nostro ordinamento giuridico, fino al 1889, lo sciopero è stato considerato un reato; dopo l’unità d’Italia il codice penale dell’epoca puniva “tutte le intese degli operai allo scopo di sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole causa”.
Dopo una breve parentesi di qualche anno, con l’avvento del fascismo si è tornati alla repressione penale dello sciopero ed è soltanto dopo la liberazione, con la definizione della nostra costituzione nel ’48 e la strenua, tenace, valorosa azione della nostra Corte Costituzionale che si è sancito a tutti gli effetti il diritto di sciopero.
Ecco, questo per dire: non torniamo indietro, non ritorniamo agli anni bui della nostra storia, non voltiamo lo sguardo dall’altra parte, non facciamo finta di nulla, non sottovalutiamo, non passiamo sopra la gravità, il peso, la portata di quanto parte rilevante della politica e delle istituzioni va dicendo e facendo da qualche giorno a questa parte.
Facciamoci sentire e ascoltare, parliamo con tutte le articolazioni della vita e della cultura, con chi studia, con chi fa progetti, con chi opera nella solidarietà, con chi fa ordine pubblico, con chi cura e con chi viene curato. Leggiamo insieme la Costituzione, riportiamo il dibattito sulle regole, sulle garanzie e sullo stato di diritto al centro dell’attenzione.
Facciamolo capire, che una democrazia è un bene preziosissimo ma fragile, e se si comincia a considerare normale quello che in realtà è aberrante e incivile, si imbocca una strada pericolosissima.
Forse qualcuno pensava che, distratti e attoniti come siamo dalle stragi e dalle guerre che vediamo intorno a noi, ci dimenticassimo dei diritti fondamentali.
È vero questi sono tempi di guerra, anzi di guerre spaventose, in tutto il mondo, ormai anche nel mondo a noi più vicino, in Europa e in Medio Oriente.
Ed è proprio dalla cattiva politica, dalle situazioni di sfruttamento, dai regimi, dalle democrazie incompiute o mai realizzate che nascono gli atti più orribili e le guerre più disumane.
Ecco perché queste guerre, tutte le guerre ci riguardano, ci interrogano, perché con la loro apparente razionalità strategica sono in realtà il buio più profondo e irrazionale in cui possa precipitare la coscienza.
E noi sappiamo che è solo rafforzando i presidi della democrazia, della solidarietà, della dignità economica che si scongiurano le guerre. Solo vigilando e operando nei territori per l’inclusione, il multiculturalismo, il rispetto di tutti coloro che credono e anche di tutti coloro che non credono, si può mettere un argine all’odio e alla violenza.
Un grande sindacato sa, perché lo ha imparato nel cammino della sua lunga storia, che quando si cominciano a logorare e sfilacciare i legami e i tessuti della convivenza, quando l’intolleranza e l’arbitrio prevalgono contro chi lavora, quando la democrazia comincia ad avvitarsi su se stessa o a danzare su formule vuote, si aprono orizzonti di rischio incommensurabili.
Ecco perché possiamo dire che le battaglie di civiltà, di umanità del lavoro e per la democrazia di oggi sono le uniche in grado di fermare lo sfruttamento e di scongiurare le guerre di domani.
E a proposito di umanità e lavoro, permetteteci di salutare le lavoratrici e i lavoratori del soccorso e delle professioni di aiuto che hanno prestato in questi mesi la loro opera, giorno e notte, alle vittime di alluvioni, ai territori flagellati dal maltempo, alle comunità in pericolo.
Per anni i territori sono stati abbandonati e non accuditi: non ci si è occupati di un’economia che, se da un lato sviluppava sfruttamento e precarietà umana, da un altro generava sfruttamento e precarietà delle risorse naturali.
I due mondi, quello dell’ecosistema naturale e quello dell’ecosistema delle relazioni e del lavoro, in realtà sono due facce della stessa medaglia.
Oggi siamo chiamati a scegliere, a determinare in che ambiente, in che mondo vorremo far vivere le nostre figlie e i nostri figli. La sostenibilità ambientale e la sostenibilità del lavoro sono allineate nell’agenda di grandi forze sindacali come le nostre, sono un dovere e un impegno irrinunciabili.
E sta in questo ordine di ragionamento anche la cura, l’accudimento, l’inclusione sociale e culturale delle tante persone che faticano a trovare un proprio equilibrio sostenibile.
Anche da questo punto di vista, siamo un paese che ha ormai smarrito quello che nel 2023 dovrebbe essere considerato ovvio, scontato, imprescindibile, almeno per una democrazia compiuta, evoluta, moderna, siamo un paese che non può, non riesce, non vuole prendersi cura delle persone più fragili, di chi è in condizione di precarietà, di debolezza, di difficoltà, siamo un paese nel quale i giovani, le donne, i migranti, gli anziani, le persone disabili e appartenenti alle comunità lgbtqia+ sono ritenuti degli avversari, degli intralci, dei fardelli.
Ecco, l’attuale governo esprime pienamente la distanza tra quello che siamo e quello che dovremmo essere, la distanza tra il poco che si fa e lo si fa a privilegio di pochi “soliti noti” e il tanto che si dovrebbe fare e non si fa a sostegno dei tanti, troppi esclusi della nostra società, la distanza insomma tra civiltà, progresso e umanità da una parte e incultura, barbarie e arretratezza dall’altra.
Stanno da queste parti le ragioni, l’oggetto del contendere, le motivazioni delle nostre mobilitazioni, dei nostri scioperi, delle nostre iniziative di lotta.
Ma c’è senz’altro un tema su tutti, ed attiene, ancora una volta, alla tenuta democratica e sociale del nostro paese: in un impeto di dinamicità, di fervore, di solerzia, il governo ha imposto tra le priorità dell’agenda politica nazionale la messa in discussione delle fondamenta dell’assetto costituzionale del nostro paese, con la riproposizione, estenuante e costi quel che costi, dell’autonomia differenziata, con la confusa ed improvvisata introduzione di un cosiddetto premierato all’italiana, con il depotenziamento del valore e del ruolo della figura del Presidente della Repubblica, con l’indebolimento delle funzioni e delle prerogative del Parlamento.
No, non sono queste le priorità del nostro paese, non sono le nostre priorità!
Non sono le priorità di milioni di lavoratrici e di lavoratori, di pensionate e di pensionati, di studentesse e di studenti, le cui condizioni di vita, di lavoro, di studio, in termini di sicurezza e di protezione sociale continuano, inesorabilmente, a peggiorare.
E in una situazione nella quale l’attenzione, la considerazione, la cura, il riguardo, il rispetto, la vicinanza, la solidarietà, l’umanità nei confronti dell’altro, di chiunque altro, senza distinzione di sesso, di genere, di orientamento sessuale, di identità di genere, di etnia, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, come ne siamo convinti noi, dovrebbero essere cifra, segno, valore, rispetto a tutto questo l’attuale Governo si pone senz’altro agli antipodi!
E così chi dovrebbe essere sostenuto, confortato, protetto è invece dimenticato, osteggiato se non addirittura esplicitamente attaccato.
Si avversano Coloro che criticano il sistema, coloro che osano dissentire.
Si avversa non solo chi è considerato “diverso” o “debole”, ma anche chi lo difende.
Si avversano i lavoratori precari, sbeffeggiandoli come se la loro richiesta di regolarità fosse scarsa voglia di fare.
E coloro che pretendono qualità della vita e dell’ambiente, e coloro che chiedono qualità dello studio.
Si deridono quelli che esprimono dubbi sull’uso aberrante delle tecnologie, della robotica e dell’intelligenza artificiale che vengono sempre più spesso messi in campo come strumenti di controllo sociale.
Si deride, si minimizza, si avversa chi si indigna, chi piange per i lavoratori ferroviari fatti a pezzi da un treno su una massicciata, per gli edili che continuano a cadere come soldati in guerra, per chi si fa male nelle cucine dei ristoranti, sulle spiagge, nelle fabbriche, nei magazzini, o pedalando come un forsennato, consegnando pacchi, buste, cene, nella più totale ignoranza e indifferenza di troppi.
Chiariamolo, nel caso fosse ancora necessario, noi la pensiamo esattamente all’opposto.
Per realizzare un paese, una società, un lavoro migliori, lo si può fare soltanto con tutte le forze, le intelligenze, le abilità, le esperienze, le capacità, le competenze che abbiamo a disposizione, senza esclusioni, discriminazioni, diseguaglianze di sorta; è questa la differenza tra chi volge sguardo, interesse, prospettiva all’io, al singolare, al privilegio dei pochi, al passato, ad attaccare e a dividere e chi invece bada al noi, al plurale, al valore dell’insieme, al progresso, all’accogliere e all’includere.
Ancora, si deridono o si ignorano tutti quelli che, con il nostro primo cittadino, il presidente Mattarella che ringraziamo per la sua costante attenzione su questo, chiedono più cura e più sicurezza sui luoghi di lavoro.
Il fatto di essere in buona compagnia, con il presidente, purtroppo non lenisce e non diminuisce la rilevanza drammatica e orribile del problema.
Ci chiediamo solo una cosa: ma sarà un caso che il paese che si gloria del “Made in Italy” – “fatto in Italia” – addirittura reintitolando la denominazione di un ministero, non si preoccupi minimamente del “Dead in Italy” – “morto in Italia”, quel destino orribile che tocca ogni anno centinaia e centinaia di lavoratrici e di lavoratori.
Sarà un caso che neanche la pandemia sia servita, neanche la “lezione” di migliaia e migliaia di lavoratrici e di lavoratori, in appalto e diretti, costretti a continuare a prestare attività negli ospedali morendo insieme ai loro pazienti è servita.
Non è servita a capire che non è sano, non è bello, non è attrattivo, non è democratico un paese in cui tre persone al giorno escono di casa per andare a guadagnarsi il pane, e non vi fanno ritorno?
O è forse anche questa una guerra che una parte del paese ha dichiarato ai deboli, ai subordinati, ai prestatori d’opera, dove alla decurtazione dei guadagni e all’attacco al potere d’acquisto dei salari fa da corollario la più totale indifferenza verso la salute e la sicurezza?
In questi mesi, in queste settimane e ancora in questi giorni, diverse nostre categorie del terziario, dell’industria, dei servizi hanno proclamato scioperi, hanno dichiarato stati di agitazione, hanno avviato mobilitazioni; sono centinaia le vertenze aperte che riguardano rinnovi contrattuali, crisi industriali, riorganizzazioni aziendali. Sono vertenze che coinvolgono milioni di lavoratrici e di lavoratori la cui unica “ambizione” è un lavoro stabile, regolare, dignitoso. Non chiedono altro!
Sono lavoratori spesso costretti a prestare attività per non più di 1/2 ore al giorno, 5/6 ore a settimana, 15/20 ore al mese.
Sono lavoratori tenuti a svolgere il proprio mestiere per 4, 5, 6 euro all’ora, per 300/400 euro al mese.
Sono lavoratori che prestano servizio in settori nei quali l’indice di lavoro irregolare è spesso superiore al 70/80% e nei quali trovano larga diffusione centinaia di contratti “pirata”.
Sono lavoratori alle dipendenze di aziende che applicano contratti nazionali di lavoro scaduti da diversi anni, i cui ultimi aumenti salariali risalgono a 3, 4, 5 anni fa.
E allora rispetto al turismo, alla ristorazione, al commercio, alla distribuzione, agli appalti di servizi, per citarne soltanto alcuni, il tema non è che non si riescono a trovare persone che vogliano lavorare, o che i giovani siano schizzinosi, bamboccioni, pigri, indolenti, sdraiati, indifferenti, il tema è che nel nostro paese, senz’altro più in alcuni settori che non in altri, le condizioni di lavoro sono diventate più insostenibili ancora di quanto già non lo fossero.
Parlano ancora di far rientrare in Italia i giovani che a centinaia di migliaia preferiscono fare il cameriere, il fattorino, il portiere d’albergo e il cuoco all’estero piuttosto che stare in Italia, nel loro paese vicino ai loro cari: ma si chiedono, si sono mai chiesti, si chiederanno mai il perché lo fanno?
Non è di fuga dei cervelli e dei talenti che dovete parlare, ma di fuga di un’intera classe dirigente dalla sua coscienza e dalle sue responsabilità!
Una cosa, concludendo, credo abbia colpito molte e molti tra noi: il “minuto di rumore” che migliaia di giovani hanno scelto di fare i giorni scorsi nelle scuole e nelle piazze, al posto del tradizionale “minuto di silenzio”.
Non solo per il turbamento e la pena che ci dà l’ennesima morte atroce e assurda – quella di Giulia, Giulia Cecchettin, ma per il segnale, la forza, il senso di quel gesto.
Non si tratta di una trovata o un espediente per far parlare di sé. Si tratta di un capovolgimento di paradigma, di un atto forte, come se qualcuno cambiasse all’improvviso il tuo angolo visuale, capovolgendo l’immagine, o invertendo un cannocchiale.
Quel “rumore” di una giovane piazza è in realtà una forma di armonia spontanea e intonata, un “no”, un “no” grande e semplice contro la violenza e la discriminazione di genere, una affermazione di intelligenza collettiva che ci interroga e ci stimola a pensare.
E sorprende anche noi, che nelle piazze ci siamo nati, positivamente sorprende, perché la protesta e il rumore non escludono l’amore, il turbamento, l’appello di umanità. Anzi innalzano e precisano il livello del messaggio, ci fanno capire che i giovani – proprio quelli che la pubblicistica corrente vorrebbe un po’ apatici e assenti – invece ci sono, ci sono eccome. E si sentono, e prendono la parola, e manifestano i loro sì e i loro no.
Il rumore di queste ragazze, di questi ragazzi, allora, ci deve seguire e incoraggiare, deve essere un esempio, una guida per noi che adesso scendiamo in piazza e in mobilitazione.
Perché anche noi, come loro, non andiamo in piazza a rappresentare o a difendere posizioni o interessi acquisiti, anche noi ci andiamo per cambiare paradigma, per guardare avanti, per dire che un altro mondo non solo è possibile, non solo è necessario, ma irrinunciabile.
Perché se non lo facessimo con questo spirito di cambiamento e di provocazione, allora vorrebbe dire che non abbiamo capito nulla di cosa significa, quel rumore.
Di cosa richiede, quel rumore.
Di cosa annuncia.
E allora, come ci stanno spronando a fare le persone giovani, non rimaniamo in silenzio e facciamo più rumore che possiamo!
Buona mobilitazione, buono sciopero, buon rumore a tutte e a tutti noi!