27/5/2022 ore: 16:36

Italia, un paese al palo. L’occupazione femminile non decolla.

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Dalla fine degli anni ’70 ad oggi l’occupazione femminile ha segnato una sostanziale stagnazione, in cinquant’anni è cresciuta di 17 punti percentuali passando dal 33% del 1977 a circa il 50% di questi anni 20 del nuovo millennio.

È questo il quadro davvero sconsolante emerso in apertura del primo di cinque seminari che la Filcams Cgil dedicherà al mondo del lavoro declinato al femminile, in collaborazione con il Dipartimento politiche di genere della Cgil nazionale e inseriti nel progetto formativo PASS “Proteggiamo(ci)”.

A tracciare il quadro di riferimento ci ha pensato Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell’Istat, mettendo sul tavolo quei numeri e quelle riflessioni che hanno poi generato il confronto tra organizzatori, i sindacalisti e le sindacaliste delle strutture territoriali, cui il ciclo di seminari formativi è riservato.

Nel suo intervento, Sabbadini ha sottolineato, dati alla mano, come l’Italia per occupazione femminile sia tra gli ultimi in Europa, anche dietro la Grecia, mentre per quanto riguarda il rapporto tra occupazione e istruzione peggio di noi ci sia solo la Romania.

Ma com’è possibile che in un paese che fa parte del G7 ci sia questa arretratezza dell’occupazione femminile? Com’è che dal dopoguerra ad oggi non si è riusciti a far avanzare culturalmente il paese?

Sì, perché fondamentalmente siamo di fronte ad un problema rappresentato da una cultura ancora fortemente maschilista, con le classi dirigenti che si sono succedute nei decenni che poco o nulla hanno fatto per modificare l’idea che si ha della donna, su cui ricadono ancora impegni e oneri familiari, anche se occupata.

Punto focale della questione assume il tema della maternità, con leggi e normative che non tutelano la donna lavoratrice e madre.

La Sottosegretaria al Ministero dell’Economia e Finanze Maria Cecilia Guerra ha voluto evidenziare come il problema cruciale sia la forte penalizzazione delle donne nel momento in cui hanno un figlio: il lavoro è penalizzante, non c’è una organizzazione flessibile, e ciò rende impossibile il mantenimento del lavoro in settori a forte presenza femminile, come nella manifattura e nei servizi.

È sempre Sabbadini a confermare questo problema, riportando che il 20% delle donne che hanno un figlio, lasciano il lavoro. Un dato che non cambia, da decenni. Cambia il mondo, si pensa di essere emancipati, ma la penalizzazione resta quella che era cinquant’anni fa.

Dal confronto scaturito dalle sollecitazioni dei primi interventi di Guerra e Sabbadini emerge che il modello italiano è un modello che rende sostenibile avere un figlio solo se si ha una rete familiare di supporto, dato che non esiste una rete di servizi a tutela della maternità. Ne è testimonianza la legge sugli asili nido pubblici, che risale agli anni ‘70 ma che non è stata mai del tutto applicata. Nel 2000 è arrivata anche la legge per l’assistenza di anziani e disabili, applicata poco e male pure questa.

Ne deriva che da queste mancanze, vere e proprie assenze della politica, il prezzo maggiore lo stanno pagando le donne che arrivano col fiato corto fino ad oggi, stremate anche da crisi ricorrenti (ultima la pandemia da Covid) che ciclicamente mettono a dura prova il mercato del lavoro colpendo principalmente (e sempre) le donne.

Dal dibattito emerge come serva cambiare mentalità, ma di tutti questi problemi, che sono sotto gli occhi di tutti, nei discorsi programmatici non c’è traccia, e anche le politiche destinate solo alle donne (ad esempio il vincolo della quota del 30% di donne impiegate negli appalti o le decontribuzioni per le nuove assunzioni) alla lunga risultano altrettanto discriminanti dell’assenza di norme.

Le conclusioni dell’incontro sono state tracciate dalla responsabile delle politiche di genere della Cgil, Susanna Camusso, che ha sollecitato un cambio di passo, soprattutto culturale.

Su questo tema, ha voluto insistere Camusso, non bastano le leggi o le attenzioni che solo apparentemente si riservano alle donne perché si è già visto che norme come la conciliazione o l’accesso a posizioni di vertice in aziende o posti pubblici, alla fine si sono rivelate delle trappole. In pratica: ti diamo la possibilità di arrivare dove vuoi, ma dipende solo da te, non pensare che ti si conceda qualche facilitazione. Se vuoi arrivare devi omologarti a comportamenti e a una visione del mondo del lavoro tipicamente maschilista.

E se le discriminazioni dirette sono evidenti preoccupano maggiormente quelle indirette, che si annidano subdole nei cliché e nell’approccio ai problemi: il superamento di discriminazioni e disuguaglianze non deve passare per una omologazione dei comportamenti, perché si è già visto che quando questo avviene è sempre in un’ottica maschile, portando sempre a penalizzare le donne a partire dalla maternità, importantissima per la crescita sociale e che invece viene vista quasi esclusivamente come ostacolo alla carriera.