2/12/2025 ore: 10:46

New Order 2025, la relazione del Segretario Generale Fabrizio Russo

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Quella di oggi è una iniziativa particolarmente importante.

Lo è per la rilevanza degli ospiti presenti,

che ringraziamo ancora una volta per la disponibilità a prendere parte ad una discussione senz’altro non semplice e per alcuni tratti forse inusuale.

Un grazie quindi a Nadia Murad, a Suor Alessandra Smerilli, a Elly Schlein, a Lucrezia Reichlin, a Mario Marazziti, a Michael J. Sandel e a Stefano Landi.

E a Cirlis Castillo, Laura Trevisan, Sarr Marie Yama e Mark Eliel, nostri rappresentanti sindacali per il contributo che ci offriranno oggi.

Importante lo è anche per la portata dei temi trattati.

Intanto è importante il titolo del nostro incontro: Umanità del Lavoro, che vuol dire comprendere, condividere, costruire una comunanza, perseguendo con tenacia il diritto ad un presente e ad un futuro dignitosi.   

C’è infatti una questione cruciale e dirimente, su tutte, che si sostanzia appunto nel titolo di oggi, ed è relativa alla definizione di una nostra prospettiva, di un nostro modello sostenibile, di una nostra visione.

Nostri in quanto categoria, una categoria che, per dimensioni, per articolazione, per caratteristiche del lavoro e delle lavoratrici e dei lavoratori che ne hanno consentito lo sviluppo, esemplifica sempre più plasticamente nel nostro Paese il concetto di classe generale.

Un nuovo, vero e proprio soggetto sociale ed economico è ormai completamente emerso, ed è ben delineato. Un soggetto che prima faceva fatica a percepirsi, a riconoscersi, a darsi un nome, a definire i propri bisogni e le proprie rivendicazioni. Una moltitudine aggregata di persone, mestieri, prestazioni che qualcuno voleva marginali, invisibili, frammentate e disperse, prive di una dignità, talvolta di un’umanità. Una marea di volti, di vite, di storie che ogni tanto affioravano sulla scena mediatica, per poi venire respinte ai margini del tessuto sociale – dove la condanna a un’economia di precariato e di pura sussistenza sembrava definitiva e senza appello. Se questo, che prima sembrava un magma umano indistinto, e privo di parole e di difese, oggi è un campo agguerrito di esperienze, di progetti, di proposte il merito è proprio della tenacia e della abnegazione di tante compagne e compagni della rappresentanza, che in questi anni hanno lavorato senza sosta, che non hanno mai ceduto di un passo, che hanno progettato, innervato e portato a casa una delle fasi di avanzamento sindacale più significative e consistenti che ci si ricordi.

Stefano Landi ce lo confermerà, confermerà con i numeri la centralità economica, occupazionale, sociale, che hanno assunto i nostri settori e questo, va da sé, ci riconsegna una grande e ulteriore responsabilità rispetto al necessario raggiungimento degli ulteriori obiettivi che ci siamo posti.

Lo abbiamo ben compreso con i 19 contratti nazionali rinnovati tra il 2023 e il 2025: le mobilitazioni, le rivendicazioni, le vertenze, hanno senso solo quando si ottengono risultati e quando avanzamenti e conquiste sono all’altezza delle iniziative, anche di lotta nel caso, che vengono messe in campo.

Una vertenza la si avvia sempre con l’intento di chiuderla e, con lo sguardo verso l’orizzonte, per aprirne di nuove, di continuo; solo così possiamo andare avanti; solo così siamo nelle condizioni di cambiare e in meglio; solo così riusciremo a dare finalmente dignità e umanità al lavoro, al nostro lavoro. Un passo per volta, magari, ma tenacemente sempre nella stessa direzione.

Importante questa iniziativa lo è perché oltre alla nostra ormai riconosciuta tenacia rispetto al raggiungimento di nuovi risultati e alla fissazione continua di obiettivi ulteriori, testimonia da parte della Filcams la ricerca strenua di dialogo, di interlocuzione, di confronto. Noi nella discussione e nel confronto nasciamo e cresciamo, anche internamente. E siamo sempre aperti a discutere con altre organizzazioni e declinazioni del sindacato, anche quando hanno ispirazioni, valori, metodi distanti e distinti dai nostri. E siamo disposti ad ascoltare, a spiegarci, a connetterci ad altre realtà e corpi intermedi della società civile, delle istituzioni, dell’economia privata, pubblica, cooperativa. E, come dimostriamo anche oggi, rispettiamo e dialoghiamo anche con organizzazioni di solidarietà laiche e religiose, che per la loro vicinanza agli esclusi, ai deboli e agli ultimi conoscono bene cosa sia la sofferenza, l’esclusione sociale, la povertà.

Importante, ancora, lo è per la fase, per i tempi, per il contesto in cui si colloca. Viviamo nello sconcerto per il deflagrare di conflitti orribili e sanguinosi. Viviamo nello sdegno per lo sfruttamento e il genocidio di decine di migliaia di essere umani, di cui molti bambini indifesi. Viviamo nella rabbia verso chi sulle sofferenze prospera, alimentando un’economia di armi e risorse letali per lucrare profitti da capogiro. Alcune testimonianze di oggi ce lo rammenteranno, nel caso ancora sia necessario; ci spiegheranno lo stato di sofferenza determinato da quel che nel mondo sta accadendo, le svariate decine di conflitti, il numero più alto mai registrato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, centinaia di migliaia di vittime solo nell’ultimo anno e milioni di persone costrette a fuggire. E tuttavia, consentitemi una nota positiva, vediamo che milioni di giovanissimi, di studenti, di lavoratrici e lavoratori scendono in piazza per opporsi, per dire no, per fermare i signori della guerra e la loro ripugnante economia di morte. Giovanissimi che, con buona pace di chi vorrebbe le nuove generazioni distaccate e apatiche, tornano all’impegno contro tutte le guerre, alla lotta per un’economia più sostenibile, per una società dell’accoglienza dove i migranti non siano masse di manovra di una nuova economia semi-schiavile, o corpi senza dignità da spedire in campi di detenzione, in Italia o addirittura all’estero – in base a patti politici inconfessabili. E sappiamo che questi giovani che si risvegliano, si auto-organizzano e lottano sono anche essi una nuova forma emergente di soggettività sociale e politica, che da molti punti di vista interroga e sollecita una organizzazione come la nostra.

Importante, da ultimo, questo incontro di oggi lo è perché declina, con un approccio al quale siamo pervenuti, anche innovando, un poco per volta, l’esigenza - per come siamo fatti noi, per la complessità dei nostri settori, inevitabile, atavica, naturale - di comprendere e di farci comprendere, di accogliere e di essere accolti, con l’ambizione che le persone che rappresentiamo progrediscano e, con loro, il lavoro, il lavoro nostro ed il loro lavoro. 

Sono passaggi strettamente correlati tra di loro e che traggono principio, noi di questo ne siamo convinti, in primo luogo dal termine “comprensione” appunto, uno dei vocaboli dal significato più denso e profondo della nostra lingua, una “comprensione” che è certo di intelletto, ma spesso anche, soprattutto, provvidenzialmente, di cuore.

Comprendiamo, e quindi capiamo, intendiamo e conosciamo, e, così avanti, coinvolgiamo, condividiamo, includiamo e abbracciamo; abbracciamo idealmente ma anche fisicamente, a costo di dover reimparare a farlo, perché anche così si progredisce.

Tutto questo racchiuso in una sola parola d’origine dicevamo: comprensione, che è anche condivisione, ed infine comunanza, quella che sentiamo essere una appartenenza, appunto, comune.

È anche, soprattutto, per questo che la Filcams, la nostra organizzazione, la Cgil tutta, noi tutti, abbiamo una responsabilità, enorme, in termini di “comprensione”, di accoglienza, e di rappresentanza e di azione più generale, rispetto alla vastità di cittadine e di cittadini del mondo, che disperano tra le guerre, la fame, le miserie, i respingimenti, le esclusioni, le ostilità; persone dai trascorsi, nella loro straordinarietà, straordinariamente drammatici.

E così, dobbiamo essere all’altezza di questa grande sfida, una sfida epocale; sono esattamente questi i temi della nostra discussione di oggi: strutturare e diffondere la cultura dell’accoglienza e, nel contempo, affrontare con forza e determinazione lo stato di prostrazione in cui versano, senz’altro, il lavoro nel nostro Paese ma anche parte rilevantissima di chi ci vive, una parte fatta di milioni di persone in condizioni di afflizione ormai esistenziale.

Ci sono delle parole che non ricorrono più, che, forse anche per responsabilità nostra, chi è giovane nel nostro Paese ma, evidentemente, non solo nel nostro Paese, non utilizza più, figuriamoci chi ha qualche anno in più.

Ma chi si azzarda più a parlare di futuro, di speranza, di fiducia, di aspettative, di crescita, di emancipazione. Se acquistiamo o consultiamo oggi un vocabolario di nuova edizione c’è il rischio che alcuni termini non compaiano neanche più, che qualcuno per pudore abbia ritenuto di doverli cancellare. O peggio ancora, c’è il rischio che compaiano, ma sfigurati e distorti da un uso economicistico e opportunista, come parole d’ordine di una nuova società della disciplina e dell’obbedienza, dettata da programmi algoritmici e immensi poteri tecnologici e finanziari che sembrano ormai incontenibili.

Ma di qui si deve passare se si vuole cambiare, se si vuole migliorare, se si vuole progredire.

Torniamo a dirle noi queste parole, diffondiamole ma soprattutto facciamone strumenti di buone pratiche culturali e politiche; se non lo facciamo noi, chi altro è, chi altro sarà nelle condizioni di farlo? Chi avrà la stessa convinzione, la stessa passione, la stessa umanità per farlo?

Prendersi cura di chi arriva, di chi già c’è, di chi non ha altra soluzione che andarsene.

“Prendersi cura” non è verbo che utilizziamo casualmente; siamo noi tra le lavoratrici e i lavoratori che anche durante le fasi più drammatiche e complesse abbiamo avuto e continuiamo ad avere cura di questo Paese e di tante altre persone. Chi, se non noi, quindi?

In questo senso, le nostre parole devono anche creare ponti, connessioni, legami tra quelli che consideriamo, con spirito non di possesso ma di solidarietà e impegno, i “nostri” rappresentati abituali, la “nostra” istituzionale base di lavoratrici e lavoratori, con i “nuovi” – i migranti che fuggono da fame, guerre, dittature, i marginali più sofferenti, le persone sole e dimenticate. La disperazione che leggiamo nei loro occhi deve essere un invito all’accoglienza, all’ascolto, all’azione.

Un impegno, una sfida appunto, che, è di tutta evidenza, non possiamo affrontare da soli.

Per quanto ci riguarda, abbiamo fatto un gran lavoro, lo stiamo facendo, continueremo a farlo, ma, anche qui, non so quale sia il termine più corretto, qualunque sia, per andare avanti servono vicinanze, comunanze e, se possibile, meglio ancora, alleanze, anche con chi non la pensa esattamente come noi ma la pensa come noi almeno su alcune delle questioni per noi prioritarie.

E dentro questo orizzonte di responsabilità condivise, dobbiamo riconoscere che anche altre grandi tradizioni della nostra società – una parte della politica e delle istituzioni, e dell’associazionismo laico e civile – concorrono a costruire una comunità più giusta.

Anche la dottrina economica e sociale della Chiesa, pur parlando da un’altra prospettiva, interseca terreni molto vicini ai nostri: già la Rerum Novarum nel 1891 e il Concilio Vaticano II negli Anni Sessanta, e ancora la Centesimus Annus nel 1991 richiamavano la centralità della persona, la dignità del lavoro e la difesa degli ultimi.

Non è un caso che il nuovo Papa Leone abbia scelto oggi, nel 2024, proprio questo nome: perché richiama Leone XIII, il pontefice che per primo denunciò le ingiustizie del lavoro industriale moderno e aprì la strada a una visione sociale che metteva l’essere umano davanti al profitto.

Quel nome è un segnale di continuità con un’idea forte: che una società degna è una società che protegge chi lavora, e soprattutto si prende cura di chi non ha voce.

Noi non confondiamo certo i ruoli, né le missioni. Noi siamo un sindacato, e anche se abbiamo una fede profonda nelle nostre idee non siamo certo un’organizzazione confessionale. Tuttavia, quando più tradizioni – diverse, autonome – convergono su un principio semplice e fondamentale, che nessuno deve essere lasciato indietro, allora il nostro impegno nella rappresentanza trova maggiore eco e sente ancora più forza, ancora più ragione, ancora più legittimità.

E allora, compagne e compagni, dobbiamo anche tornare a dirci con chiarezza che cos’è per noi il progresso.

Non una parola astratta, non un totem da esibire, non un algoritmo che decide al posto nostro.

Il progresso, per noi, è una forma di emancipazione degli individui che si risolve in crescita collettiva, è la possibilità concreta per ogni persona di migliorare la propria vita, di avere accesso a un lavoro dignitoso, a un salario adeguato, a una prospettiva che non sia fatta di paura ma di possibilità.

Il progresso è quando una lavoratrice riesce ad avere orari compatibili con la sua vita familiare.
È quando un giovane che lavora nel commercio o nel turismo non si sente più un “precario a vita”.
È quando una persona migrante trova nella nostra società organizzata non un muro, ma una comunità.
È quando si esce dalla logica del ricatto, del “prendere o lasciare”, dello stesso sacrificio infinito chiesto sempre agli stessi.

E accanto a questo progresso collettivo, c’è anche il progresso individuale, che non va mai dimenticato: il diritto di ognuno a sentirsi riconosciuto, visto, ascoltato;

Il diritto a crescere professionalmente;

Il diritto ad avere un’esistenza che non sia tutta consumata e annientata dal lavoro, ma aperta a relazioni, affetti, passioni, studio, cura di sé e degli altri.

E proprio qui sta la forza del sindacato: nel tenere insieme le due dimensioni, la dignità della persona e la crescita dei legami e dei tessuti sociali ed economici in cui quella persona crescerà e si esprimerà.

Nell’evitare che la crescita degli uni, come spesso accade, diventi l’esclusione degli altri.

Nell’avere sempre presente che la parola “progresso” perde ogni valore se non porta con sé giustizia, inclusione, dignità, umanità.

E certamente, diciamolo con forza anche questa idea di progresso, di emancipazione, di dignità, non è teoria: è ciò che ci porterà in piazza il 12 dicembre.

Uno sciopero che non nasce per abitudine o per ritualità, ma perché le condizioni materiali del lavoro nel nostro Paese sono arrivate a un livello di sofferenza inaccettabile.

Perché la precarietà non è più una parentesi: è divenuta una condizione strutturale, nel senso che si tende a considerarla come una forma di “new normal” invece che un’aberrazione giuridica e valoriale.

Perché i salari sono fermi mentre tutto aumenta. E dunque, anche quando sono regolati da un contratto, la loro “regolarità” fa sì che milioni di persone vivano ancora nell’ansia permanente di non farcela, di non poter dare una vita dignitosa, un’educazione adeguata e un futuro ai propri figli.

Il 12 dicembre scioperiamo anche per chi ancora non ha voce, per chi teme ritorsioni, per chi è troppo fragile per esporsi, perché non ha un permesso di soggiorno, o perché ha paura di perdere quel piccolo lavoro che ha, grazie al quale con immenso sacrificio sopravvive e mantiene i propri familiari lontani.

Scioperiamo per chi crede ancora che un Paese possa migliorare davvero solo se migliora la vita di chi lavora.

Scioperiamo nel rispetto e nell’adempimento della Carta Costituzionale che i padri della nostra Repubblica vollero incardinare saldamente, fin dall’Articolo Primo, nella civiltà e nell’umanità del lavoro, forse perché già sospettavano e prevedevano che alcune derive dell’evoluzione politica ed economica avrebbero messo a rischio, molto presto, il diritto e la libertà di tutte e tutti.

Concludendo, e in avvio dei lavori odierni in cui meglio di me i relatori approfondiranno temi e idee per noi centrali e cruciali, lasciatemi dire una cosa molto semplice, compagne e compagni:
noi dobbiamo tornare a parlare di futuro e di speranza.

Parole che molti considerano ormai fuori moda, o che ritengono scomparse dal vocabolario delle nuove generazioni, soffocate da paure, precarietà, sfiducia.

Ma un sindacato come il nostro non può permetterselo.

Noi dobbiamo tornare a nominare e a praticare la speranza, a difenderla, a restituirla.
Perché la speranza non è ottimismo ingenuo: è la responsabilità di lottare e costruire possibilità reali per altri esseri umani.

La nostra ambizione è questa:

Immaginare e costruire città che non espellano i poveri e non sfruttino i migranti;
immaginare e costruire un’economia che non divori il tempo della vita, gli affetti, la salute;
Immaginare e costruire una società che non abbia paura della parola “giustizia”, ma la coltivi e la onori.

Immaginare e costruire insieme, con tutte, con tutti, una società dove la violenza di genere non sia una cultura talmente diffusa da farsi cronaca quotidiana, e dove una donna che denuncia non si senta respingere con espressioni di circostanza, per poi vivere nel terrore e sotto minaccia.

Immaginare e costruire un mondo di meravigliose eccezioni e sfumature, dove ci sia spazio per tutte le differenze, e dove tutti i generi possano essere scelti ed espressi liberamente.

Immaginare, infine, una umanità del lavoro dove nessuno debba scegliere tra dignità e sopravvivenza;

E dunque continuiamo ad avanzare e a progredire.

Continuiamo a lottare.

Continuiamo a farci carico di chi è lasciato indietro.

Continuiamo a costruire un futuro che non sia il privilegio di pochi, ma una casa aperta per tutte e tutti.

Perché questo è ciò che siamo, da sempre.

E questa sempre sarà la nostra forza nel camminare insieme.