Quando bisogna dire no
La storia di Anna, cameriera ai piani, e della battaglia coraggiosa per il riconoscimento dei suoi diritti
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“Se gli alberghi vanno avanti è grazie alle persone che ci lavorano” tiene a ricordare la lavoratrice di Matera che ha accettato di raccontarci la sua esperienza travagliata di cameriera ai piani. Un racconto lontano dalla sfera dei diritti, lesi in modi diversi nel corso degli anni fino al colpo finale, il licenziamento.
Anna, nome in prestito, ha iniziato a lavorare in una struttura a 4 stelle della città 14 anni fa.
“All’inizio sono stata assunta dall’albergo, con il contratto del turismo, si stava bene – racconta – poi però a un certo punto hanno smesso di pagare. Sono stata costretta a fare il decreto ingiuntivo, perché non prendevo soldi da quasi un anno”.
Sembra già molto lavorare senza ricevere lo stipendio dovuto, ma in realtà quello era solo l’inizio perché, come dice lei, “sono successe un sacco di cose”.
“Un giorno, 12 anni fa, hanno convocato tutte le cameriere e hanno detto ‘o date le dimissioni e passate a lavorare con una cooperativa, oppure siete fuori’. Non era un procedimento legale, ma avevamo tutte paura di perdere il posto di lavoro”.
E così è arrivata la cooperativa, la prima di una serie.
“Con la gestione precedente facevamo 10 camere in otto ore, pulendole con un certo criterio – spiega Anna – ma appena arrivata, la nuova cooperativa ci ha chiesto di preparare 16 camere in sei ore e 40 minuti. È iniziata la prima battaglia, con il supporto della Filcams Cgil che ci ha guidate in tutti questi anni. Più avanti, con un’altra cooperativa, abbiamo dovuto combattere contro un cambio peggiorativo di contratto”.
La prima cooperativa introduce anche il divieto per le cameriere ai piani di usufruire della mensa: si preferiva buttare via il cibo, ricorda Anna, piuttosto che darlo a loro.
Ma arriviamo allo scorso ottobre: è l’ultima cooperativa a pretendere quella che Anna definisce ‘una cosa pazzesca’. “Mi chiedevano di diventare socia, avrebbero applicato un contratto collettivo pirata, con l’azzeramento degli scatti di anzianità, ci avrebbero inquadrato al livello più basso, e da full time sarei passata a part-time”. Spogliata di tutto. “Il sindacato ci ha consigliato di non firmare, di attendere convocazione da parte dell’ispettorato, e l’azienda ci ha dato un ultimatum, o firmate o siete fuori”.
Anna è l’unica a tenere duro e a non firmare, le colleghe si spaventano e accettano le condizioni intimate dai datori di lavoro. “Non hanno capito che se fossimo andate avanti tutte insieme qualcosa avremmo ottenuto, come era accaduto negli anni passati insieme alla Filcams. Mi hanno lasciata sola”.
E nel frattempo alle clausole imposte se ne aggiunge un’altra, rinunciare alla tutela sindacale per poter continuare a lavorare, un passo che sprofonda i rapporti di lavoro indietro nel tempo.
“Non ho voluto firmare perché avrei preso una busta paga di 1000 euro, comprensiva di tredicesima e tfr, in cambio di un grande lavoro, perché in questo contratto c’era scritto che ci avrebbero pagate in ragione della quantità e della qualità del lavoro svolto”. In pratica diventava una retribuzione a cottimo, regolata da un controllo ossessivo del numero delle camere sistemate e del grado di pulizia ottenuto. Anna non poteva fare meno di 18 camere e il suo lavoro passava al setaccio di tre incaricati, che “entravano a cercare il pelo nell’uovo e se lo trovavano ci toglievano la camera”. Poi oltre alle 18 stanze da pulire bisogna smistare la biancheria, caricare il carrello la mattina, il lavoro è tanto, e passare da 1300 a 1000 euro al mese, partendo dall’ultimo livello, è una regressione inaccettabile.
“E non è solo una questione economica – dice Anna, con amarezza – sono le pretese, le umiliazioni che feriscono. Perché le cameriere sono considerate l’ultima ruota del carro, delle serve. Ma non è giusto, non è così”.
Il licenziamento di Anna adesso è nelle mani di un avvocato e arriverà in tribunale.
“A volte ho una gran rabbia nei confronti delle mie colleghe – racconta – l’avvocato ha cercato di convincerle, non semplicemente per vincere una battaglia, ma con la consapevolezza che quello a cui stavano rinunciando non lo avrebbero avuto più”.
“Io credo di aver dato tanto – conclude – come tutte le persone che lavorano ancora lì. Ma a un certo punto basta, bisogna dire no”.