 |
 |
Pagina 31
"Capetti, divise e mini paghe ecco la fabbrica delle polpette" Mirko, sindacalista e dipendente della multinazionale, racconta il lavoro dietro il bancone
di DANIELE MASTROGIACOMO
MILANO - "Mi vuole parlare? Va bene, però aspetti. C'è un sacco di gente in fila. Dario, due cheese e un Big Mac". E' sera tardi. Dietro gli scaffali di metallo, tra il fumo che sale dalle piastre arroventate, si lavora freneticamente. Tre ragazze, il sorriso stanco ma ancora stampato sulla bocca, prendono le ordinazioni. Dietro di loro, insofferente, il manager, in gergo capetto, scatta verso il cestello delle patatine. Con un occhio guarda cosa succede alle casse, con l'altro scruta le retrovie delle cucine. Riempie i sacchetti, gettando manciate di sale sugli spicchi di patate ormai fragranti. Altri ragazzi preparano sul tagliere i panini al sesamo. Uno, giovanissimo, svuota i sacchi e raccoglie i vassoi. Se non ci fossero i cartelloni, allegri e colorati, i palloncini svolazzanti, le maschere, i pacchi sorpresa e le grida eccitate dei bambini, sembrerebbe di stare nei retrobottega di una vecchia osteria. Siamo invece da McDonald's, simbolo per eccellenza del vecchio Zio Sam, miraggio della gastronomia imposta dai ritmi della vita moderna. Il mordi e fuggi del nuovo secolo, il sogno dei nostri bambini, la pubblicità sul piccolo schermo trasferita nella realtà. Ma il sogno, l'incanto, alla fine si è spezzato. E il meccanimo si è inceppato. Con uno sciopero. Il primo dentro un McDonald's italiano. "Se non fosse una cosa dannatamente seria, mi verrebbe da ridere. Perché? Perché questa rivolta è esplosa all' improvviso. Sulla scia della protesta contro la globalizzazione: Seattle, Genova poi Praga. Ma un conto era lo sciopero di Firenze, in una realtà specifica, di grande sfruttamento, di disagio, di turni massacranti e di un part-time niente affatto rispettato. Un conto è estendere una vertenza legata alla salvaguardia di alcuni diritti sindacali ad un sistema di lavoro che si richiama ai principi tayloristici". Mirko Grandi di mestiere fa il sindacalista. Camera del Lavoro di Milano. Di notte, cambia. Si mette alla piastra e sforna hamburger e patatine in un ristorante McDonald's. Lo abbiamo intercettato tra una pausa e l'altra e gli abbiamo chiesto di farci da Cicerone tra i rivoli di uno scontro che ha preso piede e che rischia di scrivere un nuovo capitolo nella storia del sindacalismo italiano. E' stato lui ad accendere la miccia di una protesta, culminata con uno sciopero nell'industria-simbolo degli Usa. I dipendenti della catena McDonald's in Italia, franchising compresi, hanno incrociato le braccia e per la prima volta hanno portato all'esterno la realtà che vivevano all'interno. Così, mentre verdi, movimento antagonista, centri sociali, organizzazioni ambientaliste denunciavano al mondo i rischi connessi all'uso di cibi transgenici, mentre altre associazioni si chiedevano cosa finisse davvero in quegli hamburger, nei fast food contrassegnati dalla grande "M" ci si ribellava al supersfruttamento. "L'azienda - ricorda Grandi - all'inizio cadde dalle nuvole. La casa madre, poi, non riusciva a capacitarsi. Per loro bastava parlare, discutere i problemi e tentare di risolverli. Come si fa nelle famiglie. Non erano abituati ad affrontare alcune problematiche secondo le normali regole delle relazioni industriali. Così, sulle prime, restarono a guardare. Poi chiesero aiuto ai manager olandesi, danesi e svedesi. I quali avevano molta più dimestichezza con i problemi sindacali". Mirko Grandi torna a raccogliere le ordinazioni. La fila si allunga, i clienti si spazientiscono. Chiede una sostituzione e spiega ancora una volta. "Il problema principale è che McDonald's è un mondo molto vario. Un conto sono le catene gestite direttamente dalla casa madre, un conto i franchising. Questi ultimi devono far quadrare i costi e le restrizioni imposte al momento del contratto. A Tucson fanno i conti con la globalizzazione, hanno un'impostazione perfettamente integrata con un sistema come quello statunitense. Sfruttando i vantaggi del part-time e della flessibilità si forza la mano sugli straordinari. I ritmi diventano sempre più incalzanti, i rapporti gerarchici sono rigidi e schematici. Alla fine ti trovi che non puoi neanche più fare pipì. A meno di alzare la mano e chiedere il permesso. Come a scuola". Il tema della flessibilità è quello più sentito nel mondo dei dipendenti McDonald's. Ragazzi giovani, giovanissimi, al loro primo impiego. "Quindi disposti a tutto - aggiunge Mirko - anche ad accettare condizioni che poi, con il tempo, pagano a duro prezzo. Ogni settimana si decidono turni e orari. Senza una rotazione e un criterio. E' una roulette russa. I guadagni, tra l'altro, sono quasi al limite: appena assunti si percepiscono 750-800 mila lire e si arriva ad un massimo di un milione. Adesso si assumono soprattutto filippini e cingalesi: lavorano sodo, senza fiatare". Flessibilità ma anche gerarchia. Dal gradino più basso a quello più alto, scandito da divise diverse, cappelli e cappelletti diversi, fino alle spillette d'oro che sovrastano il cartellino con il proprio nome. Dimostrano che hai superato le tre prove generali: in cucina, alla cassa e nelle pulizie della sala. Ma niente incentivi o premi di produzione. "La struttura lavorativa - spiega Grandi - ha un carattere paramilitare. Al vertice della piramide c'è il direttore, poi i manager, quelli con la cravatta e la camicia a mezze maniche. Li chiamiamo i capetti: controllano i ritmi di lavoro e stendono un rapporto settimanale. Poi ci sono i crew-trainer. Lavoratori normali ai quali si attribuiscono di volta in volta delle responsabilità, come quella di insegnare agli ultimi arrivati i segreti del mestiere. L'unica prospettiva è salire di grado e aspirare, un giorno, di diventare il manager". Ora la casa madre ha accettato un confronto e l'idea di arrivare ad un contratto. Ma il suo esempio, espressione di un sistema di lavoro che per la prima volta si affaccia in Europa, all'insegna della flessibilità, inizia a fare presa su altre realtà.
|
|