28/7/2003 ore: 10:55

"Commenti&Analisi" Aziende riaperte per legge (P.Ichino)

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      lunedì 28 luglio 2003

      Il caso Fiat di Arese

      AZIENDE RIAPERTE PER LEGGE
      di PIETRO ICHINO
        «A far data dal 1° gennaio 1979, il fiume Po sfocia a tutti gli effetti nel golfo della Spezia». Recitava così l'articolo 1 di un disegno di legge presentato da alcuni parlamentari zuzzurelloni nel corso della settima legislatura, per mettere in burla la presunzione del legislatore dell'epoca di poter piegare senza limiti, a proprio piacimento, l'«essere» dei rapporti economico-sociali a un «dover essere» stabilito per legge (col risultato che le leggi emanate avevano un tasso di effettività molto vicino allo zero). Ora il Tribunale di Milano ordina alla Fiat l'«immediato rientro delle linee produttive... nello stabilimento di Arese» - cioè in uno stabilimento chiuso ormai dallo scorso anno, oggi addirittura smantellato - perché si possano «riammettere immediatamente i lavoratori sospesi nei rispettivi posti di lavoro», anche se quei posti in realtà non ci sono più. E a qualcuno questa ingiunzione giudiziale dà una sensazione simile a quella che dava la pretesa di spostare per legge la foce del Po.
        A leggere la notizia su alcuni quotidiani di ieri, e le dichiarazioni dei dirigenti sindacali coinvolti, si ha effettivamente l'impressione che il giudice del lavoro milanese pretenda di far risorgere per decreto un'attività industriale da tempo cessata perché in perdita. Formalmente non è così: il giudice ha soltanto ritenuto di individuare un errore procedurale commesso dalla grande impresa torinese, dal quale conseguirebbe l'illegittimità della chiusura dello stabilimento di Arese e della collocazione dei lavoratori in Cassa integrazione; donde l'ordine di riaprire lo stabilimento e rimettere al lavoro gli operai, ma solo in attesa che la procedura venga rinnovata correttamente.
        Nessun ritorno alle pretese dirigistiche degli anni Settanta, dunque; nessuna sostituzione del giudice all'imprenditore, almeno in apparenza.
        Questa vicenda, però, mette in luce una caratteristica peculiare del nostro diritto del lavoro, sulla quale vale la pena di riflettere: i processi di ristrutturazione aziendale, con ricorso alla Cassa integrazione o ai licenziamenti collettivi, sono formalmente assoggettati alle scelte insindacabili degli imprenditori; ma sono assoggettati anche a una serie micidiale di adempimenti procedurali preventivi sovente di difficile interpretazione, a un vero e proprio percorso a ostacoli, talmente complesso che neppure il primo gruppo industriale italiano appare capace di uscirne indenne. Nel caso della Fiat di Arese, il giudice ha ritenuto che l'impresa abbia errato nel ritenere che una norma procedurale del 2000 ne avesse sostituita una del 1991: secondo la motivazione dell'ordinanza, le due norme avrebbero dovuto essere applicate entrambe. Fatto sta che il vizio formale conseguente a questo errore di interpretazione costa all'impresa, secondo le stime, intorno ai 2 milioni di euro.
        In questa materia le questioni procedurali sono così numerose e opinabili, che l'imprenditore non ha mai la certezza della piena approvazione da parte del giudice. Ed è difficile sottrarsi all'impressione che, sovente, sotto la maggiore o minore severità del giudice sulle questioni formali si nasconda in realtà la sua valutazione circa la bontà sostanziale delle scelte compiute dall'imprenditore. In ogni caso, l'alea del giudizio, combinata con il costo altissimo della possibile soccombenza, rende le operazioni di ristrutturazione aziendale notevolmente più difficili e costose in Italia rispetto alla maggior parte degli altri Paesi europei.
        Il «diritto al lavoro», da noi, è protetto più che altro da queste difficoltà e da questi costi. Può accadere, così, che in una regione come la Lombardia, dove l'industria ha bisogno di decine di migliaia di operai che non si trovano, per i mille della Fiat di Arese sia conveniente impegnarsi in un'avventura giudiziale destinata a durare comunque degli anni, per contestare la chiusura dello stabilimento, piuttosto che accettare l'ingente «incentivo all'esodo» offerto loro dalla stessa Fiat e spostarsi in una delle tante altre aziende dove il lavoro non manca.


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