giovedì 16 settembre 2004
QUATTRO PARAMETRI METTONO IN DUBBIO I DATI UFFICIALI DEL 2001-2004 «Inflazione reale fino al triplo di quella Istat» L’Osservatorio Nord-Ovest: meno risparmio e vacanze, il Paese è più povero
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Luigi Grassia
TORINO Il verdetto è espresso in termini cauti, professorali. Ma il rapporto dell’Osservatorio del Nord Ovest, illustrato ieri all’Atrium di Torino, afferma e argomenta: «Sono troppi, nelle stesse statistiche ufficiali, i segni difficilmente conciliabili con un’inflazione modesta», come quella che valuta l’Istat in Italia. È una presa di posizione forte a fianco delle casalinghe arrabbiate ma anche del ministro del Tesoro Domenico Siniscalco, che appena un mese fa denunciava: «L’equazione un euro uguale mille lire è stata applicata a troppi settori».
Lo studio firmato da Luca Ricolfi cita quattro di questi «segni difficilmente conciliabili» con l’inflazione inchiodata al due virgola poco per cento. 1) Secondo la Banca d’Italia, fra il 2001 e il 2002 c’è stato un crollo del risparmio delle famiglie (pari al 30% secco) e questo, sottolinea la stessa Bankitalia, è «solo in minima parte attribuibile all’andamento dei corsi azionari; negli anni seguenti, il calo è continuato. 2) Nel medesimo periodo esplode il credito al consumo e rinascono gli «hard discount» che a fine Anni 90 stavano agonizzando. 3) Nel 2002 crolla improvvisamente del 30% la spesa degli italiani per le vacanze. 4) Va in fumo la cosiddetta «legge di Engel», uno dei pilastri delle leggi sociali, secondo cui quando cresce il reddito cala la quota destinata ai consumi alimentari: in Italia fra il 2001 e il 2003 tale quota è rimasta ferma nonostante il conclamato aumento ufficiale dei consumi.
Le tessere del mosaico andrebbero a posto se l’inflazione reale del triennio fosse stata più alta, «ad esempio del 6 o 7%» all’anno, secondo quanto stima prudentemente il rapporto. Invece, l’Istat sostiene che l’inflazione sia addirittura diminuita (dal 2,7 al 2,4%) proprio nell’annus horribilis della conversione all’euro, il 2002. L’Osservatorio del Nord Ovest cita la ricerca di due professori milanesi, Campiglio e Longhi, che con campioni diversi da quelli dell’Istat stimano un aumento del carovita all’incirca triplo.
Una difesa consueta da parte di chi ha fiducia nell’Istituto di statistica è che il numero di prezzi che monitora è enorme, ma «così si dimentica - osserva Ricolfi - che il requisito essenziale di un campione non è la sua numerosità ma la sua rappresentatività»; lo studioso contesta soprattutto che l’Istat consideri come rappresentativa del prezzo di un prodotto la sua varietà più venduta, anziché fare, per esempio, una media di quattro segmenti di prezzo corrispondenti a varie qualità. Un’altra difesa usuale è affermare che se si mette in discussione l’Istat salta tutta la contabilità nazionale; Mario Deaglio ha risposto che «sta diventando un rito quello di osservare dati che sappiamo essere sempre meno affidabili», a causa della sempre maggiore differenziazione dei prezzi (e pure dei consumatori), tuttavia l’economista ha invitato a non gettare via l’Istat, perché «come minimo gli va riconosciuta la sistematicità nell’errore e quando si sbaglia sempre allo stesso modo, almeno le tendenze rilevate dovrebbero essere giuste».
Deaglio si è augurato che il rapporto dell’Osservatorio diventi un appuntamento fisso. La metodologia del gruppo di studio si richiama in parte a quella del Censis, nel senso che a Torino non si punta a fare ricerche in proprio ma a pescare nelle ricerche economiche e sociologiche già edite per trarre spunti da quel mare di dati che altrimenti resterebbero inerti; tuttavia, a differenza del Censis l’Osservatorio non mira a pennellare grandi affreschi (termine usato spesso in senso elogiativo ma talvolta anche un po’ ironico) ma a rispondere a domande molto precise su temi fondamentali. Per esempio, il rapporto mostra, dati alla mano, che il declino della competitività italiana c’è davvero, però non è correlato agli indicatori che si citano di solito, come i pochi investimenti in ricerca, i pochi brevetti eccetera, perché da quel punto di vista l’Italia è sempre stata debole, anche all’epoca del miracolo economico, e sono deboli pure le Tigri asiatiche, che prosperano senza bisogno di produrre della gran tecnologia. Invece «la svolta in negativo è intervenuta intorno al 1996 in coincidenza con la fine delle svalutazioni e il drastico ridimensionamento del differenziale d’inflazione italiano». Evidentissimo dal ‘98 il declino del tenore di vita operaio (metre i redditi dei ceti più forti sono in ripresa dal 2000).
Straordinaria nel rapporto dell’Osservatorio è la demolizione, dati alla mano, di una quantità di luoghi comuni (sia di destra che di sinistra) non solo sull’economia ma anche sulla politica, la criminalità, l’immigrazione e persino gli incidenti stradali. Si usa dire che la loro riduzione sia dovuta alla patente a punti, invece qui si propone una correlazione diversa e statisticamente strettissima. Pare che la polizia statale rilevi gli incidenti, in misura più che proporzionale, sulle vie delle vacanze; perciò se gli italiani vanno meno in vacanza, come avvenuto nel 2002-2003, c’è un crollo degli incidenti e quando nella primavera del 2004 c’è una lieve ripresa dei viaggi risale anche il conteggio degli incidenti; la reazione di molti osservatori sarà che «la patente a punti perde il suo effetto», invece potrebbe non essere vero niente.
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