"Intervista" P.Onofri: Meno previdenza, ma tutele a tutti
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ItaliaOggi (Economia e Impresa) Numero 144, pag. 13 del 19/6/2003 di Livia Pandolfi
Il nuovo welfare dovrà aumentare gli ammortizzatori sociali Il welfare va difeso, anche per dare un quadro di certezze alle imprese e all'economia locale. Lo stato sociale, infatti, deve garantire tutele oggi quasi del tutto escluse, come per esempio migliori ammortizzatori sociali, che bilancino la flessibilizzazione del mercato del lavoro, e adeguarsi all'invecchiamento della popolazione. ´Per far questo, però, non si può comprimere la spesa sociale', ha spiegato a ItaliaOggi Paolo Onofri, economista bolognese e titolare della cattedra di politica economica presso l'università di Bologna, ´ma urge una seria riforma delle pensioni, spostando risorse da un segmento all'altro del welfare'. Domanda. In un momento in cui l'economia è in forte affanno e le imprese, soprattutto quelle più piccole, perdono competitività, è possibile conciliare lo sviluppo senza sacrificare lo stato sociale? Risposta. Questo dovrebbe essere l'obiettivo. Certo, nei periodi di crescita economica lenta sarebbe necessario allentare la pressione esercitata sulle imprese a livello fiscale e contributivo, ma si rischia poi di non avere le risorse necessarie per continuare a garantire un welfare soddisfacente. La spesa sociale italiana, però, è inferiore a quella media europea e non è immaginabile che nel medio o lungo periodo possa scendere ulteriormente. Si pensi all'assistenza agli anziani in continuo aumento. Anche l'introduzione di condizioni lavorative più flessibili ha portato a una domanda, legittima, di riforma degli ammortizzatori sociali per chi paga la flessibilità sulla propria pelle. Insomma, in prospettive nuove spese per il welfare. D. Le piccole imprese sostengono che conservando uno stato sociale efficiente nel contesto in cui operano, si garantisce anche il loro sviluppo. Che cosa ne pensa? R. Si tratta di una posizione condivisibile. Per sostenere la presenza delle pmi sul mercato globale, in ogni caso, occorre creare un quadro certo nel contesto normativo e fiscale all'interno del quale le imprese possano muoversi. D. Come? R. Fino a qualche anno fa si era sperimentato, a vantaggio delle pmi, una progressiva riduzione dei contributi sociali (oneri impropri) e anche una successiva decontribuzione per le indennità e gli assegni famigliari: due strumenti, questi, posti a carico della fiscalità generale. Dal '98 al 2001 era stata programmata una riduzione dei contributi sociali dello 0,8%. Se si fosse proseguito su questa strada le garanzie per le pmi sarebbero aumentate. Si favoriva il calo dei costi fissi a loro carico. Anche il meccanismo della Dit produceva, di fatto, una riduzione delle imposte (Irpeg) e si incentivava il ricorso al capitale di rischio. D. E questo bastava? R. È ovvio che per stare sui mercati, anche internazionali, occorre sostenere di più la ricerca che, individualmente, le pmi non riescono a fare. Sono le organizzazioni locali, le associazioni, le stesse istituzioni create dalle regioni a dover consentire alle imprese di fare innovazione. E le politiche, anche regionali, debbono aiutare le pmi a essere presenti nei mercati esteri. Poi ci sono le associazioni di categoria che sono chiamate a favorire l'accesso delle imprese alle leggi di incentivazione. Tutti questi elementi, compreso un quadro fiscale e normativo stabile, istituzioni efficienti, adeguate politiche locali e l'aiuto delle associazioni, insomma, garantisce alle imprese una vita più facile. Ma tutto ciò deve essere inserito in un contesto di welfare efficiente. D. Lei è stato il primo studioso a cogliere la necessità di un riequilibrio tra i vari segmenti dello stato sociale, per esempio spostando parte della spesa sociale dalle pensioni ad altre forme di welfare. Una strategia che resta attuale? R. È la storia della famosa coperta corta. Se spendiamo troppo in pensioni dobbiamo comprimere la spesa sanitaria, quella assistenziale e così via. Occorre quindi ridurre da una parte e soddisfare altre esigenze dall'altra. Questo governo ha firmato con due sindacati (Cisl e Uil) il ´Patto per l'Italia' accogliendo la necessità di una riforma degli ammortizzatori sociali, da cui però deriva un aumento ovvio della spesa. Senza contare il fatto che tra oggi e il 2010 ci saranno 1.300.000 ultrassentacinquenni in più, con una maggiore domanda di assistenza. Spendere di meno per l'assistenza sarà impossibile. Se ne deduce che dobbiamo rivedere il meccanismo delle pensioni. D. Però la riforma Dini ha lasciato in sospeso due questioni: l'uscita dal mondo del lavoro in età relativamente giovane (pensioni di anzianità con 35 anni di contributi) e il calcolo della pensione stessa per alcuni tutto retributivo e per altri in parte anche contributivo. Non le pare che si debba intervenire per risolvere queste contraddizioni? R. Una riforma seria delle pensioni è necessaria. A mio avviso, per eliminare tutte le polemiche e le ingiustizie sarebbe il caso di studiare una legge da far entrare in vigore a partire da una data stabilita. Per esempio, se si decide che per il 2004 si procede con il calcolo contributivo, da allora tutti dovrebbero maturare diritti pensionistici sulla base di questo sistema. D. Ritiene che gli incentivi per restare al lavoro siano una buona idea? R. A questo ci aveva già pensato il governo precedente, ma onestamente il vantaggio di andare in pensione di anzianità resta ancora molto forte, soprattutto da quando è stato eliminato il divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro dipendente per opera del governo attuale. Succede spesso che si concorda con l'ex datore di lavoro un contratto flessibile e quindi si va in pensione, ma contemporaneamente non si libera il posto di lavoro per un giovane. D. Sta dicendo che la pensione di anzianità va eliminata? R. Senza alcun dubbio. Si tratta di uno strumento che non ha più ragione di essere, proprio perché la vita media si è allungata insieme a quella attiva. Il sistema di eliminazione della pensione di anzianità della riforma Dini è però troppo lento. D. Parliamo di previdenza complementare, soprattutto per i lavoratori autonomi. Come faranno questi ultimi non godendo di un tfr a compensare i futuri cali di prestazione? R. I lavoratori autonomi hanno una contribuzione pari al 17% del reddito, a differenza dei dipendenti che versano il 32,7%. È necessario puntare sui Fondi pensione chiusi o aperti, non importa. Il fatto è che gli autonomi, magari con l'aiuto delle associazioni, dovranno far decollare questi strumenti i quali restano il solo modo di garantire un sostegno pensionistico adeguato. È probabile, anche, che sia necessario, magari entro qualche anno, un ritocco verso l'alto dei versamenti contributivi. La contropartita dello stato, però, potrebbe essere quella di stabilire incentivi per far decollare seriamente i fondi pensione a loro dedicati. |