Intervista a cura di Bruno Ugolini
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mercoledì 23 luglio 2003 economia e lavoro 10 anni di concertazione
Non c’è confronto: il governo fa da solo e sbaglia strada
È il decennale dell’accordo del 1993.Un’intesa che sotto l’egida di Carlo Azeglio Ciampi, pose le premesse per il risanamento del Paese e per l’ingresso in Europa. Un caso di concertazione audace tra le parti sociali e il governo che innovò profondamente le relazioni industriali, costruì le rappresentanze sindacali di base, promosse un nuovo assetto contrattuale al posto della scala mobile. Oggi quella concertazione sembra morta. Il governo ha cercato di rispolverarla, mettendo in piedi un pasticcio informe. Sono i temi d’interviste fatte a Gino Giugni, Pierre Carniti, Bruno Trentin. Ora concludiamo con Savino Pezzotta, l’attuale segretario generale della Cisl. Hanno annunciato undici tavoli di confronto. Non sono troppi per concertare? «Io non ho capito che cosa intendono fare. Sono fermo alle vecchie modalità. L’accordo del 23 luglio 1993 di cui celebriamo il decennale, metteva in piedi non solo una politica di concertazione, ma anche gli strumenti d’attuazione di quella politica. L’intesa prevedeva una sessione a primavera sui temi macroeconomici, dove si sarebbero dovuti individuare alcuni obiettivi comuni. E tra questi obiettivi c’erano il tasso di crescita, l’inflazione programmata e il tasso d’occupazione». Tutti elementi assenti dall’attuale confronto? «Nel Dpef per il 2004 abbiamo trovato già definiti tali tassi. Io ritengo che non sia possibile fare un confronto dove già sono stati definiti i parametri economici e spezzettandolo in undici parti». Allora abbandonerete questa singolare trattativa? «Noi non ci siamo mai sottratti a nessun confronto e non ci sottrarremo neanche a questo. Siamo convinti delle nostre idee e andiamo per sostenerle. Io non posso, però, discutere del miglioramento del servizio sanitario e della riforma del welfare, se non so bene che cosa c’è dentro. Io ripropongo la metodologia del 23 luglio 1993. Propongo una sessione precisa di politica dei redditi, dove si affrontano non solo le cose che vuole il governo, ma anche quelle che intendo discutere io, come i prezzi e le tariffe, il contenimento dell’inflazione. Se non si farà questo, sarà come uscire dalla concertazione e non si capirà che cosa è questo dialogo sociale. È una semplice consultazione o è una possibilità di trovare un accordo? Se devo andare per essere consultato è un conto: preparo una mia documentazione e poi mi ritiro. Se invece è concertazione presuppone una metodologia.Io sono per chiedere alla presidenza del Consiglio, se le altre organizzazioni saranno d’accordo, di precisare le forme e i modi di questo che chiamano dialogo sociale». Nel merito dei problemi da affrontare le notizie sono contraddittorie. C’è però un tema ricorrente: le pensioni… «Bisogna smetterla. Il Paese ha alcuni problemi principali: la competitività, lo sviluppo, il mezzogiorno. Abbiamo chiesto, di fronte al degradarsi della situazione economica, di dar vita ad una sessione parlamentare aperta alle forze sociali proprio per fare il punto delle difficoltà, per individuare i fattori sui quali impegnare l’insieme del Paese. Non c’è stata data risposta». L’intesa raggiunta con Confindustria ha dato qualche risultato? «L’abbiamo mandata al governo, è citata nel comunicato della presidenza del Consiglio, ma non c’è stata discussione. Avevamo chiesto una selezione delle priorità. Visto che noi non siamo in grado di vincere la concorrenza agendo sui costi, dobbiamo aumentare gli investimenti su ricerca, tecnologia, qualità, Mezzogiorno, infrastrutture, risorse umane (la formazione), ambiente». Resta il fatto che molti commentatori, come Galli Della Loggia, insistino sulla necessità d’intervenire. C’è una diversa lettura dei dati sul possibile crack previdenziale? «Galli della Loggia dovrebbe parlare della propria pensione. Lui fa un bel mestiere che forse è anche piacevole. Io penso ad un operaio tessile che va a fare per 35 anni, tutti i giorni, dalle sei alle due, dalle due alle 22, dalle 22 alle sei del mattino, le stesse operazioni. Prende un salario da un milione e 800mila lire a due milioni e mezzo e prenderà di pensione il 70%. Facciamoli questi conti, perbacco! E aggiungiamo che le pensioni d’anzianità stanno andando ad esaurimento. L’Italia rispetto ad altri paesi europei ha raggiunto un equilibrio tra la parte cosiddetta a ripartizione e la parte a contribuzione. Siamo tra i più moderni e il nostro potrebbe essere un modello per gli altri Paesi». La differenza sta nel grado d’allarme? «Lo ha dimostrato il sottosegretario al Lavoro, Brambilla, con uno studio specifico: non c’è un problema sui conti. L’incremento di spesa del nostro sistema previdenziale è inferiore a quello europeo». Ma ci sono aspetti sui quali è possibile ragionare, come l’aumento dell’età pensionabile? «Possiamo esaminare il tema degli incentivi, non dei disincentivi. La stessa riforma francese aveva un 10% di disincentivi. Li hanno dimezzati perché non funzionavano e hanno aumentato le pensioni minime. È possibile intervenire con serietà sui fondi pensione, sugli incentivi per far restare di più chi vuole volontariamente continuare. Non tutte le situazioni sono però eguali». Esistono ancora differenze tra pubblici e privati? «C’è un processo d’equiparazione in corso, messo in atto da quella buona riforma che è la Dini». Il tasso d’inflazione programmato all’1,7 avrà ripercussioni sulle rivendicazioni? «Anche questa è una novità. Il tasso d’inflazione è definito in altro modo rispetto al passato. Danno per scontato che non vi sarà un recupero. Se il tasso d’inflazione reale è al due e sei non possiamo fare un tasso d’inflazione programmata a 1,7, perché il divario è troppo alto. Dai per scontato che ci sarà una perdita del potere d’acquisto. È un incentivo all’inflazione». C’è chi ha detto che le concertazioni del passato andavano bene perché erano momenti eccezionali. Non è più così? «Io dico che questa è una situazione eccezionale. Non come quella del 1993, dal punto di vista dei costi, ma dal punto di vista delle sfide che il Paese ha di fronte: la sfida delle competitività, quella del semestre europeo. L’Italia è chiamata a compiti che avrebbero biso individuazione d’obiettivi comuni è chiaro che poi ciascuno persegue i propri obiettivi e questo non aiuta il Paese. Il problema vero è dato dal fatto che la concertazione è andata in tilt non solo per colpa di Berlusconi. Io dico che in un sistema bipolare eccentrico come quello che abbiamo noi, non è facile concertare. Perché non è un bipolarismo dell’alternanza, perché il governo è continuamente ricattato dalle ali estreme. Io penso a Prodi quando non concertava con noi e faceva gli accordi sull’orario con Bertinotti. E oggi la Lega che fa di diverso? È un bipolarismo in cui piccoli partiti hanno un potere d’interdizione troppo alto. Per ridare ruolo alle parti sociali bisogna cambiare il sistema elettorale, mantenendo il bipolarismo». Un certo venir meno della concertazione non coincide anche con la divisione sindacale, con l’assenza di una solida piattaforma comune? «Non è che il sindacato si sia diviso per caso. Certo che la concertazione è stata indebolita anche da questo. Più viene a mancare l’autonomia del sindacato, meno la concertazione avanza. Se il sindacato si schiera politicamente a seconda di chi è al governo, perché poi dovrebbe contrattare con la rappresentanza di un altro schieramento? Solo un sindacato autonomo ha potere per questa azione. La nostra divisione riguarda il modello di sindacato riformista e partecipativo. Senza negare il conflitto. Non basato, però, sull’antagonismo». Il modello partecipativo non richiama l’esigenza di regole, di democrazia? La Cgil picchia su questo tasto. «Noi abbiamo sempre detto che meno vincoli ci sono per il sindacato è meglio è per i lavoratori e per il Paese, anche perché dove hanno messo tanti vincoli non è andata molto bene. Detto questo, io sono disposto a discutere regole di partecipazione. Non credo però che in Italia si confrontino un sindacato di centrodestra e uno di centrosinistra. Si confrontano due modelli di sindacato, due concezioni. Se fossimo tutti più onesti, nell’esplicitazione dei nostri modelli, potremmo costruire percorsi diversi». Non siamo di fronte a qualche timido miglioramento nei rapporti? «Esistono delle convergenze. Il clima, però, è quello che è. Con episodi anche gravi, specie tra i metalmeccanici. L’unità si costruisce anche con battaglie politiche dentro il sindacato. Noi a suo tempo le abbiamo fatte, come quando alla Fiat, negli anni 50, la Cisl ha dimezzato l’organizzazione. C’era Pastore, un dirigente sindacale con gli attributi. È una metafora». (4 - fine)
Ds: «Il 23 luglio», l’accordo più importante degli ultimi decenni
MILANO Dieci anni fa veniva firmato, da governo e parti sociali, «Il protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo», passato poi alla storia delle relazioni industriali come «L’accordo del 23 luglio». A dieci anni da quell’evento - che ha segnato l’avvio della pratica della concertazione, oggi cancellata dal governo di centrodestra - si stanno svolgendo un po’ in tutta Italia dibattiti e convegni. Oggi i Democratici di sinistra organizzano una conferenza stampa (ore 11, presso la sala stampa della sede Ds, in via Palermo 12, a Roma) che vedrà la partecipazione del segretario nazionale, Piero Fassino, del responsabile dell’Area Lavoro, Cesare Damiano, del responsabile economico, Pierluigi Bersani e della responsabile Welfare, Livia Turco. Sarà l’occasione, sottolineano i Ds, per una riflessione sull’attualità di quello che è considerato l’accordo più importante degli ultimi decenni. Cioè, soprattutto, per ragionare sul futuro. Sull’argomento, negli ultimi giorni, l’Unità ha pubblicato quattro interviste. Oltre a quella conclusiva di oggi al numero uno della Cisl, Savino Pezzotta, sono stati sentiti Gino Giugni (15/7), all’epoca ministro del Lavoro, Pierre Carniti (20/7) e Bruno Trentin (22/7), all’epoca segretario generale della Cgil.
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