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Domenica 21 Marzo 2004
INTERVISTA
Il pubblico ministero ha dato parere favorevole alla liberazione e anche il gip è stato d’accordo. Dall’altro ieri sera, Roberto Tedesco, ex amministratore delegato di Parmatour, è libero. E ieri mattina, per prima cosa, ha preso la sua bici ed è andato a fare un giro sul lago con un suo amico. Poi a casa, una porzione di normalissima bifamiliare in Valfiorita, con moglie e altri amici e il suo inseparabile parroco di Santa Maria di Negrar, don Silvano, che dice: «È tornato un fratello». Ancora scosso per l’ultimo mese che ha messo a dura prova la sua vita (da dieci giorni era agli arresti domiciliari dopo ventuno di carcere), Tedesco è lucidissimo. Seduto sul divano del soggiorno, racconta la sua esperienza nell’azienda turistica di Collecchio, i rapporti con Francesca e Calisto Tanzi, il momento in cui la Guardia di Finanza andò a prelevarlo a casa e l’ingresso nella cella del carcere di Montorio. Spiega che voleva salvare la Parmatour e che invece si ritrova con un fardello pesante da affrontare: le accuse di concorso in bancarotta nel crack più imponente nella storia del capitalismo. |
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CRAC PARMALAT. Per la prima volta l’ex amministratore delegato di Parmatour appena liberato, ripercorre la sua esperienza nell’azienda di Collecchio
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«Così usavo i soldi di Tanzi» |
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Tedesco: «Servivano per l’attività, già in crisi per molti debiti» |
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Dottor Tedesco, se l’aspettava la liberazione? «No, perché il tribunale del riesame aveva fissato un’udienza per il 31 marzo. Invece i miei avvocati Jacopo Pensa e Paola Boccardi ieri mattina mi hanno detto: "Facciamo un tentativo con pm e gip". Ed è andata bene. Però non mi chieda se sono contento...». Perché? È scontento? «No, non sono scontento. Però, quando una persona ritiene che la misura imposta è ancorata sulle tesi non giuste e non corrette, si fa fatica a dire che si è contenti a tornare in libertà. In carcere non sarei dovuto neanche entrare». A lei però contestano di aver fatto arrivare alla Parmatour i soldi distratti dalla Parmalat. È vero che i fondi provenivano da lì e quali rapporti aveva con i Tanzi? «Purtroppo avevo un rapporto quotidiano con Francesca Tanzi, mentre con Calisto Tanzi c’erano le mediazioni di Fausto Tonna o del presidente di Parmatour Romano Bernardoni. Solo in qualche occasione ho avuto rapporti diretti con il cavaliere. I soldi li chiedevo, ma non per distrarli. Mi servivano per pagare gli stipendi, oltre due milioni di euro al mese per mille dipendenti, e per far andare avanti un’azienda che aveva grossi problemi di liquidità. Come potevo immaginare che dietro quelle erogazioni ci fossero tutte le storie che solo oggi noi tutti stiamo scoprendo? Ero convinto, come il resto delle persone, che la famiglia Tanzi fosse potente non solo sul piano industriale, ma anche su quello finanziario. Proviamo a tornare indietro nel tempo: Tanzi all’epoca era un imprenditore credibile, quando parlava lui che era a capo di un impero, si aprivano le acque del mare. E io pensavo che quei fondi fossero della famiglia Tanzi, non sapevo come se li procurava». Ma lei era alla guida dell’azienda turistica dal 2002, quando si chiamava ancora Hit. Non si era accorto che qualcosa non andava? «Premetto che arrivai a Parma dopo essere stato selezionato da una struttura di ricerca del personale. Io i Tanzi non li conoscevo, quindi parlare di azione associativa con loro mi sembra incredibile. Tre mesi e mezzo dopo chiamai due grosse società di consulenza e dissi: "Infilate una sonda in questa azienda e fatemi sapere quali sono le reali problematiche". Sono stato io a fotografare un indebitamento bancario pregresso di 300 milioni di euro, con interessi passivi da pagare agli istituti che sottraevano la liquidità». Non pensò a un’impresa troppo ardua per lei? «No, accettai la sfida professionale, nonostante il fatto che mi accorsi che la situazione era peggiore di quanto mi fu illustrato nei colloqui preliminari al conferimento d’incarico. Da allora sparii da casa, iniziai a condurre una vita che purtroppo mi ha anche provocato danni fisici». Ha mai trattato con le banche? «Certo. A me dissero che, di fronte a un piano credibile, avrebbero potuto ristrutturare il vecchio debito dell’azienda, un risultato già importante. Ma di nuovi finanziamenti, vista l’elevata esposizione, non se ne parlava». A un certo punto i suoi rapporti con Francesca Tanzi si deteriorano e lei inviò anche una e-mail, trovata dalla magistratura, per contestare le sue scelte aziendali. Perché con l’imprenditrice non c’era accordo? «Io sentivo molto la pressione della famiglia Tanzi attraverso Francesca. Mi ricollego a quanto detto prima: sofrii per il passaggio da un’azienda manageriale a una padronale». Perché al pubblico ministero questo non è bastato per evitare di chiedere il suo arresto? «L’interrogatorio a Parma con il pm Silvia Cavallari, durato quasi sei ore, non fu semplice perché è sempre difficile sostenere le domande da detenuto. La mente non è sgombra perché l’unico pensiero è tornare quanto prima a casa. Però ho spiegato la mia posizione che mi è sembrata sia stata compresa bene nel primo interrogatorio sostenuto a Verona con il gip Paola Vacca». Sì, ma il suo arresto? Le hanno spiegato se c’era pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o reiterazione del reato? «Allora, io vengo arrestato perché Tonna dice: "Ritengo che Tedesco sapesse delle distrazioni di soldi". Andare in carcere è una cosa che può capitare a chiunque venga accusato da un altro. E poi, la reiterazione del reato era impossibile. Mi ero dimesso con una lettera articolata nella quale spiegavo quali erano i motivi di contrasto con la famiglia Tanzi. Purtroppo non ero in condizioni di poter esercitare i miei diritti di amministratore delegato e di assolvere ai miei doveri. Quando ero a Torino con la famiglia Agnelli, invece, c’era un’impostazione di stampo manageriale. A Parma, invece, l’azienda era di stampo padronale. Ho sofferto per questa differenza». In ufficio non è più tornato dopo le dimissioni? «Sì, due volte. C’era già la Guardia di Finanza. Una volta dissi alla mia segretaria di non toccare nulla, neanche la foto della mia famiglia, proprio perché ritenevo che se gli investigatori avessero voluto controllare, avrebbero avuto tutto il materiale a disposizione. Pensi, e questo riguarda l’inquinamento delle prove, che al capitano che poi venne qui ad arrestarmi, dissi: "Se le servono, i documenti sono in queste scatole"». Il pericolo di fuga... «Io sono andato in Georgia con don Silvano per una missione umanitaria. Ma sono tornato dopo quattro giorni. I magistrati non lo sapevano, l’ho raccontato io. Che senso ha tornare se si ha l’intenzione di fuggire? E poi, avrei scelto una località caraibica o la Georgia? D’altronde di località me ne intendo». Qual è stata la domanda dei magistrati che l’ha messa in difficoltà? «Io ho sempre risposto a tutto. La domanda che mi ha dato più fastidio però è stata questa: "Lei ha conti all’estero?". Figuriamoci, io ho il conto alla Popolare, dove veniva accreditato il mio stipendio. Quando i finanzieri sono venuti qui, ho mostrato la documentazione, ma loro non l’hanno neanche voluta controllare». Ce l’ha con i magistrati? «No, mi amareggia solo questo itinerario di detenzione subito fino a ieri sera. Mi dispiace perché ero preparatissimo e pronto e mi aspettavo di essere chiamato a Parma per dare tutte le informazioni utili all’inchiesta. Però, pensavo di andarci da persona libera. È chiaro che avranno immaginato "questo è l’amministratore delegato" e quindi hanno preso il vertice. Avrebbero potuto ascoltarmi prima. L’arresto è stato un pugno e, per come sono andate le cose a Parmatour, anche una grossa beffa». Spera in un processo rapido? «Le cose andranno per le lunghe perché l’inchiesta è complessa, articolata. Ma io, come uomo e professionista, ho l’interesse che siano fatti tutti gli accertamenti per chiarire come sono andate le cose. Ho fiducia nella giustizia che si compie, nel lavoro degli organi inquirenti. Faccio appello alla professionalità delle persone che devono approfondire gli aspetti di questa faccenda». Lei non si attribuisce nessuna responsabilità in questa vicenda? «Non è vero. Una colpa è stata quella di aver seguito la mia determinazione nel tentare di salvare quella benedetta, oggi stramaledetta, azienda, di farla stare in piedi con milioni di difficoltà. Per un manager come me, che aveva un mercato del lavoro, sarebbe stato semplice mollare di fronte alle difficoltà. Invece non l’ho fatto perché c’era anche una questione etica: io volevo salvare Parmatour anche perché una disfatta imprenditoriale è soprattutto una catastrofe sociale, in questo caso per mille dipendenti. Solo a Parma lavoravano sessanta nuclei familiari. Perciò quell’obiettivo mi è rimasto nel cuore e i dipendenti fin dal primo momento mi hanno scritto messaggi di solidarietà». Altre colpe? «Dovrei essere imputato per imbecillità e prendere il massimo della pena per aver ricevuto la beffa e il danno. Ci penso quando leggo di persone alle quali hanno trovato soldi nascosti. Io non ho neanche ricevuto il trattamento di fine rapporto dalla Parmatour». Ha letto articoli sulla vicenda quando era in carcere? «Sì, anche se non è molto facile avere giornali. Quando sono tornato a casa, mi sono informato meglio. Così ho potuto constatare che, sul libro "La grande truffa" distribuito da Milano Finanza , due autorevoli giornalisti hanno descritto come buono il mio piano presentato alle banche per il salvataggio Parmatour. Ho anche iniziato a scrivere un memoriale e, man mano che vado avanti, mi accorgo che tante cose sono a mia discolpa. In questo ambiente sereno riesco a pensare meglio. In carcere, invece, è stato un trauma. È tremendo passare dalle sette del mattino dal proprio letto alle tredici del pomeriggio in una cella con due sconosciuti, seduto sulla brandina, con un piatto di ferro a dirsi: "Perché sono qua?"». Pensa di tornare a lavorare nel settore? «Sinceramente, il lavoro è l’unico aspetto che sento profondamente in crisi. Vorrei provare, professionalmente, l’ebbrezza di avere tanti capi. Voglio andare in un posto nel quale qualcuno mi dice la mattina cosa devo fare e io la faccio. Ho un forte allontanamento fisico e psichico da certi incarichi. Per me questa storia è stato un colpo molto forte». Come l’ha superato? «Con tre pilastri: la fede, la famiglia e gli amici. A Verona sono stato meglio, a Parma invece ero isolato perché non potevo avere contatti con gli altri indagati. Quei tre pilastri sono stati importanti perché mi hanno fatto alzare da quella branda del carcere, mi hanno fatto conoscere i due amici che erano con me, Antonio e Walter, che stavano scontando le loro condanne. Di loro ho un bel ricordo: sono stati molto gentili nel farmi assorbire l’entrata in cella».
di Luigi Grimaldi
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