Fanno orari assurdi, il più delle volte vengono assunti con contratti precari, la grande maggioranza di essi, circa due terzi, lavora in aziende sotto i 15 addetti, dove non si applica lo Statuto dei lavoratori. Con queste premesse, la pretesa da parte dei rappresentanti della grande distribuzione di introdurre nel contratto la flessibilità totale prevista dalla legge Biagi, richiesta che ha fatto saltare in extremis un rinnovo atteso da oltre 18 mesi, si è rivelata la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo. E per un milione e 500mila dipendenti di negozi, supermercati e centri commerciali è suonata l'ora della rivolta. Dopo gli scioperi spontanei di venerdì scorso, ieri l'epicentro della protesta è stato a Milano e a Brescia. Nel capoluogo lombardo si sono fermate per due ore le quattro filiali Coin, con un presidio davanti al punto vendita più importante, quello di piazza Cinque giornate. Hanno risposto molto bene le Sma con il 90% di adesioni alle due ore di sciopero programmate dalle Rsu. Stesso copione all'Oviesse, in alcune Upim, alle due Ikea, alle cinque filiali di Esselunga, alla Carrefour di via Assago e alle due Rinascenti. La mobilitazione proseguirà anche domani e martedì. Otto invece le ore di sciopero nella grande distribuzione a Brescia. La protesta è andata benissimo alla Auchan, bene all'Ikea, abbastanza bene anche nelle aziende più piccole.
Una ribellione che nasce da lontano. Il commercio infatti è un settore dove flessibilità e precarietà cominciano ben prima della legge 30, in un settore dove la contrattazione è storicamente limitata dalla presenza di tantissime piccole imprese. Questo ha fatto sì che la grande distribuzione (ormai sono 500mila i dipendenti di medie imprese) si trova oggi a poter godere dei benefici di un contratto ancora a misura delle aziende più piccole, una situazione paragonabile a quella nell'artigianato dell'industria. In altre parole, la grande impresa gode di flessibilità che sarebbero inimmaginabili in una industria del settore produttivo di analoghe dimensioni.
Ad esempio sugli orari, pensati in completa funzione dell'impresa: basta dire che il 90% delle cassiere sono a part time. I centri commerciali e i supermercati hanno un numero di lavoratori precari che in molti casi supera il 50% dei dipendenti. Ormai anche grazie alle politiche dei comuni, c'è stata una dilatazione degli orari che ha portato anche all'apertura indiscriminata nelle giornate festive, con un aggravio dei turni di lavoro e della precarietà (parte del personale viene assunta solo per il sabato e la domenica).
«Dove la sindacalizzazione è più bassa - spiega Maurizio Scarpa, della Filcams Cgil - le imprese fanno il bello e il cattivo tempo. Succede così che ai lavoratori i turni vengono comunicati giorno per giorno. In questo modo i padroni ottengono una riduzione del costo del lavoro perché il lavoro viene adattato alle esigenze dell'impresa senza i costi aggiuntivi derivati dal pagamento degli straordinari. In più - ricorda il sindacalista -, va tenuto conto del fatto che i contratti di apprendistato e gli ex contratti di formazione lavoro, ora di inserimento, prevedono forti abbattimenti salariali e contributivi».
Non paghi di questo le imprese chiedono oggi ulteriori flessibilità. Come i 6 anni di apprendistato o l'utilizzo dell'orario plurisettimanale per i part-time. E la competitività in questo caso non c'entra nulla, semmai l'avidità: «Nel commercio, a differenza dell'industria - spiega ancora Scarpa -, l'aumento del costo del lavoro dovuto al rinnovo del contratto nazionale non produce vantaggi per un'azienda rispetto a un'altra, come succede per chi esporta prodotti all'estero, perché il contratto viene applicato in tutti i punti vendita del paese».
Roberto Farneti
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