26/7/2002 ore: 12:00

"Opinioni" No, il Patto per l’Italia non è il Dpef - di Pier Paolo Baretta

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26 luglio 2002


No, il Patto per l’Italia non è il Dpef
PIER PAOLO BARETTA *

Nella polemica di questi giorni si è teso ad accreditare la tesi, errata, che Cisl e Uil,
con la sigla del patto, avrebbero approvato il Dpef. C’è chi addirittura arriva a sostenere
che, a causa di questo presupposto, la Cisl sarebbe collocata col centrodestra.
Ma il patto ed il Dpef non sono la stessa cosa.
Il documento della direzione dei Ds lo riconosce, quando critica il governo per «l’ambiguo intreccio» e sottolinea le «importanti prese di distanza di Cisl...» dal Dpef.
In effetti, dalla stessa lettura dell’accordo si comprende bene che non abbiamo avallato il
quadro macro-economico e di finanza pubblica, del quale si prende, ovviamente, atto.
Abbiamo convenuto, questo sì, il tasso di crescita. Si tratta di una previsione fin troppo
ottimistica, lo sappiamo. Ma, se non ci appassiona, nella battaglia politica e sindacale, il tanto peggio tanto meglio, è doveroso, come Paese, darci obiettivi ambiziosi che servono a dare
stimoli e fiducia all’insieme del sistema economico.
Tanto più se vogliamo perseguire la crescita occupazionale prevista nel documento di Lisbona, che comporta per il nostro Paese una lunga rincorsa ed un salto di qualità che col patto si sono avviate. Non abbiamo, invece, condiviso il tasso di inflazione programmato, anzi abbiamo palesemente contestato quell’1,4% fissato dal governo, considerandolo del tutto inadeguato alla ormai urgente ripresa di una dinamica salariale. Questo vuol dire che le piattaforme autunnali che noi approveremo saranno tarate su richieste che superano l’1,4%? Certamente sì. So bene che la posizione di Confindustria è diversa e che, quindi, l’autunno si presenta complicato. Peraltro il tasso di inflazione programmato è un meccanismo ormai obsoleto rispetto al quadro europeo di stabilità. La discussione allora va portata, da subito, su una nuova politica dei redditi e su un nuovo modello contrattuale. Su un nuovo modello contrattuale che sia più sbilanciato di oggi verso l’azienda e il territorio, allo scopo di contrattare le nuove condizioni di lavoro e di ridistribuire la produttività.
Il Patto risulta, invece, legato al Dpef solo per due poste finanziarie che ne derivano: i 700 mln di euro per gli ammortizzatori e almeno 5,5 miliardi di euro per l’Irpef, a cui si aggiungono i 2
punti di Irpeg (un punto del quale ne ha merito Visco) e i 0,5 miliardi per l’Irap.
Sul primo aspetto va detto che per quanto insufficiente, la cifra destinata agli ammortizzatori sblocca quel principio che le riforme sociali sono a costo zero contro il quale ci siamo battuti anche nel finale della scorsa legislatura.
Sul secondo aspetto, quello fiscale, la nostra critica alla riforma complessiva resta netta.
La nostra opinione, oltre che pubblica, è da tempo depositata negli atti parlamentari,
espressa in occasione delle audizioni.
Ma, a fronte del voto parlamentare favorevole alla riforma, la scelta negoziale che abbiamo fatto è stata quella di forzare perché si privilegiassero i redditi bassi e si rinviasse il resto della applicazione a tempi... migliori. Ciò ha consentito di imporre, per ora, una certa progressività, mantenendo aperta la discussione sull’impianto e soprattutto favorire i meno abbienti.
La Cisl non ha dato alcun avallo alla manovra sulla sanità.
Sulla previdenza, infine, diversamente da quanto previsto nel Dpef, confermiamo il nostro no
alla decontribuzione.
La Cisl è e resterà autonoma sia dal centro destra, che dalla sinistra.
Proprio il bipolarismo politico rende necessario evitare che si affermi un conseguente bipolarismo sociale. Ciascun lavoratore, indipendentemente da come vota, deve sentirsi a casa sua nel sindacalismo confederale, certamente nella Cisl. Ciò non vuol dire neutralità (si veda, oltre ad alcuni argomenti qui esposti, la nostra posizione sulla immigrazione). Vuol dire autonomia.
Da queste considerazioni dovrebbe esser chiaro che la tesi del collateralismo a destra della Cisl, riproposta da molti anche a sinistra, quasi come un auspicio, si rivela clamorosamente infondata.
Ma tutto ciò riporta ad una considerazione più ampia. Il modello liberista tenta di imporsi attraverso deregolazioni inaccettabili. Ma rischia di insinuarsi nei comportamenti individuali e collettivi perché dà risposte, illusorie ma modernizzatrici, alle insicurezze e alle domande indotte dalla transizione globale. Se si vuole rimettere in moto le coscienze, trasferendo le emozioni e gli interessi dalle illusioni alle speranze, la risposta non può essere l’antagonismo rassicurante, ma altrettanto illusorio.
A questo punto, l’onestà intellettuale fa affiorare la più difficile e dolorosa delle domande: come si concilia l’unità sindacale (ma, senza ipocrisie, vale anche per la politica e per schieramenti così eterogenei per programmi e collocazioni ideali), con differenze strategiche così profonde? La risposta, temo, non ammette scorciatoie; ma, questo è anche il significato del dibattito positivo apertosi nel mondo politico, a seguito del patto.

* Segretario Confederale Cisl

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