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giovedì 14 luglio 2005
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IL PROGETTO ERA FERIRE LA CITTA' CON UNA «CROCE DI FUOCO»
Da Leeds a Londra biglietto di sola andata per i terroristi
Scotland Yard ricostruisce i movimenti del quartetto della morte con auto noleggiate, treni, metro e autobus
Reportage Massimo Numa
inviato a LONDRA
UNA grande croce di fuoco. Avrebbero dovuto idealmente disegnarla, nelle viscere di Londra, i terroristi che tra le 8,50 e le 9.37 di giovedì scorso si sono fatti saltare in tre punti della metropolitana e sul bus 30, a Tavistock Square, nel cuore di Londra. Nord, Sud, Ovest ed Est. Per ogni punto cardinale, un’esplosione, una strage programmata chissà da quanto tempo, con un alto valore simbolico. Al centro della croce, la stazione di King’s Cross.
Scotland Yard sa molto, quasi tutto, di quanto è accaduto il 7/7. E - rompe il tradizionale riserbo solo per far sapere all’opinione pubblica cosa davvero è successo nella capitale. Ovviamente, tantissimi aspetti sono coperti dal segreto, perché gli inglesi questi assassini li vogliono prendere tutti al più presto, e non vogliono dare loro alcun vantaggio. Sanno di avere a che fare con gente che guarda i giornali, si informa, sa leggere tra le righe.
La polizia rivela che i quattro cittadini britannici di origine pakistana (Mohammed Sadique Khan, 30 anni; Hassib Hussein, 19; Shezad Tanweer, 22; il quarto si chiama Fiaz Elihaz, 26 anni, pakistano e residente a Leeds, come gli atri, ma manca ancora una conferma ufficiale) hanno incontrato un solo, spiacevole inconveniente. Quando il più giovane del team della morte non ce la fa ad azionare il telecomando dell’esplosivo all’ora concordata, cioè le 8,50. Così, dopo i primi tre scoppi, lui si ritrova a Tavistock, sospinto dalla folla in fuga dal Tube, con il suo inutile zainetto. Decide così di salire, con le altre persone evuacuate, sul bus numero 30. Al voltante c’è George Psaradakis, 49 anni, che - prima di partire da Euston - aspetta che il suo bus sia completamente esaurito dai passeggeri. La stazione della metropolitana da cui Hassib doveva partire per raggiungere il suo obiettivo, è chiusa. Una volta a bordo, in preda a una crescente agitazione, prova di nuovo a innescare l’esplosivo. Per un tempo interminabile non riesce ad azionare il telecomando dell’ordigno; i testimoni ricordano bene Hassib Hussein mentre smanetta freneticamente la tastiera del suo I-Pod, una mano infilata nello zainetto ai suoi piedi, nei sedili alle spalle dell’autista, vicino all’uscita centrale. Hassib, studente «dai dolci occhi scuri», secondo la testimonianza di un amico di Leeds, ha perso quasi un’ora, poi, alle 9.37, è riuscito a compiere la strage concordata con i complici.
La «burning cross», la croce di fuoco, è così rimasta incompiuta. Ieri i portavoce di Scotland Yard hanno voluto spiegare meglio il senso di un’azione che rischia di diventare un paradigma per tutte le polizie dei Paesi europei minacciati dal terrorismo islamico.
Intanto, i quattro «bombers» volevano assolutamente far conoscere al mondo, soprattutto ai fratelli musulmani, il loro sacrificio, per aumentare il proprio prestigio attraverso il ricordo del martirio, celebrato nelle moschee più radicali e integraliste. Altrimenti, non si spiegherebbe perché tutti avessero addosso documenti necessari all’identificazione, dalla patente di guida alle carte di credito. Tutti e quattro, hanno accertato gli investigatori di Scotland Yard, avevano assiduamente frequentato il centro religioso di Stratford Street, a Leeds. Altro aspetto interessante: almeno due dei terroristi (tra cui Tanweer), attraverso la moschea che organizzava viaggi e periodi di studio, erano stati recentemente ospiti delle scuole islamiche di Lahore, in Pakistan. E lì, nelle stesse aree, erano indirizzati anche i giovanissimi mujaheddin provenienti dalle moschee di Milano e Torino, prima di finire nei campi di addestramento militare di Al Qaeda. Ci vuol poco, a questo punto, a riconoscere i contorni di una rete diffusa in tutta Europa, in attività ancora prima dell’11 settembre.
Ma se i quattro brits di origine pakistana sono gli esecutori diretti del massacro, adesso è aperta la caccia agli altri organizzatori e ai collegamenti internazionali: gli investigatori di Peter Clark, il capo dell’Antiterrorismo, stanno cercando una quindicina di persone. Non solo di Leeds, ma anche di Londra. Ieri in serata la polizia ha effettuato un’operazione ad Aylesburi, a Nord-Ovest della capitale. Si è diffusa la notizia di un arresto, ma poi non è stata confermata. Si cercano anche gli autori delle ricognizioni, necessarie a pianificare gli attentati, e i fornitori dell’esplosivo, di tipo militare. Tra loro, qualche nome noto all'Intelligence britannica. Si tratterebbe di uno dei tanti imam itineranti che da Londra vanno a predicare odio nelle moschee di tutta l’Inghilterra. E poi, nel mirino, gli organizzatori dei tour in Pakistan, e i contatti a Lahore e Islamabad. I giovani vengono inviati in centri teologici, le «madrasse», dove le stragi degli «infedeli» attraverso il martirio sono teorizzate e incoraggiate.
I nomi dei suicidi, invece, «non sono mai comparsi nei file dell’MI5. Il che, qui in Inghilterra, solleva non pochi interrogativi, qualche critica e almeno uno spunto di riflessione.
Una programmazione minuziosa, con molte zona d’ombra ancora da chiarire. Vanno ricostruire le ore che hanno preceduto gli attentati. L’insegnante Mohammed Sadique Khan, provvede al noleggio di due auto, seguendo le linee comportamentali già adottate dai kamikaze dell’11/9. Non vogliono utilizzare, con i loro carichi di esplosivo, i treni e i mezzi pubblici, per non finire casualmente intrappolati in un controllo di routine. Alle prime ore dell’alba partono, divisi in due gruppi (altra precauzione, per evitare di essere eventualmente sorpresi tutti assieme) e raggiungono la stazione di Luton, a circa tre ore di viaggio da Leeds. Qui parcheggiano le auto noleggiate e salgono sul treno diretto a Londra. Ognuno ha con sè uno zainetto. Dentro c’è la bomba, composta da cinque chili di esplosivo militare, prodotto dell’Est Europa, con un detonatore azionato da un impulso inviato da un I-Pod.
Arrivo a King’s Cross, pochi minuti dopo le otto. Il piano procede alla perfezione; i quattro vengono inquadrati dalle videocamere interne, posizionate all’ingresso dell’atrio del terminale. Gli agenti dell'Antiterrorismo li identificano senza possibilità di errore, dopo avere controllato 2500 immagini. Eccoli. Sono in un angolo, tra le vetrine di un bar e quelle di una banca. Per alcuni minuti «ridono e scherzano tra di loro». Controllano gli orologi, l’azione deve essere sincrona. I poliziotti dicono che sembrano turisti in procinto di iniziare una visita alle bellezze della città. Invece sono gli ultimi istanti prima dell’orrore e della morte.
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