22/3/2007 ore: 12:20

Aspetti un figlio? Ti licenzio

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    giovedì 22 marzo 2007


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    Aspetti un figlio? Ti licenzio

    di Luciana Cimino - Roma


    Minacciate, vessate e infine licenziate. Succede alle donne che decidono di avere un figlio. Potrebbe sembrare un dato irrilevante rispetto al totale dei licenziamenti che avvengono ogni anno.

    Invece è costume nell’Italia del 2007, che concede ai datori di lavoro gli strumenti per farla franca e pone alle donne una scelta: diritto al lavoro o diritto alla maternità?

    Il 30% delle donne che hanno avuto un figlio, dopo un anno e mezzo dalla nascita del bambino non ha più un’occupazione. Per molte di queste il mercato del lavoro non si aprirà mai più.

    QUANDO un datore di lavoro ha deciso che la lavoratrice madre è un problema non ha bisogno di rischiare l’iter giudiziario. Basta aspettare l’anno di vita del bambino (termine prima del quale l’interruzione del rapporto di lavoro è impedita dalla vecchia legge sulla maternità), e intentare un licenziamento per i più diversi motivi, intanto la vita della dipendente viene resa impossibile. E non c’è bisogno di ricorrere alle minacce, basta togliere competenze, mortificare la professionalità. Le collaboratrici a progetto, poi, non hanno scampo: difficile che il contratto venga loro rinnovato. Come è successo ad Patrizia, direttrice di un laboratorio di analisi cliniche. Aveva un contratto a progetto ed un ottimo stipendio quando ha deciso di avere un figlio. «La mentalità corrente è che il figlio ti porta via tempo e se provi ad organizzarti sei una cattiva madre. Tuo figlio si ammalerà, dicono, non sarai presente, quindi inadempiente». Se hai un contratto a tempo indeterminato, lo strumento è già nelle mani del tuo superiore: una lettera di dimissioni in bianco, che ti escuderà dall’indennità di disoccupazione. Così è successo ad Anna, commessa in una panetteria. Amata dalla famiglia che gestiva il negozio perchè con la sua gentilezza “fidelizzava” i clienti, ad Anna viene invitata a dimettersi non appena comunica di essere incinta. Si rivolge dunque al sindacato e, su consiglio della ginecologa, entra in interdizione anticipata. Ma ogni mese dovrà intervenire legalmente per ottenere il 30% dello stipendio che per legge le spetta durante la maternità. Appena rientra, sono insulti, sedie addosso, minacce. «Ti esasperano - racconta - per costringerti ad andartene spontaneamente». Ma mai davanti a testimoni, impossibile dimostrare il mobbing. Anna resiste perchè non può permettersi altrimenti ma appena la bambina compie un anno arriva il licenziamento. “Riduzione del personale”, dice la lettera, sebbene Anna fosse l’unica dipendente: facile giustificarlo con difficoltà di bilancio se fatturi a nero. Ora Anna ha vinto la causa ma, a distanza di 4 anni, non ha ancora avuto i soldi che le spettavano. «I datori di lavoro fanno affidamento sulle inadempienze dei tribunali italiani, per le famiglie a basso reddito è un dramma», spiega Daniela Cordoni della Cgil. Ma non è solo questo il punto. Poche lavoratrici hanno il sostegno familiare necessario ad fare la causa: «c’è un problema culturale - continua Cordoni - non solo nei maschi, in queste condizioni la donna tende a vivere la gravidanza come una colpa e così viene attaccata proprio nel momento più felice della sua vita». Giorgia, ha lavorato come stilista, raccogliendo grandi soddisfazioni professionali, in una dei più affermati marchi di abbigliamento femminile del paese. Quando ha comunicato la gravidanza le hanno proposto di passare da un contratto a progetto ad uno di subordinazione con la mansione inferiore di figurinista. Il contratto prevedeva un periodo di prova al termine della quale l’azienda ha deciso che era inadeguata e, dopo 2 anni, la licenzia. Il sindacato riesce a farla reintegrare ma (memore dell’esperienza di una collega che, nella medesima situazione è stata, si, riammessa ma al centralino), contratta un incentivo all’esodo.

    Le aziende, sopratutto quelle alle quali non si applica l’articolo 18, rischiano poco, anche se perdono la causa. E poi le altre dipendenti in questo modo imparano la lezione. E così, in un paese con uno dei più bassi tassi di natalità d’Europa (1,9 figli a famiglia), da un lato la donna vine incitata a procreare, dall’altro viene discriminata. Nessun welfare, nessuna tutela per chi vuole un figlio. Le trentenni di oggi devono ricominciare a lottare per i diritti basilari da capo, come se trent’anni fossero passati invano.

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