Crescono gli sfiduciati altri duecentomila non cercano più lavoro
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ROMA — Nella crisi c’è chi perde il lavoro, chi non lo trova più e chi rinuncia a cercarlo, perché si è scoraggiato. La recessione significa anche questo. Nei tre anni che hanno preceduto la recessione la quota di “scoraggiati” italiani è andata progressivamente diminuendo, in un mercato del lavoro che sembrava galoppare per quanto spinto da una massa abnorme di contratti di lavoro atipici. Ora è cominciata — purtroppo — l’inversione: in un anno, da ottobre 2008 a ottobre 2009, gli inattivi (così le statistiche mondiali chiamano gli scoraggiati) sono cresciuti di 210 mila unità, praticamente quanto i nuovi disoccupati. È una delle tante facce della crisi. Certo l’indagine dell’Istat (che per la prima volta rende noti i dati mensili delle forze lavoro) non rivela quanti di quei 200 mila lavoratori provengano o dalla disoccupazione o dal lavoro, o quanti siano i pensionati o le nuove casalinghe. Ma il fatto che la percentuale di inattivi sia aumentata in un anno dell’1,4, quando la corsa ai pensionamenti di anzianità si è fortemente arrestata, è di sicuro un campanello d’allarme sociale, tanto più che ad alimentare questa categoria sono soprattutto gli uomini. È una novità, ma anche una conferma che quel dato è in buona parte un effetto della crisi. Gli uomini scoraggiati sono cresciuti del 2,4 per cento nell’arco di dodici mesi, pari a 121 mila unità. Tanti. Più delle donne meridionali che, insieme ai giovani, soprattutto del Mezzogiorno, sono sempre stati i soggetti più esposti al rischio di perdere la speranza di trovare un nuovo (o anche il primo) lavoro. In un anno le donne che non hanno fatto più nulla per trovare occupazione sono aumentate dello 0,9 per cento, pari a 88 mila persone. «Quello degli inattivi è un fenomeno che caratterizza tutte fasi recessive. È ovvio che sia così, anche se l’Italia continua ad avere un livello di inattività altissimo», dice Pietro Garibaldi, professore di Economica politica all’Università di Torino.
Ed è difficile negare che l’alto tasso di inattività finisca per avere un effetto perverso sul calcolo della disoccupazione. Perché da noi è tornata ai livelli del 2004 (l’8 per cento) e fa impressione riparlare di due milioni di disoccupati, ma va allo stesso tempo riconosciuto il fatto che siamo ancora lontani dal tasso a due cifre (oltre il 10 per cento) che si è abbattuto sugli Stati Uniti con i suoi 15 milioni di senza lavoro. «Abbiamo un tasso di disoccupazione inferiore alla media europea», ha detto ieri il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ed è vero visto che nell’area dell’euro la disoccupazione è in media del 9,8 per cento nell’Europa a 27 del 9,3 per cento.
«Ma il nostro problema strutturale del mercato del lavoro è che pochissima gente lavora», osserva Garibaldi. Ed emerge anche dai dati di ieri dell’Istat: siamo ulteriormente scesi al 57,6 per cento (- 0,9 per cento in un anno) contro una media europea che è oltre il 65 per cento.
C’è da capire se il rialzo della disoccupazione segnali anche la fase più acuta della crisi e se invece le prossime rilevazioni saranno ancora peggiori. «Intanto – sostiene Garibaldi - bisogna apprezzare la scelta dell’Istat di cominciare a comunicare mensilmente i dati sulle forze lavoro perché questo è il numero congiunturale più reale che ci sia. Più del Pil e anche della produzione industriale che riguarda solo una parte dell’economia ». L’occupazione, dunque,
per leggere l’andamento della crisi. Perché nei prossimi mesi si vedrà se i 500 mila circa posti di lavoro corrispondenti al ricorso in atto alla cassa integrazione saranno assorbiti dalle aziende oppure corrisponderanno ad esuberi. «In più - conclude Garibaldi - è necessario che l’Inps comunichi i dati sulle richieste dell’indennità di disoccupazione che incomprensibilmente tiene secretati».