Discriminati sul lavoro, ignorati dal sindacato
giovedì 17 Luglio 2003 |
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Discriminati sul lavoro, ignorati dal sindacato Ricerca dell'Ires Cgil sui lavoratori stranieri presentata al meeting di Cecina
CINZIA GUBBINI INVIATA A CECINA (Livorno)
Hanno mansioni più gravose, turni di lavoro più disagiati, per esempio i notturni o durante week-end e festivi. Il salto di carriera è una chimera e la vera «conquista» rimane il passaggio da un contratto di lavoro a tempo determinato al posto fisso. Le donne vivono condizioni ancora più disagiate: peggiori le condizioni di inquadramento e minori le possibilità di carriera. Questo il quadro che emerge dalla prima indagine sugli immigrati in Italia e le discriminazioni sul posto di lavoro, realizzata dall'Ires-Cgil, grazie a un finanziamento della comunità europea, e presentata ieri al IX Meeting antirazzista, organizzato anche quest'anno dall'Arci a Cecina.
La Cgil ha preso spunto per la ricerca da un'analoga iniziativa francese che aveva dimostrato la «cecità» dei sindacalisti francesi di fronte a questo problema. La ricerca italiana ha portato, purtroppo, agli stessi risultati, dimostrando che la percezione del problema, soprattutto tra i delegati italiani, è decisamente distorta: «Il sindacato deve prendere maggiore coscienza di questo problema, e sarà necessario avviare un ciclo di informazione e di formazione sul tema», ha osservato Piero Soldini, responsabile Cgil dell'immigrazione.
354 le interviste realizzate, di cui 196 ai delegati (di cui 76 stranieri) e 158 ai lavoratori immigrati. Si tratta di un campione molto piccolo, dal quale emergono tuttavia tendenze interessanti. Le interviste sono distribuite territorialmente: 38% nel nordest, il 30% nel nordovest, il 20% nel centro e l'11% nel sud. Il rapporto ha analizzato anche la partecipazione dei lavoratori migranti al sindacato, rilevando un altissimo tasso di sindacalizzazione: una media del 69% nelle aziende indagate attraverso i delegati stranieri, e il 72% tra i lavoratori immigrati. Studi a livello nazionale confermano il dato, registrando un livello di sindacalizzazione straniera pari al 45%, contro il 27% dei lavoratori italiani. La ricerca ha rilevato anche una notevole attività nella vita sindacale da parte dei migranti, particolarmente rilevante nelle persone di religione musulmana - che rappresentano anche il numero più alto tra gli impiegati dell'industria. Se le donne sono meno sindacalizzate (37%) - ma sono anche meno rappresentate (2,6 delegate straniere contro 17,8% delegate italiane) - una volta iscritte diventano militanti (20%) e difficilmente rimangono semplici iscritte (11%). Dati interessanti sono arrivati anche dal giudizio sul sindacato, spesso negativo, mentre giudizi più positivi si riscontrano nei confronti del proprio delegato sindacale, che semmai è accusato di essere insensibile al tema dell'immigrazione.
E arriviamo alle discriminazioni: solo il 28% afferma di aver avuto un avanzamento di carriera, contro il 44% dei diplomati e il 35% di chi ha una licenza media. Eppure, per il 71% dei delegati sindacali, non esiste una forma di discriminazione nell'inquadramento lavorativo in base al titolo di studio, o meglio non lo è per l'87% dei delegati italiani mentre il 38% dei delegati stranieri riconosce la presenza del problema. La discriminazione aumenta in relazione al rapporto con i colleghi italiani, problema riconosciuto dal 41% dei delegati italiani e dal 46% di quelli stranieri, anche se in forma sporadica. Più netti i lavoratori: per il 60% esistono saltuari atteggiamenti discriminatori da parte dei colleghi italiani, mentre il fenomeno è più contenuto nei datori di lavoro (42%), che però sono quelli che più facilmente si lasciano andare a forme di discriminazione persistente (13% contro 11% dei colleghi italiani). Ma quali sono i motivi di queste discriminazioni? Anche qui, il dato è interessante. Secondo i delegati italiani si tratta di problemi «culturali» (35%) e di religione (25%). Diversa la percezione dei delegati stranieri, secondo loro la religione non c'entra nulla, c'entra qualcosa la diversità culturale (24%) ma c'entra anche «concorrenza» (l'idea che il lavoratore straniero rubi il lavoro all'italiano) per il 21%.
Un aspetto della ricerca riguarda i «giovani immigrati» con meno di 25 anni: hanno titoli di studio medio bassi (71,4% degli intervistati) contro il 32% degli immigrati che hanno 36-45 anni. Cosa significa? «Da un lato che il processo migratorio inizia prima, e che le persone partono per l'Italia prima di aver concluso il corso di studi - spiega Adriana Bernardotti, curatrice della ricerca - ma questo svela anche un altro dato: e cioè che l'Italia offre posti di lavoro poco qualificati, per cui non occorre avere alti titoli di studio. C'è da interrogarsi anche su un altro elemento: queste persone sono figli di immigrati di prima generazione? Si tratterebbe di un segnale ancora più grave, poiché denuncerebbe una difficoltà di integrazione per i giovani migranti».
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