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10.04.2003 Hotel Palestine, tredici giorni vissuti pericolosamente di Toni Fontana
BAGHDAD dal nostro inviato Sono arrivati gli americani. Alle 16.30 il rumore dei cingoli dei carri Abrams ha invaso piazza del Paradiso, proprio davanti al nostro hotel. Tank blindati si sono appostati tutti attorno alla rotonda al centro della quale spiccava la statua di Saddam Hussein. Spiccava perché, mentre dettiamo, vediamo un cingolato americano dotato di gru che sta tirando giù la statua. Man mano che questa lentamente cede, la folla applaude e urla. La statua di bronzo del dittatore cade a pezzi al centro della piazza. Gli americani hanno volti sorridenti, provati dalla fatica ma si sentono vincitori, dominatori.
I marines della prima divisione sono sbucati dai mezzi e si sono concessi al grande circo dei mass media che li ha subito circondati, intervistati e ha rubato i loro racconti. «Non abbiamo trovato una grande resistenza- dice il tenente Matt Beker - eravamo in Kuwait, poi abbiamo raggiunto Bassora, l’abbiamo superata e siamo andati al Kut. Ieri abbiamo raggiunto Baghdad». Un altro sergente dice: non abbiamo trovato una grande resistenza. Poca gente segue la scena dalle finestre dei palazzi che si affacciano sulla piazza. Molti come Youssuf che conosciamo da tanti anni e che ci ha sempre parlato segretamente con odio di Saddam Hussein, hanno però gli occhi gonfi di pianto e ripetono con voce stentata: «questo è il mio Paese che muore». Altri piangono apertamente, altri gridano e si precipitano sulla statua di Saddam che viene avvolta da una robusta corda e umiliata con una bandiera americana. Un centinaio di persone prova a tirare giù il dittatore che però resiste, e allora arriva un carro gru americano con tanto di bandiera che cinge una robusta fune attorno alla statua del raìs e pian piano la tira giù. Ci vogliono però venti minuti e solo alle 18,50 il bronzo si infrange nella piazza che abbiamo guardato durante i tanti giorni di prigionia.
Scriviamo questi appunti sentendo il rumore dei calci che fanno a pezzi i ritratti di latta del dittatore che poi vengono bruciati. C’è chi piange di gioia e chi di dolore, chi si sente umiliato e chi si sente vittorioso. I fedayn, quasi tutti giunti dagli altri paesi arabi, molti algerini e tunisini sconfitti e disarmati che si erano rifugiati nell’hotel, si sono dileguati. Sono spariti con facce meste, sconfitte, con le barbe lunghe, affamati, e intanto riprende la festa con centinaia di persone che bruciano i ritratti di Saddam Hussein.
Gli apparati del partito dei servizi segreti, si sono dissolti. Ci sono state anche ieri sparatorie e scaramucce. Mentre scriviamo sentiamo colpi di mitraglia provenire dai vari angoli di questa grande e sterminata città che ha un diametro di cinquanta chilometri, ma anche i fedayn che hanno resistito fino a ieri sul ponte della Repubblica si sono poi dileguati, sparando fra le macerie delle case colpite dai tank.
Tra sacche di resistenza, gente che piange, crateri di bombe, Baghdad appare nelle mani delle forze americana d’invasione. Da Saddam City, il sobborgo popolare, la zona più povera e degradata della città con le sue fogne a cielo aperto, giungono notizie di saccheggi, di scontri e di linciaggi. Lì la popolazione sciita è stata tenuta sotto il controllo dei mitra dei servizi segreti di Saddam per tanti anni e ora si sfoga rubando e gettandosi alla ricerca di qualcosa da mangiare. Vengono assaltati i ministeri, pochi edifici vengono circondati dalle forze americane che diventano incredibilmente la garanzia di sopravvivenza di questi monumenti alla dittatura che scompare. Fumo ed esplosioni riempiono la giornata che è una giornata di guerra: la pace ancora non si vede. Eppure tra tanta gente che piange e tanta che urla di rabbia per la sconfitta subita si nota una grande assenza: quella della popolazione di Baghdad e dell’Iraq che ha subito le violenze della polizia segreta della dittatura e poi dodici anni di embargo e poi le bombe del 1998 e quelle di queste settimane che abbiamo sentito dalla nostra finestra al dodicesimo piano dell’hotel Palestine infrangersi a tutte le ore del giorno e della notte, squarciando l’aria della capitale. Gli apparati si sono dissolti ma restano la paura, la desolazione, lo smarrimento. Mentre la statua di Saddam Hussein cade a pezzi vediamo centinaia di automobili che si affollano ai quattro lati della piazza, il traffico che in mattinata sembrava totalmente diradato e quasi sparito riprende improvvisamente febbrile e vivace. Ma gli automobilisti stanno in disparte. La colonna di automobili si snoda sempre più lunga ma rimane estranea alla piazza dove solo alcune centinaia di persone inneggiano alla fine della dittatura, con gesti delle mani e cartelli colorati. Un gruppo di pacifisti irriducibili, di scudi umani, si pone davanti ad un blindato americano con un cartello e alcuni iracheni coraggiosamente si mettono tra un mezzo e l’altro gridando ai soldati «no, no». Un marine ci guarda e dice sconfortato: «Non ci capiscono, noi qui abbiamo portato la democrazia. Io non mi faccio la doccia da 23 giorni. Sono venuto dal deserto e ho rischiato la mia vita per portare un po’ di pace in mezzo a questa gente».
Mentre scriviamo vediamo decine di carri di blindati, di piccole jeep piatte e panciute che si posizionano nella piazza da padroni. Gli americani sono entrati coi mitra bassi nei due alberghi, il Palestine, dove siamo alloggiati, e lo Sheraton che ci sta davanti. Hanno preso letteralmente il possesso della reception. I carcerieri non ci sono più. Il personale dell’albergo gentilmente con molta cortesia e professionalità li ha accolti come ospiti nei due grandi palazzi preservati dalle bombe ma non da quella, probabilmente americana, che ieri ha ucciso due colleghi appena due piani sopra il nostro, mentre stavano riprendendo le scene della battaglia sul ponte.
Ho riavuto il passaporto che mi era stato sequestrato 13 giorni fa a Bassora quando avevo attraversato la prima linea per realizzare un reportage che non ho mai scritto. Ero stato catturato con altri sei giornalisti italiani e condotto dapprima alla sede del partito Baath e quindi all’indomani, dopo una notte trascorsa all’hotel Sheraton, a Baghdad. All’hotel Palestine, che è diventato la mia prigione, sono rimasto tredici giorni. Oggi (ieri, ndr), nella hall dell’albergo fino al giorno prima chiassosa, affollata e intasata da telecamere e cavalletti, vedo solo una folla di giornalisti silenziosa di prima mattina, i reporter attraversano la hall senza parlare: sono in lutto per la morte di due colleghi che sono stati dilaniati dalla bomba che ha colpito l’albergo. Fin dalle prime ore del giorno la sorveglianza si è diradata, i carcerieri fino a poche ore prima austeri che ci guardavano dall’alto in basso, con uno sguardo impenetrabile e arrogante, si sono improvvisamente dimostrati via via più cortesi e disponibili. La dissoluzione dell’ordine impersonato da Saddam Hussein, si vede dalle piccole e dalle grandi cose. Vengono meno i soffocanti controlli per noi e per tutta la popolazione di Baghdad. Ho visto la metamorfosi delle persone dell’albergo, del personale che si avvicina. Ci chiedono con angoscia ma anche con speranza che cosa potrà accadere, cosa sbucherà dalle macerie, dall’odio dal fumo, dalle trincee riempite di petrolio e incendiate in queste settimane per annebbiare la vista dei piloti dei caccia, fiamme che hanno creato immense nubi e che hanno intossicato la popolazione di Baghdad. Ci chiedono cosa verrà fuori dai crateri che hanno inghiottito donne e bambini innocenti. Un nuovo ordine si sta sostituendo a quello dello spionaggio, della dittatura, della vessazione, della tortura.
Vedo dissolversi un regime ma ancora non si può intravedere né capire quale sarà il futuro di questo Paese, quale saranno gli equilibri che si creeranno, quale sarà la capacità di questo popolo intraprendente e laborioso che aspettava la libertà, di imporre condizioni, di non diventare succube e schiavo di chi lo ha conquistato.
Non resta per ora che descrivere la cronaca di avvenimenti delle ultime ore, durante la notte disturbata come sempre da boati delle bombe cadute nella città. Al buio i tank americani hanno ripercorso all’indietro il ponte al Aljumhuriya (la Repubblica) conquistato la sera precedente dopo intensi cannoneggiamenti, i marines hanno aspettato rinforzi prima di riprendere l’offensiva contro i gruppi di feddayn che sbucano all’improvviso lanciano granate Rpg, razzi con i bazooka e i lancia razzi contro gli americani. I marines sono poi comparsi nei vari quartiere di Baghdad, da quello di Karrada, ritenuto il più ricco, dove viveva la borghesia ridotta sul lastrico dall’embargo. Poi sono dilagati letteralmente nella città da ogni strada fra quelle principali, da ogni arteria sono arrivate colonne gruppi di carri armati blindati e la città è diventata a stella e strisce.
In mattinata abbiamo visto arrivare gruppi di combattenti sbandati e sconfitti, con i volti carichi di rabbia e di odio. Alcuni si sono concessi subito alle interviste. Parlavano in francese, venivano dai paesi dei Maghreb erano venuti per l’ultima disperata Jiahd e poi hanno dovuto arrendersi di fronte alla potenza della tecnologia di Bush.
Avrei voluto raccontare i tredici giorni di prigionia ma non ricordo che lunghe attese, migliaia di gradini percorsi nell’albergo fra le mura che incassavano l’onda d’urto delle bombe, sotto lo sguardo discreto ma onnipresente di spie e controllori, vittime e carnefici al tempo stesso. Alcuni sapevano di essere giunti al capolinea, di interpretare con le chiavi che penzolavano dalle loro cinture l’ultima rappresentazione di un ordine che tramontava. Per tredici giorni ho sentito che cose normalissime e ordinarie, come l’orologio, diventavano essenziali per scandire le giornate, per dare un ritmo e un senso alle cose che mi stavano attorno. Penso che di essere uscito a vedere nello sguardo dei carcerieri la loro sconfitta che si avvicinava, la rassegnazione davanti al nuovo ordine imposto con le bombe e con i cingoli dei carri armati Abrams. Mai in questi tredici giorni abbiamo subito angherie o violenze, siamo stati detenuti nello stesso hotel dove alloggiano Lilli Gruber e Giovanna Botteri, abbiamo pagato il conto dell’albergo, il cibo e il tè. Ora che i carcerieri fuggono a nascondersi negli scantinati della periferia di Baghdad, devo ammettere di essere stato trattato meglio di come Bossi e Fini hanno deciso di trattare i clandestini che entrano nel nostro Paese. Finisce forse un incubo quello della dittatura, comincia un nuovo ordine fondato sulla violenza, sulla prevaricazione, sulle bombe.
In questi giorni i fotografi e i reporter che venivano dalle zone del fronte facevano vedere a noi «prigionieri» le loro immagini appena girate negli ospedali dove i bambini erano senza gambe e le donne con il volto segnato dalle ferite dalle schegge delle bombe. Ho visto le immagini di un enorme cratere provocato da una bomba in un quartiere popolare, forse nel tentativo di uccidere Saddam Hussein. Quello che vediamo non è la fine, ma l’inizio di una nuova era contraddistinta dal dolore e dall’incertezza, ma anche dalla speranza. Sparisce dalla scena del Medio Oriente l’uomo che più di altri ha seminato odii, sangue e lutti. L’uomo, che era partito per portare un po’ di laicità in un mondo segnato dall’integralismo ma poi è degenerato nel fondamentalismo dittatoriale, nella violenza, nelle torture. Quello che vediamo è semplicemente incertezza e uno sguardo carico di lacrime rivolto al futuro dell’Iraq. Se posso aggiungere una riga, ringrazio il direttore e i colleghi dell’Unità che in questi giorni difficili mi hanno voluto testimoniare in ogni occasione la loro solidarietà.
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