3/5/2004 ore: 12:42

La maga e le banche del crac Giacomelli

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        sabato 1 maggio 2004
        Tutto il Consiglio di amministrazione dell’azienda di Rimini è sotto inchiesta. Le responsabilità degli istituti di credito
        La maga e le banche del crac Giacomelli
        Atteso il rientro dalle Maldive di Gabriella Spada. Le analogie con i trucchi Parmalat
        Sandro Orlando
        MILANO In fondo il padre Antonio aveva capito tutto. E cioé che per fare bene il commerciante, devi avere prezzi più bassi degli altri. La filosofia che aveva ispirato il primo negozio Giacomelli, aperto a Silla, frazione di Porretta Terme, negli anni ’60, stava tutta qui. Ed aveva consentito a questa famiglia emiliana di aprire, trent’anni dopo, un secondo punto vendita di articoli sportivi nel Modenese, raggiungendo i due miliardi di fatturato (in lire). Forse la famiglia poteva fermarsi: ma non Emanuele, il figlio maggiore. Il quale all’inizio degli anni ‘90 bussa alla porta di un’affermata società di consulenza bresciana, la Sisim di Vittorio Fracassi, che ha già curato l’espansione di marchi come Sergio Tacchini, Jean Luis David e Samsonite; e si fa prepare un piano di sviluppo col turbo. Ed è così che nel ’93 i Giacomelli inaugurano tre nuovi negozi, portando il loro giro d’affari a 14 miliardi. L’anno dopo se ne aggiungono altri quattro, con gli incassi più che raddoppiati. Nel ’95 – la società diventa Spa con 10 miliardi di capitale vengono aperti altri sette “megastore” che spingono il fatturato a 62 miliardi. L’anno dopo i punti vendita diventano 30, e per la Giacomelli Sport arriva anche il debutto all’estero, con l’inaugurazione di un negozio in Belgio: e con le vendite che sfiorano i 120 miliardi, appare anche il primo utile, un miliardo tondo.
          Qualcun’altro si sarebbe anche potuto accontentare: ma non Gabriella Spada, la nuora. L’ambiziosa ragioniera di Porretta Terme ha assunto infatti la direzione generale dell’azienda, fianco a fianco dell’amministratore delegato, Emanuele, il giovanotto con cui si è accasata. Fin qui è la classica storia da strapaese, con le famiglie Giacomelli e Spada che per suggellare l’unione dei loro rampolli creano una società comune poi spostata nel paradiso fiscale del Lussemburgo, la Gm & Gf Sport International Sa, che diventa la holding del gruppo.

          Nel ’97 però fanno la loro apparizione le banche e la Giacomelli si incammina su una strada che la porterà sei anni più tardi al crac, e successivamente, all’arresto dell’intero consiglio di amministrazione, padre e figlio inclusi (mentre Gabriella è alle Maldive) per le accuse di bancarotta fraudolenta, falso in bilancio e truffa. La Compagnia finanziaria, una merchant bank milanese presieduta dal marchese Alberto Lalatta (già proprietario della Finanziaria Centro Nord, una scatola vuota che alla fine degli anni ’80 viene venduta a Giuseppe Gennari e da questo girata a Calisto Tanzi, per consentirgli di quotare Parmalat), riesce ad organizzare nel ’97 una linea di credito da 17 miliardi a favore della Giacomelli alla quale aderiscono dieci banche, capitanate dal Mediocredito Centrale (Capitalia). I Giacomelli potrebbero cercare di assestare la loro azienda, che conta già 44 negozi, 600 dipendenti e un fatturato di 180 miliardi: e invece no, con i primi debiti bancari il gruppo inizia ad avvitarsi in una spirale sempre più vertiginosa di acquisizioni e nuovi debiti, con l’immancabile corollario di bilanci truccati che alla fine risulterà fatale, accomunandone il destino a quello della Parmalat.

          L’obiettivo è raddoppiare la rete commerciale entro il 2000, fa sapere Gabriella che intanto è diventata presidente del gruppo (con il marito nel ruolo di vice) e vagheggia un futuro da “Mc Do nald’s dello sport”, con tanto di Borsa, vendite su Internet e una forte espansione all’estero. Al 2000 la Giacomelli ci arriva con risultati anche migliori, 110 negozi, 441 miliardi di fatturato, 1.500 dipendenti. Nel frattempo però anche l’indebitamento bancario sfiora i 150 miliardi, mentre i debiti a breve (300 miliardi) superano di cinque volte il patrimonio netto. A questo punto però fermarsi è impossibile, perché sono già tre anni che i conti vengono falsati ingigantendo la voce “rimanenze”: il valore delle merci in magazzino lievita più di dieci volte tra il ’96 e il 2002 (da 40 a oltre 450 miliardi) rimpolpando magicamente gli asset del gruppo, così da consentire ai Giacomelli di chiedere nuovi prestiti, comprare negozi (tutti in perdita, dall’Estonia al Portogallo), e tornare poi in banca per ulteriori affidamenti, a fronte di ricavi in crescita.

          Il 2001 è l’anno della quotazione in Borsa, una scelta obbligata perché i debiti superano i 220 miliardi e gli istituti di credito stanno per chiudere i rubinetti: dal collocamento il gruppo raccoglie quasi 200 miliardi, una liquidità che viene bruciata in appena sei mesi. Nel febbraio 2002 la Abaxbank di Fabio Arpe (gruppo Credem) corre in soccorso della famiglia, organizzando con Banca Akros (Pop. Milano) l’emissione di un bond da 100 milioni di euro che sarà sottoscritto per l’80% da risparmiatori italiani. Di questi soldi, circa 150 miliardi saranno dilapidati per comprare la Longoni Sport, azienda rivale quasi decotta, con 175 miliardi di debiti, di cui 60 con le banche (quali?); e la regia dell’operazione spetta sempre ad un istituto del Credem, Euromobiliare.

          Davanti a questo affare a perdere, il mercato sente odore di bruciato: in pochi mesi il titolo Giacomelli brucia in Borsa l’80% del suo valore, azzerando tutte le risorse incamerate con la quotazione. La resa dei conti arriverà solo nell’estate 2003, quando davanti alle istanze di fallimento avanzate dai creditori, il tribunale di Rimini concede l’amministrazione controllata. La famiglia getta la spugna e il nuovo management dà incarico alla Kpmg di controllare i bilanci. Salteranno fuori tutti i trucchi contabili che per anni erano sfuggiti ai revisori della Deloitte & Touche, per coincidenza gli stessi dei bilanci Cirio e Parmalat. Il resto è storia di queste ore, con l’intero consiglio agli arresti. Quanto a Gabriella, latitante, la Guardia di finanza ha scoperto che la signora, più volte incoronata “imprenditrice dell’anno”, gestiva 171 negozi in 9 paesi, 3 mila dipendenti e oltre 600 miliardi di fatturato, grazie ai suggerimenti di una maga, che veniva interpellata prima di ogni scelta strategica. L’ultimo consulto è avvenuto tre giorni prima del blitz delle Fiamme Gialle: “Vai in vacanza, vai”, è stato il responso. E lei è partita.

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