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La mappa degli immigrati tra lavoro e sfruttamento Sono oltre 400mila quelli registrati all'Inps
di RICCARDO DE GENNARO
ROMA - In Lombardia mungono le mucche, in Veneto e Toscana lavorano le pelli, a Brescia e Reggio Emilia stanno in fonderia; nelle Marche, in Romagna e in Piemonte cuciono abiti, raccolgono mele in Trentino, tabacco in Umbria, olive in Calabria, ma soprattutto pomodori in Campania. E ancora: servono negli alberghi e nei ristoranti della Riviera adriatica e nelle case delle famiglie ricche di Torino, Milano, Bologna, Roma. In tutta Italia, senza distinzioni, sgobbano - prevalentemente in nero - nei cantieri edili, dove la paga giornaliera sfiora le 100mila lire al Nord e non supera le 30- 35mila nel Mezzogiorno. È la geografia del lavoro dell'immigrato extracomunitario, la mappa dei territori dove gli stipendi sono da fame e gli italiani non si avventurano più. Sono loro, in Italia, i "working- poor", i lavoratori poveri, un fascia che - se si osserva il modello americano - si prevede si estenderà anche agli italiani e a livelli più qualificati. Oggi all'ultimo gradino della scala salariale ci sono i braccianti e i manovali del Mezzogiorno: qui è massima la presenza di immigrati extracomunitari che lavorano in nero, i loro salari sono largamente inferiori ai minimi contrattuali. Per una giornata di lavoro nei campi nel Casertano - 8-10 ore sotto il sole - un immigrato prende 20-25mila lire. Se lavora a cottimo la sua paga è di circa mille lire per la raccolta di una cassetta di pomodori, paga ferma a tre anni fa, a dispetto dell'inflazione. Gli "schiavi" africani del 2000 vengono pagati con il bilancino: a Lecce, nel caso delle angurie, si va dalle 18-20 lire alle 30 lire al chilo di prodotto raccolto. I più attivi riescono a mettere insieme fino a un milione di lire al mese. Ma è un lavoro stagionale, pagato a fine giornata, il vecchio caporalato che non muore mai. Ai capisquadra - i "caporali" - devono versare una percentuale del salario pari al 5-10 per cento per il lavoro di mediazione, organizzazione e trasporto dei lavoratori. Anche gli extracomunitari più "garantiti", quelli che lavorano nell'industria manifatturiera, sono spesso discriminati. Come si legge nel "Rapporto immigrazione: lavoro, sindacato, società", promosso dall'Osservatorio Ires-Cgil, che sarà presentato martedì prossimo, "frequentemente le mansioni e le condizioni a cui gli immigrati sono occupati risultano di più basso profilo e più difficili di quelle della forza lavoro locale". I salari mensili, quando si applicano i contratti, sono pertanto più bassi e vanno dal milione e 200mila lire nell'industria metalmeccanica piemontese e veneta al milione e 700mila. Capita anche che, a parità di lavoro, l'extracomunitario venga pagato meno dell'italiano. Il lavoro del gruppo di studio guidato da Enrico Pugliese, docente all'Università Federico II di Napoli e curatore del rapporto pubblicato da Ediesse, spiega perchè anche gli industriali che votano Lega Nord e An premono per avere più immigrati: permettono di abbattere sensibilmente il costo del lavoro, accettano di fare i lavori più umili, godono di una tutela sindacale - quando c'è - inferiore a quella dei colleghi italiani. "È vero che nelle fabbrica ci sono situazioni orrende di sfruttamento - dice Pugliese - ma è altrettanto vero che, al polo opposto, ci sono casi di contratti esemplari, dove si rispettano anche le differenze culturali e religiose. Poi c'è un'area intermedia dove, a seconda dell'impegno e della presenza sindacale, si registrano casi buoni e meno buoni. Ad esempio, in Emilia Romagna gli operai extracomunitari godono di condizioni normative e salariali migliori che in altre regioni". In questa regione, peraltro, nel triennio '96-' 98 i lavoratori non comunitari regolarmente occupati sono passati da 20mila a 28mila. Pugliese è ottimista: "C' è una tendenza al consolidamento della presenza di extracomunitari in regola e al riconoscimento dei loro diritti". Lo si rileva dalle iscrizioni all'Inps, che hanno raggiunto quota 390- 400mila e che rappresentano il principale riscontro dell'occupazione ufficiale e regolare dal punto di vista del rispetto delle norme previdenziali e assicurative. È un consolidamento che trova conforto anche nella progressiva convergenza tra il numero dei permessi di soggiorno per motivi di lavoro, pari a 700mila, e quello delle residenze anagrafiche. "Questo non esclude l'esistenza del lavoro nero - aggiunge Pugliese - ma è la dimostrazione che l'incidenza del lavoro non nero è andata crescendo". Quanti sono gli irregolari? Clandestini a parte, se i permessi di soggiorno sono 700mila, gli iscritti all'Inps 400mila e gli iscritti al collocamento 100mila, i lavoratori extracomunitari in nero dovrebbero essere all'incirca 200mila, "ancora molti - dice Pugliese - ma una cifra bassissima se si pensa che fino a qualche anno fa erano tutti in nero". Una prova che, nonostante le polemiche, le sanatorie hanno funzionato. "In ogni caso in Italia - conclude Pugliese - ci sono in proporzione meno extracomunitari di quanti ne contino Portogallo, Grecia e Spagna". Bossi può dormire sonni tranquilli, i neri non toglieranno il pane agli italiani. In rapporto al totale della forza lavoro, l'incidenza dei lavoratori immigrati nel '98 era del 3,26 per cento al Nord, del 4,26 al Centro e dell'1,53 per cento del Mezzogiorno, la media italiana è pari al 2,91 per cento. Ad eccezione dell'agricoltura, tutti i settori continuano ad assorbirne in misura crescente. Primi in classifica negli anni Novanta, i lavoratori provenienti dall'Est europeo, l' ultima ondata immigratoria. L' incidenza di quelli che stanno in Italia da oltre 10 anni è modestissima: l'1,4 per cento per i rumeni e l'8,3 per cento per i lavoratori che vengono dall'ex-Jugoslavia, contro il 25 per cento degli egiziani e dei filippini e quote intorno al 20 per cento per marocchini, tunisini e senegalesi, i "vecchi".
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