La sentenza della Cassazione n. 5701 del 22 marzo 2004 che esclude, dalla computabilità del compenso per lavoro straordinario, il tempo necessario al raggiungimento del luogo di lavoro per un dipendente in trasferta, si inserisce in un orientamento giurisprudenziale ormai ampiamente consolidato. Si ritiene, infatti, che il tempo che il lavoratore impiega per raggiungere il luogo di lavoro è considerato utile, ai fini della determinazione dell'orario di lavoro, solo se ciò è funzionale alla prestazione lavorativa, quale può essere considerato, per esempio, la situazione del dipendente che è obbligato a presentarsi nella sede aziendale prima di essere inviato nel luogo in cui svolgere effettivamente la prestazione. Diversamente, il tempo impiegato per raggiungere il luogo di lavoro, partendo dalla propria abitazione, non è computabile nel normale orario di lavoro e non dà, quindi, luogo all'eventuale compenso per lavoro straordinario. In altri casi, ancora, la stessa Corte ha ritenuto che, indipendentemente dalla presenza dell'elemento della trasferta, il tempo di viaggio per raggiungere il luogo di effettuazione della prestazione resta estraneo all'attività lavorativa vera e propria, tranne il caso in cui il tempo di viaggio sia connaturato alla prestazione di lavoro. Il convincimento della Corte, in questa come in tutte le altre sentenze precedenti, poggia, giustamente, sulla definizione di orario di lavoro del legislatore del 1923. Il regio decreto 15 marzo 1923 n. 692 prevedeva, infatti, una durata massima di lavoro effettivo (art. 1) dove i caratteri dell'effettività venivano precisati (art. 3) nella ´applicazione (al lavoro) assidua e continuativa'. I limiti del lavoro effettivo venivano, altresì, circoscritti con rd 10 settembre 1923 n. 1955 in base al quale, relativamente agli operai e impiegati delle aziende industriali e commerciali di qualunque natura, non si considerano lavoro effettivo: - i riposi intermedi;
- il tempo impiegato per recarsi sul posto di lavoro;
- le soste di lavoro inferiori a dieci minuti e complessivamente non superiori a due ore, comprese tra l'inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione all'operaio o all'impiegato. Tuttavia, saranno considerate nel computo del lavoro effettivo quelle soste, anche se di durata superiore a 15 minuti, che sono concesse all'operaio nei lavori molto faticosi allo scopo di rimetterlo in condizioni fisiche di riprendere il lavoroÉ
Quello che ci sembra importante sottolineare è che la richiamata sentenza, e più in generale il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, pare reggere anche alla luce della recente riforma dell'orario di lavoro di cui al decreto legislativo 8 aprile 2003 n. 66. Qui, infatti, in accoglimento della definizione comunitaria (di cui alla Direttiva 93/104/CE art. 2 pt. 1) il nostro legislatore ha definito l'orario di lavoro ´qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni'.
Nell'abbandonare il concetto e il riferimento al lavoro effettivo il dlgs 66/203 incentra la definizione dell'orario di lavoro attorno a tre elementi tra loro concorrenti: il lavoratore deve essere, innanzitutto, al lavoro (quindi fisicamente nel luogo dove poter svolgere l'attività), a disposizione del datore di lavoro e deve trovarsi nell'esercizio dell'attività o delle funzioni cui è adibito.
La nuova definizione, per quanto più elastica di quella di lavoro effettivo, sembra combaciare perfettamente con l'elaborazione giurisprudenziale che ha accompagnato la precedente legislazione. Infatti, nell'ipotesi considerata dalla sentenza in esame di lavoratore inviato in trasferta, quest'ultimo non sarebbe sul luogo di lavoro (uno dei tre requisiti) durante il suo percorso di viaggio. Allo stesso modo, anche altre fattispecie sulla cui computabilità nell'orario di lavoro la giurisprudenza si è in passato espressa, vengono risolte dalla nuova definizione. È il caso, per esempio, del cd tempo-tuta. Qui si registra una sola sentenza della Suprema corte (n. 4824/1992) dove fu detto che ´determinate frazioni del tempo trascorso in azienda dai dipendenti non implicano svolgimento di attività lavorativa, in quanto destinato a fini diversi, come la vestizione di abiti da lavoro o la fruizione di pause di riposo'.
Ritornando alla sentenza n. 5701/2004 due considerazioni fatte dai giudici. La prima è che nel caso specifico della trasferta, l'indennità corrisposta al lavoratore va, comunque, a risarcire anche il disagio psicofisico e materiale derivante dalla faticosità degli spostamenti. La seconda è che non è preclusa la possibilità di una previsione contrattuale atta a regolamentare, in termini economici, il tempo impiegato giornalmente per raggiungere la sede di lavoro durante il periodo di trasferta.
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