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Mobbing, il lavoro molesto

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22.06.2003
Mobbing, il lavoro molesto
di Giampiero Rossi
     La parola è ancora un po’ misteriosa per molti: mobbing. La definizione è inquietante: «comportamento aggressivo e di violenza psicologica attuato da colleghi di lavoro e o superiori nei confronti di un lavoratore individuato come vittima bersaglio». La realtà, per chi nè vittima, può essere un incubo. Emarginazione attraverso incarichi impropri, isolamento dai colleghi, una scrivania vuota dove si può solo leggere il giornale per tutta la giornata, vessazioni e intimidazioni nei confronti di chi si vuole allontanare, verso chi l’azienda o un dirigente ritiene ormai inutile.

    Il mobbing (dal verbo inglese to mob, traducibile in «prendere d’assalto»), in effetti, è l’altra faccia del declino del mondo del lavoro. E purtroppo è un fenomeno in crescita ma difficile da fotografare con numeri e statiche. In tutta Europa una quota tra il 4 e l’11% dei lavoratori attivi ha dichiarato di aver subito pressioni psicologiche. Con punte più elevate nei paesi del Nord, dove forse scatta la reazione al minimo accenno di vessazione, e più basse nell’area del Mediterraneo, dove sicuramente i lavoratori sono un po’ più “temprati” e sanno incassare meglio. In Italia il 4,5% degli occupati ritiene di essere stato vittima di pressioni.

    Il mobbing è un fenomeno “democratico”, perché può colpire tutti: dalla cassiera del supermercato al manager in carriera, donne e uomini, indistintamente in tutte le aree geografiche. Vi è una leggera prevalenza femminile, tra le vittime, ma questo anche perché i maschi sembrano avere più pudore nel lamentarsi o nel denunciare i casi che li coinvolgono. In generale si direbbe che nelle aziende più grandi, dove l'organizzazione più burocratizzata offre spazi di manovra maggiori, si verifichino più casi che in quelle piccole.
    Ma il mobbing non conosce confini. «Perché se da un lato esistono situazioni in cui certi atteggiamenti colpiscono una persona che l’azienda o alcune persone all’interno della struttura manageriale vogliono eliminare - sottolinea Luisa Benedettini, responsabile del dipartimento Salute e sicurezza della Cgil nazionale - dall’altro è anche vero che non di rado il mobbing è “gratuito”, senza motivazioni e finalità: si comincia con banali sfottò all’indirizzo di un collega, che prolungati nel tempo ed allargati magari a un intero reparto diventano la leva per mettere in condizioni di debolezza, disagio e marginalità quella persona».

    E quando poi la violenza verbale si estende anche al merito lavorativo può iniziare il dramma. Che si manifesta attraverso una vasta gamma di sintomi e malattie di natura psicologica, fortunatamente da qualche tempo riconosciuti anche nei tribunali grazie ad accurate perizie psichiatriche. «Si tratta di vessazioni talvolta molto raffinate, difficili da dimostrare - spiega l’avvocato Annalisa Rosiello, che segue gli aspetti giudiziari di molti casi di mobbing - si va dagli ordini particolarmente complicati e poi revocati, oppure illegittimi, alle aggresioni verbali continuate».
    E per chi trova la forza di alzare la testa e ingaggiare una battaglia per la riaffermazione dei propri diritti e della propria dignità, ecco allora che davanti al giudice (ma anche per una buona soluzione extragiudiziale) diventano decisive le testimonianze, le email che contengono ordini o messaggi che possono dimostrare il tenore dei rapporti interni, e poi le perizie che dimostrino il danno biologico. «Spesso si tratta di una malattia temporanea, che rientra una volta sanata la situazione che l’ha generata - precisa l’avvocato Rosiello - che si aggiunge ai danni patrimoniali, morali e anche esistenziali, come hanno affermato alcune sentenze, oppure anche al danno per le mancate opportunità professionali, nel caso di chi, per esempio, viene lasciato in un angolo senza fare niente per lungo tempo». Un capitolo a parte, in questa galleria degli orrori, meriterebbe lo squallido campionario di violenze psicologiche cui sono ancora esposti tanti lavoratori omosessuali o transessuali: «Dalle battutacce ininterrotte ai bagni chiusi a chiave», sintetizza Gigliola Tognollo dell’ufficio “Nuovi diritti” della Cgil.

    Corrado Mandreoli dirige l’ufficio politiche sociali della Camera del lavoro di Milano da una decina d’anni, dove ogni giorno vengono individuati almeno due casi di mobbing. E racconta quanto si difficile, a volte, aiutare una persona «massacrata» sul lavoro, «perché spesso si innesca un processo di autoemarginazione rispetto agli stessi colleghi: un mobbizzato diventa ben presto una persona difficile da gestire perché può apparire un paranoico, uno che soffre di manie di persecuzione e può succedere che gli stessi delegati sindacali debbano essere aiutati a cogliere i termini reali della situazione».

    Per questo, spiega ancora Mandreoli, «oltre ad avviare le pratiche legali e a compiere i passi sindacali del caso, per noi è importante prendere in carico le persone, che quasi sempre si trascinano situazione psicologiche delicatissime, bisogna convincerli dell’utilità di rivolgersi ai servizi di salute mentale». Ma perché ciò accada servono strutture adeguate. «Un primo importante aiuto a una persona vittima di mobbing potrebbero e dovrebbero offrirlo proprio le Asl o i medici di base - aggiunge Luisa Benedettini - a Napoli, Milano, Roma e Torino ci sono strutture cliniche che stanno maturando esperienze in proposito».
    Da parte sua il sindacato lavora sul territorio, con strutture come quella milanese diffuse a macchia di leopardo in alcune città, e punta alla prevenzione: «Attraverso la formazione degli stessi quadri sindacali - spiega la responsabile del Dipartimento Salute e sicurezza Cgil - per via contrattuale e infine, ma non è una priorità, in parlamento dove giacciono ben dodici proposte di legge sul mobbing. Cioè a proposito di un fenomeno che è l’esatto opposto della cosiddetta valorizzazione delle risorse umane».


    il direttore
    Promosso responsabile-vendite
    e la vita rovinata dall’azienda
    Il nome è di fantasia, ma la vicenda è drammaticamente vera. Filippo lavora come quadro in una famosa azienda della grande distribuzione nel ruolo di direttore di magazzino con un ottimo stipendio. Ma dopo un po’ viene “scaricato”: arriva la nomina a direttore delle vendite ma nessuno gli parla più, la sua scrivania è sempre vuota, le decisioni vengono prese altrove e tutti lo sanno bene. «Vedi se trovi qualcosa
    da fare...», è la risposta alle sue domande di chiarimenti circa il proprio ruolo. Oppure gli promettono future sistemazioni,
    perennemente rinviate a un futuro indefinito. Lui cerca di pazientare,
    ma dopo un anno senza fare niente, del tutto isolato da colleghi e azienda si ritrova con un sistema nervoso alterato.
    A casa non parla, si vergogna a confidare il suo disagio alla moglie.
    Nel frattempo, però, Filippo si rivolge, ormai molto provato sotto il profilo dei disturbi dell’umore, allo sportello antimobbing della Cgil della sua città. Racconta la sua storia e, assistito dal sindacato e da un avvocato, avvia la vertenza con l’azienda, per il demansionamento,
    per l a “deprofessionalizzazione” e per il danno biologico documentato con una perizia psichiatrica. La risposta non si fa
    attendere: gli arriva la lettera di licenziamento, con la giustificazione che per lui non c’è più una collocazione (in un azienda con 30mila dipendenti...). Il passaggio successivo, da parte dei suoi datori di lavoro, è l’offerta di un bel po’ di soldi per chiudere la faccenda senza troppo rumore, ma lui rifiuta perché quel che gli sta rovinando la vita è la sua improvvisa stroncatura professionale, l’umiliazione prolungata. I soldi, in fin dei conti, li aveva anche senza fare niente... Ma ora, nel giro di un paio di mesi, Filippo, si ritroverà davanti
    a un giudice, al quale chiederà la restituzione della sua dignità.

    la cassiera
    «Cara Lucia, ci stai o no?»
    Trasferito il capo-molestatore
    Lucia è una bella trentenne che lavora come cassiera in un supermercato. Il suo calvario comincia il giorno in cui il direttore le fa una esplicita avance sessuale. Lei rifiuta, ma da quel momento per lei il lavoro diventa un incubo: le vengono assegnati i turni più disagevoli
    e comunque sempre diversi da quelli che lei vorrebbe, le viene riservata sempre la cassa sotto la postazione del direttore, che significa per lei trovarsi costantemente sotto il suo sguardo, frequenti
    sono anche i richiami per qualsiasi motivo. A casa lei non dice niente,
    anche perché il marito è un tipo particolarmente geloso e lei teme le
    sue possibili reazioni.
    Così Lucia comincia a perdere progressivamente il sonno, sopraggiungono anche attacchi di panico e un giorno, quando proprio non ce la fa più, si rivolge al Cps, cioè al servizio di assistenza psico-sociale territoriale, quando ormai presenta tutti i sintomi è praticamente in stato catatonico. Parlando con lei, gli operatori si rendono conto che l’origine di tutti i suoi disturbi psicologici è proprio il lavoro e per questo la indirizzano al sindacato. «Altrimenti
    si licenzi, signora», le suggeriscono. Ma è proprio in quel momento
    che per lei si profila il senso della sconfitta: «Me ne devo andare io e quel vigliacco del direttore l’avrà vinta?», è il pensiero che la ossessiona. Ma una volta sostenuta dallo sportello antimobbing della Cgil riesce a capovolgere la situazione: è infatti sufficiente un primo contatto con i vertici dell’azienda per sbloccare tutto.
    Il direttore-molestatore viene immediatamente trasferito,
    Lucia può tornare al suo lavoro «e adesso sta benissimo», assicurano i sindacalisti che hanno seguito la sua vicenda.

    la commessa
    Nel negozio di giocattoli
    i ricatti non sono innocenti
    Giovane e carina, Laura lavora in un negozio di articoli per bambini
    come commessa. Tutto sembra procedere tranquillamente, fino al giorno in cui la direttrice del negozio comincia a mostrare attenzioni
    particolari sempre crescenti nei confronti della ragazza.
    Laura si barcamena come può, elude le conversazioni delicate, ma
    un giorno si trova di fronte auna esplicita e insistita proposta della direttrice: «Perché non vieni a vivere con me?».
    La giovane accantona la diplomazia e risponde fermamente di no, spiega che le attenzioni della donna non la interessano. Ma per lei quello è l’inizio della fine.
    Inizia il tormento che ha come teatro proprio il luogo di lavoro, dove
    è costretta quotidianamente a dividere lunghe ore in uno spazio ristretto a stretto contatto con la direttrice, che mette in atto una persecuzione continua: ogni occasione diventa improvvisamente
    buona per un richiamo, Laura viene allontanata ogni volta
    che - come aveva sempre fatto prima - si avvicina a un cliente per assisterlo. Per lei sembrano ormai esserci soltanto incarichi di poco conto: «Metti a posto quelle scatole», «sposta quelle roba», «cos’hai combinato? Rimetti tutto dov’era prima», sono gli ordini secchi che le vengono impartiti senza tregua.
    E dopo qualche mese la ragazza si ritrova distrutta nel sistema nervoso, «sta perdendo la salute», riferisce chi ha raccolto il suo racconto tra le lacrime. Per la sua salute la soluzione migliore sarebbe quella di lasciare quel posto di lavoro. Oppure di decidersi ad avviare la vertenza legale per mobbing. Ma per il momento non riesce
    ancora a uscire dall’empasse...




   

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