No all’immigrazione «usa e getta»
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 No all’immigrazione «usa e getta» di Innocenzo Cipolletta
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La proposta della Lega di vincolare a un contratto di lavoro a termine il permesso di soggiorno per gli stranieri, in modo da prevederne il rimpatrio in caso di cessazione del rapporto di lavoro, è la logica conseguenza delle argomentazioni di chi sostiene che l’immigrazione deriva essenzialmente da un fenomeno di attrazione da parte dell’Italia, perché viene a colmare il bisogno di braccia di lavoro causato dal nostro calo demografico. In questo senso si è spesso parlato di "immigrazione come risorsa". Questa impostazione è parziale, perché sottovaluta le ragioni profonde dei flussi migratori e i loro riflessi sullo sviluppo economico. Le migrazioni di massa si spiegano essenzialmente a causa della spinta ad abbandonare situazioni di vita insostenibili nei Paesi d’origine, e possono realizzarsi grazie allo sviluppo dei mezzi di comunicazione, che hanno accresciuto nel tempo la possibilità di trasmigrare. Chi lascia la propria patria sceglie il Paese di destinazione sulla base di diversi elementi: facilità di accesso, livello di reddito, vicinanza linguistica e/o culturale, bisogno di manodopera, esistenza di nuclei di connazionali sul territorio, e così via. È quindi ovvio che l’effetto attrazione esiste. Ma esso è decisamente secondario rispetto all’effetto espulsione dal Paese d’origine: se le condizioni di vita vi fossero migliori, i flussi migratori sarebbero limitati. In Italia invece — forse anche con la lodevole intenzione di indurre i più riottosi ad accettare l’afflusso di emigranti — abbondano le analisi sui nostri fabbisogni di manodopera, per colmare i vuoti creati dalla denatalità degli italiani. Si è arrivati persino a sostenere che gli immigrati salveranno il nostro sistema pensionistico, pagando i contributi grazie ai quali potremo versare le pensioni di oggi e di domani. Queste argomentazioni si basano sulla nostra necessità di "importare lavoro". Ovviamente i commentatori più sensibili ricordano che non si importano solo braccia, ma anche persone: sicché l’integrazione diventa il corollario necessario di questo processo, nato comunque dalle nostre esigenze. Mi sono spesso sforzato di ricordare che questa impostazione è parziale, e porterebbe a soluzioni errate e incivili. Infatti, se si parte dal principio che dobbiamo accettare l’immigrazione per un nostro bisogno egoistico, la conseguenza è che gli immigrati devono essere allontanati quando non servono più. Questa è proprio l’essenza della proposta della Lega, che sposa il principio del "bisogno di manodopera" e vincola pertanto il permesso di soggiorno a tale esigenza a termine, eventualmente rinnovabile, mai però definitiva. Giustamente Tito Boeri, sul Sole-24 Ore del 4 luglio, segnala la pericolosità e la non praticabilità di questa proposta e si sforza di dimostrare che essa è nettamente diversa dalla sua proposta di "immigrazione temporanea contrattata". Questo è vero. Ma anche tale proposta parte dal presupposto assai parziale che l’immigrazione sia causata essenzialmente da un nostro bisogno. Ma non è così. Il nostro bisogno esiste solo perché nel mondo (e ai nostri confini) esiste una gran massa di popolazione costretta ad emigrare. Se non ci fosse questa disponibilità, il mercato risolverebbe in altri modi le sue esigenze. Poiché noi, tuttavia, facciamo parte di questo mondo, è giusto che forniamo una risposta a questa esigenza di emigrare, partendo proprio dai nostri bisogni, che sono quelli di avere una maggiore manodopera, come molte imprese segnalano. Ma, se questo è vero, le politiche per l’immigrazione non devono essere tanto quelle delle quote calcolate sulla base di esigenze contingenti e specifiche, né quelle di contratti speciali per i soli immigrati, fatti in modo che costoro se ne vadano al più presto quando non servono più. Le politiche più urgenti sono quelle che favoriscono un allargamento della capacità di accoglienza, in modo da ampliare l’area dell’immigrazione legale e ridurre quella dell’illegalità. Fra queste politiche c’è anche quella della casa, ed è significativo che gli imprenditori delle aree ove maggiore è la richiesta di manodopera si siano anche impegnati a trovare delle soluzioni. Le associazioni del Veneto, attraverso la loro Federazione regionale, hanno proposto di favorire la costruzione di abitazioni, utilizzando anche spazi già produttivi e ora in disuso. Serve a questo fine una maggiore flessibilità nella revisione dei piani regolatori, ma anche nell’uso della formazione per favorire reali processi di integrazione. Serve infine un corpo di diritti di cittadinanza che consenta agli immigrati di sentirsi parte della società, accettando di rispettarne le regole. Se le migrazioni rispondono prevalentemente ai bisogni di chi si sente costretto ad abbandonare la propria terra, è anche vero che esse sono una potente molla di sviluppo: esse allentano la pressione demografica dove le risorse sono scarse e vengono a colmare vuoti ove vi sono risorse produttive. A loro volta, le rimesse degli emigrati fanno affluire risorse finanziarie preziose nei Paesi di provenienza. Come la storia ci ha insegnato, tutto ciò avviene attraverso difficoltà e ingiustizie, dolori e fatiche: è quindi necessario che i Paesi sviluppati si adoperino per ridurre i riflessi negativi, e per favorire lo sviluppo nei Paesi d’origine. Ma opporsi a questi movimenti è sbagliato, perché significa condannare intere popolazioni alla disperazione e frenare la crescita civile ed economica mondiale. Sabato 07 Luglio 2001
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