|
 |
 |
Bankitalia: il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto più che in Germania e in Francia
 Produttività, Italia in affanno Nel settore dei servizi la performance peggiore - Eurostat, difficile l’armonizzazione dei dati nazionali Lina Palmerini
|
ROMA È la produttività a spingere in basso l’Italia nei confronti internazionali. Una spia rossa che continua a restare accesa, nonostante i miglioramenti degli ultimi anni e che ci mette in "riserva" sul fronte della competitività internazionale. In particolare è un numero a descrivere la fatica tutta italiana, quello che indica il costo del lavoro per unità di prodotto, cioè il tasso di produttività di un Paese. È proprio questo il nostro nervo scoperto, come si può rilevare dall’ultimo Bollettino della Banca d’Italia: nella "classifica" di Via Nazionale, elaborata su dati Eurostat, si può misurare tutta la distanza del nostro Paese rispetto a Francia e Germania. In numeri, il costo del lavoro per unità di prodotto (clup) è diminuito nel 2000 dello 0,9% in Germania, aumentato solo dello 0,3% in Francia, cresciuto dell’1,5% in Italia e, per l’anno in corso la nota di aggiornamento della Relazione previsionale del Tesoro, lo vede in aumento dell’1,7 per cento. Passi in avanti ci sono stati, grazie alla moderazione salariale e grazie anche ai tagli del costo del lavoro fatti dal Governo in questi ultimi anni, ma il recupero è ancora in salita: nel ’99 l’incremento del clup in Italia è stato dell’1,8% contro lo 0,8% della Francia e lo 0,4% della Germania. Insomma, non è affatto scontato, nonostante alcuni fattori positivi, che si recuperi terreno. La dimostrazione è che nel 2000 a fronte del decremento tedesco, il clup italiano è aumentato ed è questo il dato che più preoccupa gli industriali italiani. A ricordarlo è stato anche lunedì scorso a Milano, Andrea Pininfarina, presidente di Federmeccanica, che ha sottolineato come il vero indicatore per misurare la competitività sia proprio il costo del lavoro per unità prodotta. Insomma, è là che il Paese deve concentrare gli sforzi e rimettersi in pari con i competitori. Una più esile crescita economica ma anche un forte difetto di competitività dell’intero sistema pesano ancora su quest’indicatore e sulle sue dinamiche, che mettono fuori gioco la nostra capacità concorrenziale. E anche se sul fronte salariale l’andamento italiano si è andato allineando con quello europeo, il problema resta la mina dei rinnovi contrattuali, pubblici e privati, e anche il recupero di quel gap di sistema accumulato negli anni, che ancora non ci scrolliamo di dosso. Perdiamo competitività, quindi, e soprattutto nei settori specializzati nell’export che sono di tipo tradizionale. È il settore dei servizi a dare le peggiori performance: nel 2000, anche se il clup è salito del 2,4% contro il 2,5% del ’99, si mantiene la distanza con Germania che si posiziona a -0,6% e con la Francia all’1,6 per cento. L’industria offre invece la "prova" migliore passando da un costo dell’1,6% a -0,7% ma il risultato sbiadisce molto in confronto al -2,3% dei concorrenti tedeschi e il -1,2% dei francesi. Ma sulla scia degli ultimi dati Eurostat che indicano l’Italia come il Paese dove si è registrato, nel quarto trimestre 2000, il più basso incremento del costo lavoro (1% contro 3,5% nell’Ue) è ieri intervenuto il segretario generale Cgil, Sergio Cofferati: «La diminuzione del costo del lavoro registrata è oggettivamente un impulso a rinnovare rapidamente e positivamente i contratti. La piattaforma dei sindacati prevede non soltanto l’adattamento dei salari alla crescita dell’inflazione, ma anche un riconoscimento per i lavoratori quando si registrino incrementi della produttività. Il momento positivo dell’economia deve rappresentare un’occasione per risolvere i problemi dei lavoratori». Ma sui dati Eurostat non c’è chiarezza e soprattutto affidabilità. Il punto è che l’organismo europeo mette insieme e armonizza statistiche offerte dai rispettivi Paesi europei e le rilevazioni Istat — come osservano anche in Confindustria — non hanno un grado di confrontabilità elevato. L’Istat, infatti, fornisce all’Europa dati relativi solo alle imprese con oltre 500 addetti, con evidenti e conseguenti "distorsioni" della realtà produttiva italiana. Inoltre, i dati italiani riguardano le retribuzioni medie per dipendente mentre quelle degli altri Paesi coprono le retribuzioni orarie: questo vuol dire che i numeri italiani sono influenzati dalla variazione delle giornate e delle ore effettivamente lavorate. Da tempo, poi, l’Istat ha in cantiere una nuova indagine sulle retribuzioni e sul costo del lavoro che dovrebbe superare i problemi di armonizzazione e fornire informazioni più tempestive e attendibili sia alla Commissione che alla Banca centrale europea. Un cantiere che però non si è ancora chiuso. Mercoledì 11 Aprile 2001
|
 |
|
|
|
|
 |
 |