Giovedì 28 Dicembre 2000 commenti e inchieste Questi giovani sempre più mimetizzati di Ilvo Diamanti
Cosa significa essere giovani in Italia? È un quesito ricorrente fra gli studiosi. Ma anche tra la gente comune. Oggi molto più di qualche tempo addietro, quando la distanza fra le generazioni era netta, le distinzioni precise. Quando i rapporti fra genitori e figli apparivano chiari. Quando essere giovani non solo aveva un significato biologico, psicologico e sociologico preciso. Ma manteneva un’evidenza indiscutibile. Chi era giovane si riconosceva chiaramente. Dovunque. Per i tratti fisici, immaturi o in via di maturazione. Poi per l’abbigliamento. Il portamento. E, se comunicava, per linguaggio. Ancora: per gusti estetici, musicali. Li vedevi e li riconoscevi. Inoltre, facevano di tutto per rivelarsi. I giovani erano sempre i più irrequieti, insoddisfatti. I più conflittuali. Protagonisti di movimenti capaci di scuotere la società. Essi stessi "mezzi di comunicazione" del cambiamento. Ma anche quando non scendevano in piazza, quando non contestavano genitori e maestri, anche quando e dove apparivano socialmente integrati, si facevano notare. Perché, in famiglia oppure nel lavoro, mordevano il freno. E si agitavano, per spezzare i vincoli imposti dal sistema. Erano degli innovatori.
Oggi, chiaramente, molto è cambiato. I grandi movimenti sono finiti da tempo. Comunque, non li promuovono e non li sollecitano più i giovani. In Italia, almeno. In casa non si baruffa più. E si parla meno di un tempo. Anche se il tempo ci sarebbe. Quanto all’abbigliamento, ai gusti musicali, al linguaggio, le differenze di generazione sembrano sempre più sottili. In parte perché i genitori non intendono invecchiare e mutuano in fretta gli stili dei figli. In parte perché i figli affidano sempre più la loro voglia di distinzione a ornamenti individuali (i tattoos, il piercing, o il casual soggettivo), non a capi o a stili "collettivi". L’eskimo, i capelli lunghi, la mini, la testa skin. Nulla di tutto ciò, oggi, taglia fra generazioni. Anche perché non c’è stile che possa inibire i genitori. Non c’è moda che gli adulti non siano disposti a captare e a interpretare. Conseguenze di trasformazioni profonde che hanno ridisegnato, in tempi piuttosto rapidi, il livello di vita, la cultura, i modelli demografici e il sistema delle comunicazioni.
Oggi, nel nostro Paese, i giovani sono sempre meno e gli anziani sempre più numerosi; le scelte di "indipendenza" si dilazionano sempre più; di pari passo con la permanenza scolastica; per contro l’instabilità dei riferimenti sociali e di valore si dilata. La coesistenza e la coabitazione fra genitori e figli, sotto lo stesso tetto, tende a protrarsi. I media, infine, accelerano i processi di imitazione e di omologazione intergenerazionale nei modelli culturali e di valore. Il tempo, in altri termini, non ha più lo stesso potere distintivo di una volta.
Per questo è difficile non solo per i genitori, per la gente comune, capire cosa significhi essere giovani oggi. Ma anche per gli specialisti. Per gli osservatori, per gli opinionisti. Per gli studiosi. Lo rivelano con chiarezza le ricerche più importanti sull’argomento. Come quella dello Iard, che, da quasi vent’anni, conduce un’indagine ampia e accurata, con cadenza triennale, proprio a questo fine: seguire e spiegare la condizione dei giovani. Tanto che i rapporti dello Iard sulla gioventù (diretti da sempre da Alessandro Cavalli e Antonio de Lillo, affiancati, nelle due ultime edizioni da Carlo Buzzi) costituiscono il riferimento obbligato per ricostruire la mappa socioculturale delle nuove generazioni. Tuttavia, l’incertezza nella definizione e nella comprensione del tema, si riflette anche nel lavoro di questo istituto. Come si coglie dai risultati dell’ultima ricerca Iard, la quinta, condotta nella primavera del 2000 e presentata alcune settimane fa. Lo si desume, prima ancora che dai dati e dalle interpretazioni, dalla stessa definizione del campione. Dal criterio adottato per delimitare il campo dell’indagine, necessariamente connesso all’età.
Nelle prime due ricerche, condotte negli anni 80, i giovani "studiati" erano compresi fra i 15 e i 24 anni. Poi negli anni 90 l’ambito della ricerca si allarga e pone sotto osservazione coloro cahe hanno fino a 29 anni. Nella ricerca del 2000, infine, il limite del campione si sposta ancora in avanti. E arriva a 34 anni. Dall’80 a oggi, quindi, la giovinezza continua ad allungarsi. Da 25 a 34 anni. Sino a "sfondare" i confini dell’età adulta. Al punto che nello stesso campione potrebbero convivere genitori e figli. Secondo le leggi biologiche. Ma certamente non secondo le pratiche reali di questa generazione. Visto che fino a 24 solo il 4% dei giovani dichiara di avere figli.
Mentre nella fascia di giovani compresi fra 25 e 29 anni coloro che hanno figli salgono al 12 per cento. Se ci soffermiamo sui giovani fra 25 e 29 anni, inoltre, si può osservare che il 76% di essi non si è ancora sposato né convive con un(a) compagno(a), il 70% abita ancora con i genitori, il 44% non è ancora inserito nel mondo del lavoro, il 30% afferma di essere ancora inserito nel circuito formativo. In altri termini: le tappe che tradizionalmente accompagnano il passaggio dalla gioventù alla società adulta, alla soglia dei trent’anni risultano ancora insuperate da quote molto ampie, talora maggioritarie, di giovani. Se si considera il superamento di tre delle cinque "tappe" indicate un indicatore attendibile del passaggio alla vita adulta, secondo le stime dello Iard, occorre rilevare come questo processo risulti compiuto praticamente da nessuno fino a 18 anni, da circa il 2% tra coloro che hanno fra 18 e 20 anni, dal 6% di coloro che hanno fra 21 e 24 anni dal 27% di coloro che hanno fra 25 e 29 anni. Tre individui su quattro a trent’anni sono, di conseguenza, ancora "giovani". E se il quadro cambia sensibilmente, negli anni successivi, non per questo si rovescia del tutto.
Visto che la "giovinezza", intesa come limitato grado di autonomia e responsabilità personale, riguarda ancora il 35% di coloro che hanno fra 30 e 34 anni. Una gioventù che si proietta come un’ombra sulla biografia individuale, sul ciclo di vita delle persone. E si spinge sempre più in là. Frutto, in parte, della costrizione, degli eventi esterni. Dell’incertezza e della flessibilità del mercato del lavoro, della scarsa disponibilità abitativa, del costo della vita. Conseguenza, in parte, della complicità dei genitori e, in generale, degli adulti. Che preferiscono mantenere a lungo la presenza dei loro pochi figli in casa. Per paura della solitudine. Per apprensione. E, involontariamente, inconsapevolmente, per accentuare e protrarre il loro controllo sui giovani. Sino a farli invecchiare precocemente. In parte, però, questa crescente stagione di dipendenza relativa dei giovani è prodotto di scelta consapevole. Il 40% di coloro che vivono con i genitori svolgono un’attività lavorativa e dispongono di un reddito che consentirebbe loro (per esplicita ammissione degli intervistati) di rendersi indipendenti dal punto di vista dell’abitazione. Eppure non lo fanno. Preferiscono allungare ulteriormente la transizione verso l’età adulta. Per ragioni di opportunità. Per affetto. Per costrizione. Per le resistenze dei genitori. Per una certa angoscia di fronte alla linea d’ombra che li separa dalla vita autonoma. Dal definitivo "salto" nella vita adulta.
Sul mitico terzo millennio si affaccia, quindi, una generazione, sempre più affollata di giovani-adulti e di adulti-giovani. Di anziani che non si rassegnano a invecchiare. È come se il mito di Faust si avverasse, costringendoci tutti a una giovinezza sempre più lunga. Ma sempre meno "romantica". Sempre meno capace di produrre mutamenti visibili. Fratture. Visti i risultati della ricerca Iard, che la descrivono come un’età duttile, mimetica, ripiegata sul presente. Una gioventù senza gloria, che, nel suo rapido dilatarsi, manifesta, inconfondibili, i segni di una società sempre più vecchia.
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