12/7/2004 ore: 11:09

Se quaranta ore vi sembrano di nuovo poche

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12 Luglio 2004

LAVORO e qualità della vita
Dopo l’accordo strappato dalla Siemens
ai metalmeccanici della Ig Metall:
rinuncia a cercare nuove localizzazioni
in cambio di un aumento di prestazioni

Ovviamente è prevista la contropartita
di un adeguamento salariale
Un modello valido per tutti?

Pezzotta risponde: improponibile da noi
Se quaranta ore vi sembrano
di nuovo poche


Giampiero Rossi

MILANO C’era una volta, neanche tanto tempo fa, un slogan che coniugava solidarietà e qualità della vita. Diceva “lavorare meno, lavorare tutti” e aveva trovato una rapida traduzione (soprattutto pratica) in francese e in tedesco. Adesso, segno dei tempi, proprio dalla Germania e dalla Francia arriva una parola d’ordine decisamente diversa e foriera di inquietudini da globalizzazione: “lavorare di più, per salvare il proprio lavoro”.

Potrebbe essere questa la sostanziale sintesi dell’accordo che la Siemens, la più grande multinazionale europea (170.000 dipendenti nella sola madrepatria), è riuscita a strappare alla Ig Metall, cioè il sindacato dei metalmeccanici tedeschi, una delle più forti organizzazioni dei lavoratori del vecchio continente. Che, pur tra lacerazioni interne, aveva dato ospitalità anche in terra di Germania alle 35 ore di lavoro settimanali, già sperimentate in Francia dove il ministro dell’Economia Sarkozy ha appena annunciato che è arivato il momento per i francesi di lavorare di più. Anche se è disponibile, bontà sua, a rivedere anche la poltica salariale: non si può lavorare di più e prendere gli stessi soldi.


Cosa sta sucedendo successo? In breve, la Siemens ha rinunciato a un piano di delocalizzazione in cambio di un allungamento dell'orario di lavoro per gli addetti alla produzione nei siti di Bocholt (telefoni cordless) e Kampf-Lintfort (portatili). In marzo l’azienda aveva annunciato di voler spostare in Ungheria 2.000 dei 4.500 posti, a causa di «costi non competitivi a livello internazionale». Perno dell'intesa è il prolungamento dell'orario nei due impianti a un po’ meno di 40 ore la settimana rispetto alle attuali 35, per un totale di 1.760 ore all’anno. Inoltre, i bonus di Natale e delle vacanze estive saranno sostituiti da un bonus annuale legato agli utili. L'accordo, entrato in vigore all'inizio di luglio, è valido per due anni e solo per i due impianti coinvolti, per gli altri restano in vigore le 35 ore, anche se Siemens spiega che intende far valere «lo stesso orientamento di base verso una maggiore flessibilità».


Un baratto, dunque: più lavoro in cambio del mantenimento dei posti di lavoro. «Abbiamo dovuto farlo per salvare 4.000 posti di lavoro - ha spiegato il leader della Ig Metall, Jurgen Petersen - ma resterà un caso isolato». Ma a quanto pare, in tutta la Germania sarebbero già almeno un centinaio le aziende pronte a mettere sul tavolo delle trattative sindacali l’allungamento della settimana lavorativa, a partire dalla Philips. E non a caso, dalle colonne del settimanale Der Spiegel, il presidente degli industriali metalmeccanici tedeschi, Martin Kannegiesser lancia un messaggio poetico ma chiarissimo: «Ogni ruscello che tracima si cerca un nuovo letto». In tempi di globalizzazione e di delocalizzazioni senza freni, il caso Siemens può diventare un precedente che annuncia un’inversione di tendenza in tutta Europa e, quindi, anche in Italia? «Non vi è dubbio che c'è in Europa un clima di attacco alle conquiste sulla politica degli orari degli ultimi venti anni - osserva Carla Cantone, segretaria confederale della Cgil - vale per tutti quei paesi che hanno affrontato il tempo di lavoro coniugando l'orario di lavoro collettivo e individuale alle condizioni di lavoro, all'organizzazione del lavoro, ai carichi, ai turni avvicendati o a ciclo continuo, al lavoro notturno e domenicale». Ma pur prendendo atto di una controtendenza a livello continentale sugli orari di lavoro, il principale sindacato italiano dice un chiaro no al modello Siemens: «La Francia propone le 35 ore e poi ci rinuncia, l'Italia utilizza la legge 66 che ha recepito la direttiva europea sugli orari, per scardinare le regole contrattuali contenute nei contratti nazionali - ricorda Carla Cantone - ci hanno chiesto la deroga alle 11 ore di riposo minimo consentito e l'estensione da 4 mesi a 12 per il periodo di calcolo dell'orario massimo settimanale di 48 ore compreso lo straordinario. Per tutte queste ragioni, la partita degli orari deve ritornare ad essere materia di contrattazione nelle aziende, per intervenire sull'organizzazione del Lavoro e sulle condizioni di lavoro. La contrattazione decentrata sarà un banco di prova e un terreno dal quale ripartire per respingere soluzioni non condivisibili sulle politiche degli orari. Ma soluzioni come l'accordo Siemens non possono, per noi essere praticabili». Lo ha pensa anche il segretario generale delal Cisl, Savino Pezzotta: «Anche in Italia si sono fatti acccordi specifici per salvare le aziende - ha spiegato all’indomani dell’intesa tedesca - ma da noi il modello Siemens non è riproducibile perché le riduzioni d’orario sono state molto inferiori rispetto alla Germania». E anche la Uil si è subito posta su questa linea.


In realtà, per quarto riguarda l’Italia, più che allungare gli orari alle aziende interessa una maggiore flessibilità nello sfruttamento degli impianti. Di qui l’esigenza di organizzare turni di lavoro in grado di assecondare le necessità produttive. Sono stati così sperimentate formule come il 6x6 (cioè 6 ore di lavoro al giorno per s giorni lavorativi), 8x5, 7x6, fino al 10x4, le 8 ore nell'arco delle 16. Sono arrivati anche il calendario annuo e la Banca delle ore, l'aumento delle ferie e l'utilizzo delle festività per ridurre effettivamente l'orario di lavoro: il tutto recepito negli istituti contrattuali e negli accordi aziendali. Insomma, la letteratura italiana in materia di orario di lavoro è ampia e articolata. «Un esempio intelligente di utilizzo della politica degli orari e legato ai contratti di solidarietà dove il motto era e rimane: "lavorare meno per lavorare tutti", distribuendo la produzione per evitare i licenziamenti - ricorda ancora Carla Cantone - ma ciò che è avvenuto alla Siemens in Germania è ben altro, alla faccia della competitività di qualità. Continuano a lavorare tutti di più a salario ridotto. Se la minaccia è quella di delocalizzare la produzione nei paesi dell'Europa a basso costo, e dove le relazioni sindacali sono quasi inesistenti, c'è una ragione in più per non accettare il ricatto. Infatti la crisi e il declino riguarda tutta l'Europa e questo andrebbe affrontato con politiche di coesione sociale a partire dai diritti dei lavoratori per arrivare all'innovazione, alla qualità, a regole per le imprese che delocalizzano».


La stessa Siemens, tra l’altro, è presente anche nel nostro paese, a Cassina de’ Pecchi, alle porte di Milano, dove circa 120 addetti producono piastre per la telefonia mobile: «Di fronte alla necessità di aumentare la produttività noi abbiamo detto sì a un aumento delle ore settimanali di attività degli impianti - spiega il segretario della Fiom milanese, Maurizio Zipponi - in cambio però di una riduzione dei disagi complessivi dei lavoratori. Introducendo quindi il sabato lavorativo abbiamo ritenuto fosse indispensabile anche adeguare gli organici per consentire una rotazione dei lavoratori sui turni». Il che significa soldi in più nonostante qualche ora in meno. Ma forse è meglio che i lavoratori della Siemens di Milano evitino di farlo sapere ai colleghi tedeschi.



 
     

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