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Relazione F. Martini XIII Congresso FILCAMS CGIL, 19/04/2010
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XIII Congresso Nazionale Filcams Cgil
Riccione, 19 – 21 aprile 2010
Relazione Introduttiva
Franco MARTINI
Segretario Generale
Franco MARTINI
Segretario Generale
Care compagne e cari compagni,
vorrei, innanzitutto, rivolgere ai nostri gentili ospiti, al Sindaco del Comune di Riccione, alle delegazioni dei sindacati stranieri, a tutti voi, compagne e compagni delegati ed invitati, il saluto caloroso e fraterno della Segreteria Nazionale Filcams.
Un saluto affettuoso anche ai compagni che per ragioni di salute non sono presenti qui fra noi, Carmelo Caravella, Manlio Mazziotta, ai quali rivolgo l’abbraccio affettuoso di tutto il congresso e l’augurio di pronta guarigione.
Con questo XIII Congresso Nazionale, si conclude nella nostra categoria il percorso congressuale avviato quattro mesi fa e ci prepariamo a portare il nostro contributo al Congresso che la Cgil svolgerà a Rimini, all’inizio del prossimo mese.
Il mio compito non è riproporre le ragioni che hanno caratterizzato, fin dal suo inizio, il dibattito congressuale, dai motivi che hanno portato alla presentazione dei due documenti, all’esito conclusivo delle assemblee congressuali di base. Esse sono abbondantemente note, essendo state oggetto di un lungo confronto, il cui svolgimento, dentro la nostra categoria, non ha mai travalicato i confini del reciproco rispetto e della necessaria comprensione. Certo, abbiamo avuto anche noi qualche punta di forte tensione, più per contagio dal clima generale, che come caratteristica della categoria. Sono ferite che in alcuni casi hanno lasciato il segno, ma che dovremo curare, guardando avanti, al lavoro che ci attende. Ma, nel complesso, possiamo dire che il nostro è stato sicuramente un buon congresso, alla fine del quale tutta la Filcams si ritrova fortemente unita attorno agli obiettivi che ci siamo assunti, come –peraltro- testimoniano le conclusioni unitarie di tutti i congressi regionali che abbiamo svolto.
L’unico dato che mi limito a citare, soprattutto per i nostri ospiti, è quello conclusivo, sul voto ai documenti congressuali, che ha visto il documento Epifani prevalere col 90,90% dei consensi, a fronte del 9,10% riportato dal documento Moccia.
Vorrei –invece- affidare a questa mia relazione il compito di riproporre il messaggio di fondo che ha attraversato tutta la nostra discussione, cercando di cogliere l’anima del nostro congresso, perché, fin dal primo giorno, ci siamo chiesti se questo congresso, il congresso della Cgil avesse potuto e saputo parlare al Paese, oltre che al proprio interno. Fin dall’inizio –infatti- era di tutti noi la preoccupazione che la discussione si sarebbe potuta risolvere in una partita tutta interna ai gruppi dirigenti, alle strutture, agli schieramenti, soprattutto, con la presentazione di due documenti alternativi. Per questo, una parte di noi aveva considerato sbagliato, nell’attuale contesto politico e sociale, che la Cgil, già oggetto di un forte tentativo di isolamento, si presentasse alla propria base ed all’insieme del mondo del lavoro con due documenti, che nelle semplificazioni alle quali sono abituati i lavoratori, sarebbero stati vissuti più come una divisione, che come una articolazione democratica, dunque, una ricchezza del pluralismo.
La Filcams, fin dall’inizio, ha impegnato tutta la categoria ad incardinare il proprio congresso alla condizione reale di vita del Paese e dei nostri settori, cercando di sintonizzarsi col sentimento diffuso delle donne e degli uomini che lavorano nel terziario, cercando con ciò di parlare al settore ed al Paese, nel momento in cui chi lavora e vive dentro la crisi è alla disperata ricerca di risposte, di speranze, di qualche certezza sul domani, oltreché sull’oggi e vede nella Cgil, nella sua storia, nella sua presenza diffusa nella società un importante punto di riferimento.
Lo abbiamo fatto, attraverso il nostro documento congressuale, con il quale abbiamo interpretato il nostro modo di stare dentro le sfide alle quali il congresso della Cgil ci ha chiamati, lo abbiamo intitolato Il futuro sostenibile del lavoro terziario, quattro parole che sintetizzano la portata di questa sfida, la sua dimensione culturale, prima ancora che politica e sindacale: futuro, perché senza traguardare il domani priveremo il ponte dell’emergenza, del suo necessario pilone di sostegno, emergenza, si, ma per andare dove?!; sostenibile, perché non tutte le vie di uscita dalla crisi portano al futuro, molte di esse possono portare nelle paludi o nelle sabbie mobili, o, peggio ancora, sul ciglio di un burrone, mentre è richiesto il coraggio di ripensare, in molti casi, i modelli di sviluppo; lavoro, perché esso rappresenta ancora la parte sana del Paese, milioni di donne e uomini, che tutte le mattine si alzano (e vorrei tranquillizzare i nostri ospiti, perché consideriamo tra loro anche quella parte sana degli imprenditori che ci credono), consapevoli di svolgere una funzione determinante nel progresso sociale e civile di questo Paese; terziario, perché parla di noi, del nostro mondo, di un mondo che in questi decenni ha dato molto alla crescita del Paese e che può continuare a svolgere una funzione strategica, di fronte alle sfide dell’innovazione.
Con questa scelta abbiamo iniziato il nostro viaggio nel congresso ed è stato, innanzitutto, un viaggio dentro la crisi del Paese.
La prima Grande Crisi del terziario
Ci sono due modi di rappresentare la crisi che il Paese sta vivendo. Il primo, è quello degli “addetti ai lavori”, quello della sua rappresentazione “contabile”, econometrica: inflazione, PIL, deficit, borse, mercati, ed è ovvio che non può che essere quella che misura gli effettivi andamenti, che consente di azzardare previsioni, che alimenta speranze o pessimismi, soprattutto tra gli operatori economici, le imprese, le banche, i governi. Da questo punto di vista, la nostra opinione è chiara, coincide –tra l’altro- con quella di molti nostri interlocutori, a partire da chi opera nel settore terziario, ad esempio, con quanto ascoltato al recente Forum di Cernobbio della Confcommercio. La crisi, nel nostro mondo, non solo è tutt’altro che alle spalle, ma con ogni probabilità deve ancora far sentire fino in fondo tutto il suo peso ed i suoi effetti. Lo si è visto nei settori della distribuzione, del turismo e negli stessi servizi.
Ma la crisi ha anche un volto sociale, che difficilmente compare nei talk show televisivi, popolati prevalentemente da Ministri, Esperti e Politici, difficilmente se ne trova traccia nella comunicazione, nei telegiornali, nella carta stampata ed è quella che parla della carne viva delle persone e che dovrebbe consigliare più prudenza e rispetto da parte di chi ritiene fondamentale e strategico uscire dalla situazione in cui siamo, affidandoci soprattutto all’ottimismo, alla fiducia. Ve la immaginate l’economia italiana alla guerra della competizione globale, contro la potenza di fuoco messa in campo da India, Cina, oltreché dai vecchi competitori, armata prevalentemente di fiducia? Ricorda certe parate militari di un tempo, che armarono l’esercito di tanto velleitarismo, da portare il Paese alla disfatta!
Dovremmo chiedere ai Ministri Gelmini e Tremonti di quale ottimismo dovrebbero armarsi le donne delle nostre imprese di pulimento che, già costrette a lavorare un numero di ore non certo sufficienti per garantirsi un futuro dignitoso, si sono viste tagliare, dalla sera alla mattina, un bel po’ di quelle stesse ore, perché, a quanto pare, senza risparmiare quei quattro soldi non potevamo andare alla guerra contro i grandi eserciti armati dei nostri competitori. Eppure, per quelle donne, erano e sono quattro soldi che parlano della loro carne viva, carne ancora più ferita, senza neanche la dignità del rispetto di accordi precedentemente sottoscritti dagli stessi Ministri.
Oppure, dovremmo chiedere di quale ottimismo dovrebbero armarsi le centinaia e migliaia di lavoratrici e lavoratori, ai quali abbiamo messo la pezza della Cassa Integrazione in deroga, adesso che i serbatoi delle Regioni si sono quasi prosciugati? Per molti di loro si staglia all’orizzonte, neanche tanto lontano, l’incubo del licenziamento, la perdita di un lavoro, spesso a part-time, quasi sempre di bassa remunerazione salariale, eppure un lavoro indispensabile per dare un minimo senso ad una vita vissuta ai confini della quarta settimana, che poi è diventata la terza e che già intravede la seconda!
Ed ancora, chiedere al Ministro Alfano quale ottimismo dovrebbero avere le decine o forse centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi, sparsi per gli studi professionali del nostro Paese, già costretti a lavorare “gratis” nell’illusione di un praticantato che sia porta di ingresso per la professione, oltretutto esclusi dalla discussione sulla riforma degli ordini professionali, sempre più costretti ad emigrare all’estero per cercare fortuna (tra il 2008 ed il 2009 –ad esempio- i neo laureati andati in Spagna sono passati da 300 a 3000). E sulle prospettive di ripresa, le punte di pessimismo tra i professionisti arrivano fino al 70%.
E quale ottimismo, quale fiducia dovremmo chiedere ai nostri lavoratori dell’indotto manifatturiero, prime vittime delle strategie industriali, che guardano sempre più oltre confine. Siamo stati tacciati, purtroppo, anche da sindacati amici, di essere un sindacato, la Cgil, che tarda a capire che il settore auto non ha futuro a Termini Imerese, che nella globalizzazione bisogna mettere nel conto che le auto che battono bandiera italiana potranno essere prodotte oltre confine, dove i lavoratori e la burocrazia costano meno. Il nostro viaggio congressuale è iniziato proprio da lì, con una visita ai lavoratori di Termini, costretti a salire sul tetto di quella fabbrica, per dire loro che per noi non sono e non saranno le scorie di una politica industriale che ha preso molto dal Paese e non è capace di restituire altrettanto, in termini di benessere e di equità sociale. Lì non c’è ottimismo, ma tanta disperazione, non c’è fiducia, ma molta rassegnazione, che noi vogliamo combattere, non da soli, ma che vogliamo combattere, dando voce ad un mondo invisibile. Il mondo invisibile del lavoro terziario, sul quale la crisi si sta abbattendo, senza la luce dei riflettori, lontana dagli echi dell’opinione pubblica.
Noi non siamo contro l’ottimismo, siamo contro la propaganda, non siamo contro la fiducia, siamo per le cose concrete, per misure che abbiano il fiato un po’ più lungo della durata di una flebo.
Il nostro viaggio congressuale ha voluto, per questo, dare voce a questo mondo invisibile, provando a dire una cosa semplice, ma molto chiara, fuori da ogni suggestione populista: così come i cittadini sono tutti uguali davanti alla legge (o dovrebbero esserlo), anche i lavoratori debbono essere tutti uguali davanti alla crisi, non esistono lavoratori di serie A, né lavoratori di serie B. Il diritto a difendersi dagli effetti della crisi, difendere il posto di lavoro, il reddito, deve essere uguale per tutti.
Il lavoro terziario è tra i meno protetti dal punto di vista delle tutele in periodi di crisi. Bisogna chiedersi perché? Perché nel corso degli anni non si è provveduto a mettere al riparo i lavoratori di un settore che produce ricchezza, ma che, evidentemente, non la ridistribuisce equamente? Forse perché il settore non è mai stato associato alle congiunture sfavorevoli?! Oppure permane l’idea che nel terziario possa operare essenzialmente un lavoro “light”, fisiologicamente portato all’instabilità?
Da qui nasce la nostra richiesta di rendere universale il sistema delle protezioni sociali, il ricorso agli ammortizzatori sociali, non un fatto occasionale, una concessione, non un allargamento dettato dalle circostanze straordinarie di una crisi straordinaria, ma un fattore di equità e di giustizia, un diritto inscritto tra i comandamenti fondamentali di una moderna civiltà del lavoro. Ed un Paese alla ricerca di una via di uscita dalla crisi epocale che stiamo vivendo, che ha toccato il record della disoccupazione, non può farlo senza assumere questo principio di civiltà come una priorità ed una discriminante delle proprie scelte.
La controriforma del Diritto del Lavoro
Nel momento in cui la crisi sollecita la definizione di misure che abbiano quale fine difendere il più possibile il legame tra lavoratori e posto di lavoro, il Governo –invece- ha pensato bene di considerare prioritario decidere su come farli uscire i lavoratori. Al di là del merito, sul quale diremo, il DDL 1167, che contiene le famose misure sull’arbitrato, ha questo di inaccettabile, il messaggio che si intende dare al Paese. Ma come, con tutti i problemi che ha l’economia, che ha il lavoro, con la gravità della situazione sociale, che in molte parti d’Italia ha allargato ulteriormente la soglia di povertà, il problema più urgente era quello di definire la questione dell’arbitrato?!
Il modo come lo si è fatto tradisce le reali intenzioni, quelle di consolidare il disegno che porta all’isolamento della Cgil. Ma questo è un bene per il Paese, è quello che serve per ricostruire l’unità e la coesione delle forze democratiche e progressiste? Ed anche qui, un po’ di rispetto! E’ come se, cosciente di fare una cosa sulla quale so già che troverei la tua disapprovazione, la facessi per forza, la imponessi senza farti parlare, con metodi che inibiscono il confronto di opinioni e la ricerca di una sintesi e, poi, ti tacciassi di medioevale, di antimoderno se non l’accetti!
Vorrei, per questo, rivolgere ai nostri ospiti, rappresentanti delle altre organizzazioni sindacali e delle associazioni datoriali, un invito a riflettere sulla reale portata dell’iniziativa intrapresa dal Governo. La questione non è solo quella dell’arbitrato, sulla quale, in una iniziativa che domani pomeriggio terremo al congresso, con la partecipazione di giuristi, costituzionalisti e parlamentari, diremo dei veri pericoli, in alcuni casi devastanti, per un settore come il nostro, soprattutto, in relazione al rapporto tra legge, contrattazione collettiva e pattuizioni individuali.
Dopo l’intesa separata sul modello contrattuale, con il collegato sul lavoro, l’arbitrato, il diritto di sciopero ed il nuovo Statuto dei Diritti dei lavoratori, l’obiettivo è la riscrittura della cultura e del diritto del lavoro e si pensa veramente di farlo senza e contro una organizzazione che rappresenta più di cinque milioni di persone? Contro una organizzazione che dal fascismo alla Resistenza, da Portella delle Ginestre a Guido Rossa, passando per la lotta al terrorismo, combattendo la cultura e la pratica che ha portato all’assassinio di Marco Biagi e Massimo D’Antona, versando il sangue di braccianti ed operai che hanno voluto, prima conquistare e poi difendere le radici del diritto del lavoro che stanno nella Costituzione Repubblicana?
Fermatevi un attimo! Qui stiamo parlando della democrazia del Paese. Vedete, il problema non è dirci che abbiamo torto, convincerci che siamo antichi (anche perché non è la verità), il problema è come viene fatto, in che modo! Allora, diciamola tutta, fino in fondo: è possibile che si voglia riformare tutto, ma l’unica riforma che ci si ostina a non voler fare è proprio quella delle regole, della rappresentanza sindacale, per cui ci si arroga il diritto di fare, disfare, firmare, senza il dovere e la responsabilità di misurare il consenso di queste scelte e di queste azioni con i diretti interessati? E per di più lasciando fuori l’organizzazione più rappresentativa?! Non è vero che siamo i più rappresentativi? Bene, misuriamoci una buona volta e noi rispetteremo le decisioni di una vera maggioranza!
Come si fa a non capire che qui vi è un vulnus democratico grande quanto una casa, che farebbe rigirare nella tomba i padri della nostra costituzione! Poi, ci si meraviglia che la Cgil si mobiliti. Il 26 aprile la Cgil organizzerà una giornata di mobilitazione nazionale, con presidi davanti alla Camera e alle Prefetture di tutte le città, per dire no alla controriforma del diritto e del processo del lavoro. Vogliamo augurarci che chi crede e professa il principio della concertazione faccia prevalere il buon senso, capendo che questo è il terreno sul quale ci si può e ci si deve muovere attraverso la concertazione fra tutti.
Lo sviluppo sostenibile del terziario
Ma quello che ha dato vita ed energia a questo nostro viaggio congressuale, è stata l’ambizione di osare di più, di guardare oltre l’emergenza, di offrire una risposta in grado di combattere la rassegnazione e l’apatia, molto diffusi tra le lavoratrici ed i lavoratori che abbiamo incontrato. Abbiamo voluto presentarci come un soggetto non solo vicino ai problemi dell’oggi, in grado di mettere in campo una difesa dai pericoli e dalle conseguenze della crisi, ma, soprattutto, che non rinunciasse ad inventare il futuro che non c’è, perché la crisi questo chiede, la capacità di costruire nuove soluzioni, praticare nuove vie, il che presuppone il coraggio dell’innovazione, la capacità di rimettere in discussione certezze consolidate nel tempo e dalla tradizione.
Un esercizio non esauribile solo nel rivendicare agli altri le cose da fare (e ve ne sono molte che vanno rivendicate agli altri), ma in grado di operare i grandi cambiamenti necessari anche a casa nostra. Se –da un lato- dare voce e cittadinanza ad un mondo del lavoro quasi invisibile, fino ad auspicare un salutare moto di civile ribellione contro una crisi, che rischia in molte realtà di condannare le persone alla precarietà eterna, è stato cuore e sentimento del nostro congresso, - dall’altro- l’elaborazione e la messa in campo di un nuovo e più alto profilo culturale della categoria ha rappresentato la mente, la testa del nostro stesso congresso.
Da questo punto di vista, non temo di affermare che da questo congresso vogliamo far uscire una Filcams che sia soggetto politico, non solo categoria sindacale, soggetto politico in quanto in grado di mettere in campo un autonomo progetto di sviluppo del terziario oltre la crisi e di promuovere l’iniziativa politica, culturale e sindacale necessaria per affermarlo, insieme agli altri soggetti che operano nel settore.
Il nostro ragionamento muove da una convinzione, che la Grande Crisi del terziario ha contribuito a consolidare, ribaltando il teorema che ha accompagnato per anni lo sviluppo di questo Paese. Il terziario è stato per anni il settore che ha offerto una valida alternativa al declino dell’industria manifatturiera, assorbendo buona parte dell’occupazione espulsa e sostituendosi nella produzione della quota prevalente del reddito. Possiamo dire che sia ancora così?
Purtroppo, non è più così! Anzi, per molti versi, il terziario rischia di diventare sempre più una grande fabbrica di incertezza, di precariato, un mondo non più in grado di offrire futuro alle persone che vi lavorano. E’ sconveniente dirlo? Noi vogliamo dirlo, perché registriamo troppa sottovalutazione, troppa distrazione in proposito, si danno per scontato troppe cose, che non corrispondono più alla realtà, mentre avvertiamo l’urgenza di aprire un largo confronto, in grado di ripensare i modelli di sviluppo, che hanno certamente prodotto importanti risultati in tutti questi anni, ma che potrebbero non essere più in grado di offrire risposte ancora valide, per affrontare le sfide del futuro, che già dobbiamo giocare nel presente.
Prendiamo il caso del consumo. E’ fuori dubbio che la crisi non ha prodotto effetti solo di natura quantitativa sulle dinamiche del consumo, ma incrocia risvolti che parlano dell’assetto sociale, ha inciso significativamente sulla stessa composizione qualitativa, sugli orientamenti, sui comportamenti generali dei consumatori. Ovviamente, non è tutto lineare, né virtuoso, come potrebbe apparire dal fatto che le difficoltà minori si sono registrate nei settori dell’auto e dei prodotti elettronici, audiovisivi, ecc.., consumi difficilmente classificabili come essenziali. Nel caso dell’auto registriamo in gran parte gli effetti degli incentivi, ma, in generale, occorre non sottovalutare che la crisi ha accentuato il carattere “classista” della composizione del reddito: chi era più ricco è diventato più ricco, chi era più povero si è ulteriormente impoverito. Le dinamiche del consumo dimostrano chiaramente questa realtà!
(Occorre ricordare –a questo proposito- che l’indagine sulla povertà alimentare in Italia, presentata in Campidoglio lo scorso novembre denunciava il 4,4% di famiglie residenti, cioè, tre milioni di italiani che vivono sotto la soglia di povertà alimentare.)
In ogni caso, la crisi del consumo è tutt’altro che fenomeno prevalentemente congiunturale e ci interroga sulla riproducibilità all’infinito del modello fondato sul consumo di massa, così come l’abbiamo conosciuto. Questo ragionamento non ha niente di ideologico, ma è puramente economico, sociale e sindacale. Esiste un nesso stretto fra modello di consumo, modello di sviluppo del settore distributivo, modello di lavoro nelle aziende distributive, sono fattori così intrecciati da rendere impossibile, ormai, affrontarli separatamente, pena rischiare di confondere le cause con gli effetti.
Abbiamo consegnato a tutti i delegati un questionario, che troverete nella cartella, curato dall’Isf e dal master, che interroga la nostra platea proprio sul tema dei consumi e dello sviluppo distributivo, per verificare il livello di consapevolezza presente fra i nostri quadri sulla portata delle problematiche. Vi chiediamo di fare lo sforzo di compilarlo e restituirlo in serata ai capi delegazione, sulla base delle modalità che vi saranno illustrate prima della conclusione di questa sessione, per consentire l’ultimo giorno di consegnarvi i risultati dell’indagine e verificare il livello della nostra sintonia.
Per quanto riguarda il modello di consumo ripeto che non abbiamo alcun approccio ideologico, noi non siamo contro il consumo, per certi versi, neanche contro il consumo di massa, là dove questo è condizione di diffusione del benessere e di crescita del tenore di vita delle popolazioni. Siamo, si, decisamente contrari alle distorsioni del consumismo di massa, che riteniamo non più compatibili con la necessità di affermare una nuova cultura del consumo, più orientata ai vincoli di sostenibilità dello sviluppo. Noi siamo decisamente per una nuova cultura del consumo sostenibile, poiché consideriamo il consumo la carta d’identità di una civiltà. Noi siamo contro lo spreco, siamo contro le disuguaglianze sociali generate da una iniqua distribuzione dei beni di consumo, siamo contro i disvalori generati dalla cultura del superfluo. Pensiamo, inoltre, che al di là delle opinioni, la nostra società non sia più in grado di sopportare questo modello di consumo, i suoi effetti e le sue conseguenze.
Del resto, questo modello di consumo è quello che ha generato e continua a generare un modello di sviluppo del settore distributivo anch’esso giunto ad un bivio, sul quale avviare una coraggiosa riflessione critica, non per abiurare, quanto per delineare le necessarie evoluzioni, sempre nel senso della sostenibilità. Non siamo noi a dirlo, ma insigni studiosi, che lo sviluppo dei grandi formati distributivi, la conseguente, progressiva occupazione del territorio, l’abbandono dei centri storici, la speculazione edilizia, lo sviluppo della rendita e quant’altro sono scelte conseguenti all’affermazione di un determinato modello di consumo e sono tutte conseguenze non prive di costi per la collettività, sia in termini economici (come –ad esempio- il costo che comporta oggi la rivitalizzazione dei centri storici), che in termini sociali e culturali, come gli effetti sui tempi di vita delle persone ed i conseguenti processi di alienazione, denunciati nei cosiddetti “non luoghi” rappresentati dalle cittadelle del consumo.
Questo modello distributivo, infine, non può che condizionare a sua volta il modello di lavoro, ultimo anello della catena. Sul lavoro e sulle nostre dinamiche negoziali, infatti, si scaricano conseguenze, gran parte delle quali stanno a monte della catena. La vicenda legata al lavoro domenicale –ad esempio- ce l’ha insegnato. Avevamo ingaggiato un duello con le aziende, su un tema che a livello aziendale ricade più come effetto che come causa primaria di autonome scelte aziendali.
In questo, sosteniamo il nesso tra modello di consumo, modello distributivo e modello del lavoro. Non possiamo confondere le cause con gli effetti, ma, soprattutto, non possiamo pensare di riprodurre all’infinito un modello, che al suo interno contiene evidenti contraddizioni, che rischiano di scaricarsi su un capro espiatorio principale, cioè, il lavoro, chiamato spesso a pagare per tutti.
Quello che occorre è rimettere in campo politiche di settore ispirate ad un maggior equilibrio tra i fattori del consumo e gli interessi rappresentati, consumatori, imprese, lavoro. Politiche di settore significa discutere quale debba essere una moderna politica distributiva, dagli aspetti strutturali (la rete, le infrastrutture, la qualità dei prodotti, il contenimento degli scarti da imballaggi, ecc…), alle regole, recuperando contenuti e ruolo della programmazione in materia. Qui occorre essere chiari e lo dico cercando di mettermi nei panni delle aziende: ci sono due modi per competere ad armi pari, il primo, definire un quadro omogeneo, armonico di regole a livello istituzionale; l’altro, esattamente speculare, abolire completamente ogni regola, liberare il campo da ogni vincolo, da ogni limite. Per quanto ci riguarda, il secondo è impraticabile, perché si scaricherebbe essenzialmente sui lavoratori e contro queste scelte continueremo a batterci, convinti di un fatto(e lo dico con un esempio): un Paese che ritenga indispensabile per uscire dalla crisi lavorare anche il 25 aprile ed il 1 maggio è un Paese alla frutta, che non ha futuro, è un Paese che raschia il barile!
E’ per questo che occorre rilanciare il tema di uno sviluppo programmato del settore, riportando nel dibattito politico nazionale una questione del tutto assente. La Filcams si impegnerà a farlo, con le altre organizzazioni sindacali, rilanciando il fronte negoziale e concertativo con le istituzioni locali e regionali, a partire dalle previsioni urbanistiche di sviluppo delle superficie di vendita, rivendicando un nuovo equilibrio fra sviluppo dei grandi formati distributivi e del commercio di vicinato e la definizione di regolamenti del commercio che, pur salvaguardando le peculiarità territoriali, sia ispirato ad elementi di coerenza e di omogeneità generali.
Riteniamo che sia nell’interesse di tutti, per questo, auspichiamo una convergenza con le associazioni di categoria, per sfatare il luogo comune che immagina un settore di “bottegai” e non di operatori economici in grado di offrire un’immagine moderna, innovativa del terziario.
Certo, per fare questo occorre avere la capacità di mettere in discussione le certezze, produrre non poche discontinuità, assumere interessi generali, connettere i tempi dettati dalle dinamiche della crisi del mercato, con l’idea di società che vogliamo traguardare oltre la crisi stessa.
Non temo a dire che l’impresa è quella di ridisegnare i confini, in alcuni casi rifondare i connotati umani del nostro villaggio globale. Diversamente, la società dell’iper-consumo rischia sempre più di avvitarsi su se stessa, risucchiata nei colli d’imbuto con i quali la nostra stessa esperienza sindacale è chiamata a misurarsi quotidianamente.
La domenica del Villaggio
Il tema del lavoro domenicale, ad esempio, sul quale abbiamo un approccio assolutamente laico, rischia di mascherare la cattiva coscienza di una società che ha derubricato dal proprio codice genetico la visione etica del proprio futuro, confondendo la modernità con una sorta di epurazione valoriale. L’esempio con il quale vi ho perseguitati durante i vostri congressi (“perché la domenica possiamo acquistare il secondo televisore al plasma o il terzo cellulare, mentre non possiamo fare il bonifico al figlio che fa l’Erasmus in Germania, oppure, il duplicato della carta d’identità smarrita?!”), in realtà contiene un interrogativo di ben altra proporzione e che va ancora oltre il tema che abbiamo introdotto, la necessità, cioè, di ridefinire la nozione di servizi essenziali. Parla di una nuova frontiera che vogliamo aprire nella discussione sul futuro della società del consumo, fondata su una nuova gerarchia di valori, in grado di selezionare bisogni primari e secondari, capace di soddisfare i primi e non alimentare, attraverso i secondi, gli egoismi individuali, capace di riproporre tra i beni di consumo, non solo gli oggetti, ma anche e soprattutto i beni relazionali tra le persone.
Da qui nasce la nostra contrarietà e la nostra resistenza, non al lavoro domenicale, ma alla liberalizzazione delle aperture, mentre rivendichiamo una loro regolamentazione. E’ l’intera società che deve decidere come riorganizzarsi, perché esiste la società del consumo, ma esiste anche quella dei servizi e noi vogliamo che quella del consumo sia parte integrante della società dei servizi, nel senso che deve trovare delle coerenze al suo interno.
Non è –certamente- tema della sola Filcams, ma dell’intera Confederazione e la Filcams porterà dentro la Cgil questa discussione, consapevole che essa dovrà rimuovere visioni corporative e categorialistiche. La categoria non può da sola reggere tutti i fronti. Faccio solo un esempio: è mai possibile che nella stragrande maggioranza dei centri commerciali le uniche aree dedicate al parcheggio dei bambini siano quelle per i figli delle mamme che vanno a fare la spesa e a nessuno o quasi venga in mente che i figli li hanno anche le mamme che lavorano all’ipermercato?! E che se si vuol favorire l’occupazione femminile, non si può prescindere dalla necessità di dotare le iper-strutture commerciali di servizi sociali adeguati?
Il mondo che abbiamo vissuto nel passato non è più esattamente quello di oggi, ciò che abbiamo contrattato ieri non è detto sia in grado di rappresentare i bisogni dell’oggi. La confederalità è anche questo, la capacità di tenere insieme cose diverse, ma anche per questo è capacità di evolvere il pensiero e l’azione del sindacato.
Vedete, sempre sul tema del lavoro domenicale, anche alla luce delle note vicende che portarono all’accordo separato per il rinnovo del Ccnl, la Filcams ha avviato una coraggiosa riflessione al suo interno, coraggiosa, perché molto più scomoda della difesa dell’esistente, accettando di mettere in discussione i limiti di una posizione, per quanto ispirata a sani principi. Abbiamo capito –ad un certo punto- che i mutamenti intervenuti nella composizione del lavoro, all’interno della Grande Distribuzione Organizzata, avrebbero messo i giovani contro gli anziani, i forti contro i deboli e noi avremmo rischiato di rappresentare sempre più una parzialità del lavoro, sicuramente quella relativamente più tutelata ed, al tempo stesso, risultare un soggetto indifferente, se non ostile, ai più giovani. In questo caso, la confederalità è un valore interno alla stessa categoria, che ti fa dire “io devo tenere insieme i giovani che hanno l’obbligo del lavoro domenicale e i vecchi assunti, per i quali avevo contrattato la volontarietà e maggiorazioni più consistenti”. E lo posso fare se assumo il coraggio di modificare una posizione, di evolverla, per individuare un nuovo contenitore che tenga dentro tutti gli interessi.
Solo così il sindacato può candidarsi all’essere riconosciuto soggetto attivo del cambiamento e non una semplice appendice, che va a rimorchio. Ovviamente, lo possiamo fare se ci assumiamo anche l’onere di combattere una battaglia che punti a modificare il profilo culturale ed organizzativo del settore e del suo sviluppo, rivendicando alle aziende politiche innovative, in grado di offrire una visione nuova, moderna del settore distributivo.
Vogliamo confidare che questa strada possa essere imboccata anche con il mondo delle imprese e con le stesse associazioni dei consumatori, con le quali vogliamo aprire un nuovo dialogo, che superi la contrapposizione degli interessi. Nel settore distributivo –ad esempio- confidiamo che la natura della Cooperazione possa svolgere una funzione di stimolo e di traino, anche per l’importanza economica e sociale che ha assunto il sistema cooperativo in Italia. Quello che pensiamo della Coop lo abbiamo detto nel convegno nazionale di Firenze, continueremo a difenderne il valore sociale, come abbiamo fatto durante gli attacchi subiti dai precedenti governi di centro-destra. Ma anche per questo continueremo ad essere altrettanto rigorosi nel contrattare scelte virtuose e coerenti con questa funzione.
La risposta delle aziende alla crisi
Soprattutto, a fronte del fatto che la strada imboccata da una parte delle aziende della GDO non ci sembra proprio in linea con visioni nuove e moderne del settore.
Possiamo dire che la partenza prometteva bene, perché il Patto per il Lavoro per noi è stato qualcosa più di un atto che ha consentito di recuperare la conclusione unitaria del Ccnl. Con quell’accordo abbiamo condiviso un obiettivo importante, per affrontare insieme la navigazione tra gli scogli della crisi, quello della difesa della base occupazionale del settore, del capitale professionale delle aziende, con tutti gli strumenti ed i mezzi a disposizione. Lo stesso Avviso Comune ha consolidato questa visione.
Ma quell’accordo conteneva implicitamente (e contiene) un altro importante significato, l’indicazione di una rotta, l’idea di un governo condiviso dei processi, dentro un settore dove la disarticolazione rappresenta uno dei mali ed uno dei principali pericoli. Se ognun fa per sé è chiaro che il disegno complessivo non va più avanti. Nessuno nega le specificità delle singole vicende, Carrefour, Upim/Coin, Pam/Panorama, ma quelle stesse vertenze confermano due cose chiare come il sole (e mi scuso per la forzata semplificazione): la prima, che per tenere aperto bisogna pagare meno i dipendenti, quindi, in alcuni casi bisogna restituire quello che già si aveva (l’equazione semplice che fanno le persone normali è che per abbassare i prezzi, si abbassano i salari); la seconda, che, mentre si chiude da una parte, capita di ritrovarsi a pochi passi da quelle chiusure, nuove aperture, di nuovi grandi formati, di nuovi centri commerciali, i quali non potranno che riprodurre al loro interno le stesse contraddizioni.
Ma tutto questo non dimostra forse che è arrivato il momento di fermarsi un attivo per capire se questo mercato non abbia perso la bussola? Non dimostra che è arrivato il momento di ri-discutere dell’intero settore, dei nuovi equilibri al suo interno, alla luce delle dinamiche odierne che investono il mondo del consumo e non quelle pensate anni fa?
Il caso del turismo, poi, è clamoroso. Mi limito a ricordare la fotografia che ne abbiamo fatto al nostro convegno nazionale dell’anno scorso. Un settore che potrebbe essere paragonato ai giacimenti di oro del Sud Africa o di greggio, negli Emirati Arabi, crollato dal primo al quinto posto, per l’assenza più totale di politiche di settore finalizzate alla valorizzazione delle nostre risorse culturali, ambientali, storiche. Con l’industria turistica ridotta nella maggior parte dei casi, alla mera sopravvivenza, anche qui, scaricando sulla struttura dell’impresa e del lavoro i costi principali di questo galleggiamento.
E che dire di un sistema dei servizi, diffusosi in seguito a significativi processi di esternalizzazione della Pubblica Amministrazione, ma anche di crescita esponenziale della domanda di assistenza alle famiglie, che richiederebbe una rinnovata e qualificata strategia di integrazione pubblico/privato, abbandonato, invece, alla spicciola politica dei tagli finalizzati a fare cassa.
Crediamo –in definitiva- che il nostro mondo debba produrre un sussulto verso la politica, perché discutere del terziario oltre la crisi, significa discutere in buona parte del Paese che vogliamo, fuori da questa crisi, significa entrare dentro la palestra del cambiamento, fatto non di propaganda, ma di scelte concrete, qualificate e lungimiranti. La Filcams c’è, è disponibile e per la sua parte si adopererà. In questo vorrà essere anche soggetto politico, auspicando la mobilitazione di tutte le volontà rappresentate nel settore.
Ma, nel frattempo, continueremo ad esser al fianco delle lavoratrici e dei lavoratori impegnati nelle vertenze, per difendere il loro posto di lavoro e una loro giusta retribuzione. Dopo le ultime iniziative di lotta che hanno interessato alcune grandi catene distributive ed altre aziende, dobbiamo lavorare per dare continuità e prospettive, per offrire sbocchi positivi alle vertenze, parlando al Paese dei nostri punti di crisi. Non può essere che il futuro dell’auto sia tema che mobiliti così tanta attenzione e noi siamo d’accordo, perché non può esistere un terziario, tanto meno avanzato, senza una robusta e qualificata industria manifatturiera, e vivere un silenzio tombale sul destino di settori che devono essere ripensati, sostenuti, incentivati, guarda caso, di settori che fino ad oggi hanno contribuito più di altri alla formazione della ricchezza nazionale.
I tavoli contrattuali
Da qui discende il nostro approccio alla contrattazione, perché senza il respiro di una iniziativa che offra nuovi orizzonti di sviluppo per i nostri settori, la contrattazione sarebbe relegata a pura azione di contenimento delle perdite o di gestione dell’esistente.
Quello che abbiamo fatto in questo ultimo anno dimostra –intanto- una prima cosa: noi non ci faremo mettere all’angolo dall’accordo separato sul modello contrattuale! Prima ancora che nel merito che non abbiamo condiviso, quell’accordo ha quale punto veramente inaccettabile l’idea che, in un moderno sistema di relazioni sindacali, si possa tenere fuori, si possa isolare la Cgil, la più grande organizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori. Per questo, facendoci trovare al tavolo, al termine della sperimentazione, per verificare il funzionamento del modello, staremo in campo, oggi ed in tutti questi mesi, per giocare la partita.
Vorrei tranquillizzare alcuni settori della Cgil, dei quali rispetto le opinioni, che questo non è un modo per fare rientrare dalla finestra, quello che non abbiamo voluto far entrare dalla porta. Forse è vero, che un po’ più di coordinamento sulla contrattazione sarebbe stato necessario, ma chi chiede maggior coordinamento, deve poi essere disponibile a farsi coordinare e non decidere a prescindere, per poi misurare la coerenza degli altri sulle proprie scelte!
Lo si è visto nel recente Ccnl sul Turismo firmato con le associazioni di Confcommercio. Ogni contratto, da sempre, è un punto di mediazione tra posizioni diverse e, per questo, offre risultati con luci ed ombre, soprattutto dal punto di vista di chi li valutasse con l’unico metro di misura della propria piattaforma. Ma, al di là del giudizio di merito, che noi abbiamo considerato complessivamente positivo e sul quale si pronuncerà la consultazione (valgono qui le considerazioni fatte nei nostri organismi), saremmo disonesti se affermassimo che le nostre ragioni, quelle di chi non ha firmato l’accordo sul modello contrattuale non siano state ascoltate e considerate. Anzi, voglio qui dare atto ai nostri interlocutori che se quell’accordo abbiamo potuto firmare è proprio perché, in tutta lealtà, loro per primi sapevano che non avrebbero potuto chiederci di far rientrare dalla finestra quello che non avevamo voluto far entrare dalla porta. E, alla fine, abbiamo trovato un compromesso onorabile per tutti.
E’ quello che proveremo a fare sugli altri tavoli già aperti, quello del turismo Confindustria, della vigilanza, del multi servizi e che proveremo a fare tra pochi mesi, quando toccherà al commercio. Non è detto che ce la faremo sempre, anche perché, ogni tavolo ha la sua storia e le sue specificità, ma non v’è dubbio che sarà l’obiettivo che ci muoverà.
Sui tavoli aperti non possiamo esimerci dall’esprimere qualche seria preoccupazione. Dopo quindici mesi, il tavolo della vigilanza privata naviga in acque paludose e non sembra si possano intravedere spiragli di luce a breve. Vogliamo augurarci che l’esito positivo dell’ultimo incontro col Ministero degli Interni sui requisiti minimi di qualità degli istituti di vigilanza possa rimuovere una parte di ostacoli presenti sul tavolo ed avviare una fase nuova e costruttiva del confronto. Certo è, che dopo quindici mesi dalla scadenza del Ccnl, è inevitabile che dovremo mettere in campo la giusta iniziativa sindacale per rivendicare una svolta nel negoziato.
Vogliamo essere moderatamente più ottimisti sul tavolo Turismo Confindustria, anche qui auspicando che, dopo la firma del Ccnl turismo Confcommercio, si possa addivenire ad un risultato in grado di valorizzare, con le necessarie omogeneità, le peculiarità associative dei nostri interlocutori.
Sul multiservizi, vorrei ricordare alle associazioni nostre interlocutrici ed agli amici delle organizzazioni sindacali, che la Cgil non è firmataria dell’accordo sul modello contrattuale e che –pertanto- non costituisce atto politico molto costruttivo pretendere la disdetta di un Ccnl firmato anche dalla Filcams. Questa è la ragione per la quale abbiamo chiesto il rispetto delle intese in essere, dunque, il rinnovo del biennio economico e ci auguriamo che la tanto dichiarata volontà di fare le cose insieme rispetti una posizione assolutamente lineare e del tutto compatibile con la situazione del settore.
Il laboratorio di un nuovo progetto di contrattazione
Nei prossimi giorni avvieremo anche il lavoro per costruire la piattaforma per il rinnovo del Ccnl del terziario. Consapevoli delle difficoltà che ci attendono, abbiamo già convenuto con Fisascat e Uiltucs di metterci subito al lavoro, per definire un ambito condiviso entro il quale elaborare le rispettive posizioni. Il realismo ci porta a dire che, per ragioni non solo dipendenti dalla nostra volontà, difficilmente potremo presentare una piattaforma unitaria. Però, presentare tre piattaforme gemelle è una condizione sicuramente più favorevole per lo sviluppo successivo del negoziato.
Il lavoro fatto in questi mesi contribuisce ha delineare alcuni tratti, alcune prime coordinate entro le quali collocare i contenuti della nostra azione rivendicativa, traguardata sia alla piattaforma per il rinnovo del Ccnl, sia allo sviluppo della contrattazione di II livello.
Intanto, c’è una prima riflessione importante che si è aperta con le alte organizzazioni sindacali e le associazioni datoriali ed è relativa alla necessità di ripensare alla struttura del Ccnl, in relazione alla grande articolazione di professioni in esso rappresentate. Quando pensiamo al Ccnl del commercio il riflesso condizionato della categoria è pensare alla cassiera dell’Ipermercato e non mancano le ragioni. Ma quel Ccnl è un contenitore ben più vasto di professioni, che dalla cassiera arrivano fino al terziario avanzato, alte professioni, alta tecnologia e se vogliamo rappresentarle tutte dobbiamo sapere che quel contenitore va in parte riformato (ecco una vera riforma della contrattazione…).
In questo quadro, è utile che la nostra riflessione dedichi più spazio ai settori del terziario avanzato, in ragione del fatto che anche per il terziario, il futuro va ricercato nel sostegno ai processi di innovazione e alla crescita del valore aggiunto. Il settore dei servizi alle imprese, delle software house, del data entry, occupa una popolazione di lavoratori significativa e dall’alto tasso di scolarizzazione. E’ un settore che ha conosciuto nell’era della new economy uno sviluppo ipertrofico e difficilmente quantificabile in termini di fatturato e in termini di occupazione. Di fronte alle trasformazioni che attraversano il settore, molte indotte anche dalla crisi, dobbiamo evitare che tale patrimonio si disperda attraverso processi di atomizzazione e la caduta verticale degli investimenti per l’aggiornamento. Per questo sarà nostro impegno far nascere un coordinamento nazionale del settore.
L’altra riflessione, che come Filcams vogliamo sollecitare, ovviamente per una iniziativa che non si esaurisca solo nello strumento del Ccnl, è la struttura del mercato del lavoro, la composizione del lavoro nel settore della distribuzione ed il fatto che esso sempre più rischi di essere fonte di nuova e moderna precarietà.
Il tema è complesso, delicato, ma per noi, non più rinviabile. La grande diffusione di contratti di lavoro temporanei o a part-time, risponde indubbiamente ad una caratteristica del settore, la sua alta flessibilità. Ma il ricorso esasperato a queste tipologie contrattuali, ha di fatto creato una patologia, che, coniugata spesso con livelli salariali mediamente bassi, fa si che il settore, specie della grande distribuzione, sia diventata oggi una delle più grandi fabbriche dell’incertezza esistenziale, soprattutto per le nuove generazioni. Lo ripeteremo fino alla noia, ad un lavoro part-time non corrisponde una vita full time! Il Ministro Brunetta dovrebbe informarsi di più sulle condizioni in cui vivono tante ragazze e ragazzi dei nostri settori, prima di tacciare loro di mammismo, perché in quelle condizioni non si può mettere su famiglia, non ci si può sposare, non si possono contrarre i mutui per le case e –tra poco- neanche più la famiglia sarà una sicura zattera di salvataggio. Quell’indagine sulla povertà alimentare di cui parlavamo prima, contiene un altro dato inquietante, cioè, l’aumento dell’indice di povertà, simmetrico alla composizione numerica della famiglia, il che significa che anche la “risorsa famiglia” comincia ad essere in riserva fissa…
Noi non neghiamo la domanda di flessibilità delle aziende, ma non intendiamo neanche negare la funzione sociale che la Costituzione assegna all’impresa, che non significa riconvertirle nella San Vincenzo Dè Paoli, significa trovare necessariamente nuovi equilibri. Qui la sfida è epocale, non è più evitare che il lavoro flessibile sia l’anticamera della precarietà, ma rendere stabile il lavoro flessibile, inserirlo dentro una prospettiva di stabilità della vita lavorativa di una persona. Noi non siamo più da tempo quelli del “posto fisso”, ma vogliamo essere e rimanere quelli del posto stabile, di una lavoro stabile e qualificato, per una vita stabile e qualificata!
Questo comporta anche la necessità di prendere atto del fatto che il livello dei salari nei settori da noi rappresentati, ovvero, i bassi salari, rappresentano un fattore sempre meno sostenibile con l’obiettivo di assegnare al lavoro la funzione di rendere autonomo il progetto esistenziale delle persone che vi lavorano.
La contrattazione, certamente, da sola non può fare tutto, non può esaudire i progetti esistenziali delle presone, ma può invertire la tendenza, può curare la patologia. Per questo, riteniamo opportuno che il tema del lavoro flessibile sia oggetto di una rilettura critica, non per negarne la funzione, ma per offrire un contesto di maggiore stabilità e di maggiori certezze. Tanto più per l’alta densità di occupazione femminile presente nei nostri settori, che impone di non deresponsabilizzare l’impresa dal ruolo e dalla funzione delle donne nel lavoro, nella famiglia, nella società, ma anche, solamente, dalla condizione di genere. Per questo, la contrattazione di genere dovrà rappresentare sempre più una scelta discriminante della nostra azione.
Il lavoro non deve essere solo stabile, ma anche qualificato. Qui vi è l’altra sfida importante che dobbiamo accettare, quella di smentire il luogo comune più diffuso, che il lavoro terziario (salvo quello avanzato), per definizione sia un lavoro a basso contenuto professionale. Così come dobbiamo smentire il luogo comune che il lavoro terziario sia immune dai rischi infortunistici e dalla diffusione delle malattie professionali. Dobbiamo ammettere che sul tema della salute e sicurezza marchiamo non pochi ritardi e sottovalutazioni, registriamo una caduta di tensione non giustificata dall’importanza che riveste il problema. Gli stessi nostri Rappresentanti dei Lavoratori alla Sicurezza (RLS) spesso appaiono come una truppa senza guida, né strategie. Da questo congresso dobbiamo assumere l’impegno a rendere la questione oggetto di un lavoro permanente, coordinato nazionalmente, verificabile nei suoi risultati.
Il tema della salute e sicurezza e quello della formazione –dunque- dovranno per questo essere destinatari di sempre maggiori attenzioni ed interventi, sapendo che si tratta di campi fortemente connessi con i processi evolutivi delle aziende e dei mercati. Non basta dire che occorre maggiore formazione, ma formare per andare dove? L’analisi dei bisogni formativi –ad esempio- contiene indirettamente una risposta agli indirizzi nuovi ed inediti che può avere lo sviluppo dei nostri settori. La formazione è lo strumento, il mezzo, la nave, ma la rotta è il porto dove vogliamo approdare, il terziario che vogliamo costruire nel futuro di breve e medio termine. Diversamente, avremo un sistema formativo del tutto autoreferenziale, buono a giustificare se stesso,, prima ancora della missione per il quale lo abbiamo costruito.
Come si evince da queste sommarie considerazioni, il nuovo progetto della contrattazione impone una nuova capacità del sindacato di riguadagnare il controllo dell’organizzazione del lavoro, o, più modestamente, essere soggetto attivo, protagonista nella definizione dei nuovi processi organizzativi del lavoro. Del resto, le stesse intese raggiunte quest’anno, lo stesso Patto per il Lavoro, affidano al II livello il compito di esercitare il confronto sull’O.d.L. e per poterlo fare, occorre attrezzare i nostri quadri, i delegati e rappresentanti sindacali delle capacità necessarie, anche sul piano delle competenze, delle conoscenze in materia di organizzazione aziendale, cosa che abbiamo avviato a fare con il Piano Nazionale di Formazione Sindacale.
In tutto questo, ci deve guidare l’idea che la contrattazione è un mezzo; il fine è la tutela delle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori, la difesa della loro dignità e la promozione della loro funzione nei luoghi di lavoro. Anche per questo dovrebbe essere vissuta dalle aziende non come un retaggio del passato, quanto, come l’espressione di un moderno sistema di relazioni sindacali, quale risorsa per lo sviluppo delle stesse imprese, oltreché per il progresso del lavoro.
La buona bilateralità
Questo mi consente di ribadire con poche parole l’idea che ci ha guidati nel sistema della bilateralità nei nostri settori. Anche gli enti bilaterali sono un mezzo e non il fine della nostra azione. Il nostro fine è risolvere al meglio i problemi delle persone che rappresentiamo ed, in questo caso, anche delle aziende con le quali abbiamo costruito questa esperienza.
Forse marchiamo qualche ritardo, come Filcams, data la diversa sensibilità che sul tema ha caratterizzato la nostra organizzazione. Ci è stato rinfacciato per molto tempo di aver avuto una posizione “ideologica” verso gli enti bilaterali e la loro funzione.
Proprio per il fatto di aver maturato con responsabilità una posizione che riteniamo, peraltro, coerente con la natura contrattuale della bilateralità, non possiamo non esprimere qualche preoccupazione per un eccesso di ideologismo di segno opposto. Adesso, siamo arrivati al punto che gli enti bilaterali dovrebbero fare tutto! Ma tutto cosa, tutto con che cosa, con quali risorse? La questione degli ammortizzatori sociali è questione seria, da non poter diventare materia di propaganda. Il Ministro Sacconi dovrebbe preoccuparsi di condurre una battaglia nei confronti del suo collega Tremonti, per affermare il principio che davanti alla crisi tutti i lavoratori sono uguali e che questa è una delle più importanti riforme da fare!
Immaginare che un diritto universale possa essere condizionato all’esistenza di un patto privato, tra sindacati e associazioni di categoria significa deresponsabilizzare la funzione del soggetto pubblico e scaricare parte della crisi sulle spalle di lavoratori ed imprese. Per questo abbiamo apprezzato la sintonia che ha portato ad una posizione condivisa, sia nell’Avviso Comune, che nel recente Ccnl del turismo, che vede l’intero settore affermare il diritto agli ammortizzatori a prescindere dalle integrazioni possibili della nostra bilateralità, una posizione di civiltà, che continueremo a difendere.
Probabilmente, si pensa che dalle finestre dei nostri Enti Bilaterali o Fondi di Sanità Integrativa, ovvero, interprofessionali per la formazione, scorrano fiumi di danari e, soprattutto, che siano spesi male! A parte il fatto che, a questi livelli di contribuzione, gli Enti Bilaterali chiuderebbero dopo la prima settimana di sostegno al reddito! Ma la risposta migliore che ha dato il settore è stato l’avvio di un profondo processo di auto-riforma del nostro sistema, tanto per sgombrare il campo da accuse di difesa corporativa o resistenze conservatrici. Con le intese raggiunte in queste settimane, infatti, stiamo ridisegnando le regole, rendendo sempre più coerenti gli obiettivi della bilateralità alla missione definita contrattualmente.
Il ragionamento è semplice: gli enti bilaterali hanno senso solo se erogano prestazioni ai lavoratori ed alle imprese. A noi questi ee.bb. interessano, niente altro. E questo dovrà valere al centro, come in periferia, negli enti nazionali, come in quelli territoriali. Per questo, la Filcams, recuperando limiti e ritardi del passato, si renderà protagonista, con le altre OO.SS. del lavoro avviato, per disegnare il futuro della bilateralità di settore.
La democrazia sindacale per un sindacato più forte e rappresentativo
Come avrete capito, la nostra idea di come stare dentro l’attuale fase, caratterizzata dal livello più alto di rottura fra le confederazioni sindacali, è proprio quella di stare sempre in campo, fino all’ultimo minuto ed anche nei minuti di recupero. Non è solo per l’insegnamento dei nostri padri sindacali, che hanno sperimentato sulla pelle il prezzo e le sofferenze delle divisioni e che hanno costruito sull’unità del mondo del lavoro le più grandi conquiste sulla via dell’emancipazione e del progresso del lavoro e del Paese. Non è solo per questo, perché uniti si vince e divisi si perde. Oggi, si può perdere anche stando uniti, anche se di sicuro, divisi non vince nessuno, alla lunga.
La ragione è anche un’altra. Stare ai tavoli contrattuali, ricercare soluzioni negoziali condivise, è un atto di responsabilità verso le centinaia e miglia di persone che noi rappresentiamo, che hanno il diritto di stare a quei tavoli e di portarvi il peso della loro intelligenza, delle loro sensibilità, delle loro opinioni. Non possiamo tagliare fuori questa risorsa, importantissima per il futuro del settore e la Filcams si assumerà sempre la responsabilità di far pesare il valore aggiunto della propria rappresentanza.
Del resto, la vita avrebbe potuto essere meno complicata se avessimo deciso una cosa molto semplice. Perché, vedete, anche noi siamo contrari ai veti e non neghiamo anche il fatto che in un mondo (anche del lavoro) così modificato, si possa entrare nell’era degli accordi separati, non è questo lo scandalo! Ma perché non stabilire delle regole, anzi, perché non accettare la regola più semplice, più ovvia e banale, che il prodotto delle nostre azioni venga sottoposto al giudizio dei diretti interessati, dei destinatari delle stesse nostre azioni. Se io faccio una cosa, ma non voglio farmi giudicare per la cosa che ho fatto, per di più da coloro ai quali è destinata quella cosa, vuol dire che qualcosa non torna, vuol dire che non è tutto chiaro e trasparente quello che sto facendo o che ho fatto. E non c’entra la diversa concezione del sindacato, degli iscritti o di tutti, perché se fosse questo, quello che fai vale per i tuoi, non per tutti! Ma se vale anche per me, anche per il pezzo di mondo che io rappresento, come puoi pretendere di impormelo, senza sottoporti ad una regola elementare, quella della verifica del consenso!
La Filcams è disponibile ad andare in minoranza, la Filcams è disponibile a rispettare il verdetto della maggioranza, ma che si stabilisca un modo per decidere se e quando siamo maggioranza o minoranza?
In attesa che lo si possa fare, insieme, dobbiamo dirvi che per noi i percorsi democratici sono fondamentali e vincolanti e vorremmo condividerli. E questo non per un fatto formale od un capriccio ideologico. La ragione è molto più semplice e dopo una intera vita dedicata a questa attività so di poterlo dire con molta cognizione di causa: quando andiamo dai lavoratori a dire la verità, ci hanno sempre capiti e ci hanno sempre sostenuti. Noi non andremo a dire –ad esempio- che l’ultimo Ccnl del turismo è il migliore che si sarebbe potuto fare, diremo la verità, un Ccnl che presenta aspetti apprezzabili ed altri che non abbiamo condiviso. Ma era la cosa migliore che oggi potevamo fare e diremo anche che era tale anche perché ci ha consentito di tener il fronte unito, in un settore che vive un grande impatto con la crisi ed un mercato del lavoro sempre più destrutturato, dove lo stare insieme è decisamente più utile che lo stare divisi. Chi non sarà d’accordo ce lo dirà, ma io scommetto che la stragrande maggioranza dei lavoratori capirà e ci dirà che abbiamo fatto bene a farlo e noi usciremo più forti, rinsaldati nel rapporto di fiducia, con un atto di grande lealtà e trasparenza. A questo serve parlare con le lavoratrici ed i lavoratori, a rendere più forte il sindacato, tutto il sindacato.
Perché –dunque- non dovremmo farle insieme queste cose? Noi rinnoviamo da questo congresso la proposta a Fisascat e Uiltucs, nel momento in cui apriremo il cantiere per la nuova piattaforma per il Ccnl terziario, a fronte di un lavoro di ampie convergenze sul contenuto delle nostre rivendicazioni, di fare vivere un percorso democratico tra i lavoratori, al quale, tuttavia, noi non ci sottrarremo.
Questo è il nostro modo di stare in campo oggi, non un sindacato di pura testimonianza, ma un punto di riferimento, per tenere aperta una concreta prospettiva di cambiamento.
La nuova rappresentanza contro la solitudine delle moderne ingiustizie
Questo è il rinnovamento della Filcams, qualcosa che va ben oltre un piano organizzativo. Il rinnovamento della Filcams è innanzitutto un’idea, un pensiero rinnovato, una nuova cultura del lavoro e dello sviluppo in questo Paese e nei nostri settori.
Quando mi avete eletto Segretario Generale di questa categoria vi confesso che dopo un po’ mi sono anche spaventato, mi sono chiesto dove ero capitato! Un mondo di lavori molto diversi, la cassiera dell’Ipermercato, la donna delle ditte del pulimento, la colf, la guardia giurata, il laureato dell’azienda informatica, il cameriere, la giovane avvocatessa, addirittura, la parrucchiera e chissà quanti ne ho dimenticati…. Mi sono chiesto come avremmo potuto tenere insieme tutta questa pluralità di mestieri, dentro quale identità di categoria. Molte volte mi sono chiesto, ma cos’è veramente la Filcams?!
La risposta è semplice, è uno dei laboratori più avanzati della confederalità e la nostra sfida è dimostrare che la confederalità è veramente la risposta più avanzata per tenere insieme interessi diversi, diverse sensibilità, i pluralismi che rendono ricca la società contemporanea. E cosa può tenerli insieme, qual è il filo rosso che unisce queste diversità? Qual è il nostro senso di appartenenza?
Dobbiamo cercarlo in ciò che caratterizza questo mondo, il mondo del terziario, un mondo che sa di moderno, ma che sa anche di antico, un mondo dove le potenzialità per coniugare benessere individuale e progresso generale sarebbero enormi, dove, però, moderne ingiustizie si sommano ad altre, più antiche. Un mondo dove i consistenti processi di disgregazione del lavoro fanno della solitudine la condizione predominante vissuta nei luoghi di lavoro. Sentirsi soli significa sentirsi fragili, deboli, indifesi, condizionabili e ricattabili. E quando questo coinvolge i giovani è ancor peggio, perché è l’inizio della negazione di una sana coscienza civica, che le generazioni precedenti hanno potuto maturare vivendo il valore e le passioni civili suscitate dai grandi soggetti della rappresentanza collettiva.
Per questo il nostro rinnovamento vuole essere la capacità di tenere dentro un contenitore questi mondi diversi, che in forme diverse vivono il tratto comune della solitudine, dell’anonimato, restituendo voce e rappresentanza. E lo faremo partendo dagli ultimi, cominciando a guardare dalla parte di coloro che meritano nuova attenzione, dal sindacato e dalla politica.
So di aver parlato molto di consumo e distribuzione e ne avrete capito le ragioni, dato che il nostro progetto si fonda in gran parte sull’idea che il futuro sostenibile del terziario appartiene ad una nuova società dei consumi, ad una nuova cultura del consumo.
Ma ho scelto volutamente di riservare alla parte conclusiva della relazione la riflessione sui nostri settori, cosiddetti minori, perché, per noi, essi debbono rappresentare molto più che capitoli di una agenda di lavoro. Lo dico nel modo più semplice possibile: la Filcams, che vuole essere quel contenitore in grado di rappresentare il mondo dei lavori del terziario e le soggettività in esso presenti, non potrà più essere la Filcams soprattutto della Grande Distribuzione, o degli alberghi, che certamente manterranno un loro peso determinante, ma dovrà essere sempre più quella delle ditte in appalto, delle donne delle imprese del pulimento, quella dei giovani (o meno giovani) degli studi professionali, quella delle guardie giurate, dei tecnici e laureati del terziario avanzato ecc..
Per questo abbiamo scelto, uscendo da questo congresso, di caratterizzare la nostra iniziativa più immediata con una grande campagna sul tema degli appalti, sapendo che anche questo non è tema della sola categoria, ma chiama in causa l’iniziativa di altre categorie e della Confederazione.
Ci è stato spiegato che i processi di esternalizzazione hanno risposto ad una domanda di maggiore flessibilità delle imprese. Poi, però, ci è anche stato detto, che era un modo per competere sui costi. Il risultato, alla fine, è che sui lavoratori e sulle lavoratrici si sono scaricate condizioni, che non possono più essere accettate. Il massimo ribasso porta inesorabilmente ai bassi salari, oltreché a condizioni di lavoro peggiori, per salute e sicurezza; il cambio di appalto è diventata una condizione di stress crescente, non è possibile che una persona non possa programmare la propria esistenza, peraltro, già condizionata dai bassi salari e orari ridotti, per il fatto di non sapere se quella magra condizione di lavoro potrà riproporsi l’anno successivo.
Allora, su questo tema degli appalti è venuto il momento di metter in campo una grande iniziativa dei sindacati di categoria, delle confederazioni, per rivendicare nuove condizioni normative e legislative, per porre con forza il problema delle regole dentro questo mercato, della trasparenza e della legalità in grado di restituire più dignità e migliori condizioni alle lavoratrici e lavoratori del settore.
Così come continueremo nel lavoro avviato con il vasto mondo sommerso degli studi professionali, dove abbiamo incontrato decine di giovani ragazze e ragazze, anche lì, desiderosi di mettere in gioco le proprie competenze, la propria passione professionale per costruire un proprio futuro lavorativo dignitoso.
I nostri lavori, dunque, tutti i lavori, tutte le professioni costituiscono un primo tratto del nostro progetto. Poi, ci sono i “segni particolari” che identificano la nostra rappresentanza, quelli che parlano delle nostre soggettività.
Il primo in assoluto è la differenza di genere. La Filcams dovrà essere il sindacato donna della Cgil e non per un vezzo, quanto per il fatto che il mondo che noi rappresentiamo è un mondo a prevalente occupazione femminile.
Però, dobbiamo intenderci su cosa significhi essere un sindacato donna. Qualcuno pensa che si tratti dell’applicazione coerente e rigorosa della norma antidiscriminatoria che si è data la Cgil, ma non è questo. A parte il fatto che quella norma non dice che le donne debbono essere il 40% dell’organizzazione, dice che non debbono essere meno del 40%, perché se fosse così, la sua interpretazione non potrebbe che essere simmetrica, applicabile anche agli uomini.
Essere un sindacato donna significa innanzitutto battersi per affermare il valore della differenza di genere nella società e nel lavoro. Essere sindacato donna, significa che la Filcams deve battersi per il diritto delle donne ad avere salari uguali agli uomini, mentre sappiamo che non è così, per tanti motivi; significa battersi per un lavoro compatibile con il ruolo della donna nella società, orari, tempi, permessi, ambienti di lavoro, significa battersi per la dignità sul lavoro; significa battersi per difendere il diritto al lavoro e sappiamo che non è così: il 27% delle donne, dopo il primo figlio, lascia per sempre il lavoro! Per queste donne, l’art.1 della Costituzione Repubblicana decade dopo aver partorito il primo figlio!
Qui non vi è solo la negazione di un diritto formale per una parte grande di persone, ma quello che più è significativo è la perdita di un patrimonio umano e professionale importante, perché le donne sono una grande risorsa per il paese!
Significa che anche il sindacato deve modificare il proprio modo di essere, per rendere compatibile la vita da dirigente con quella di donna, che significa tante vite in una, di mamma, di moglie, di figlia, di assistente domestica….. Noi possiamo farlo, possiamo dimostrare che un sindacato a misura di donna può esistere ed anche per questo informo tutti i nostri delegati che la commissione elettorale esaminerà, con ampie probabilità di successo e senza astrazioni, la proposta di eleggere il nuovo organismo, il Comitato Direttivo Nazionale, dove per la prima volta (forse anche in Cgil) le donne saranno la maggioranza dei suoi componenti.
Il progetto di rinnovamento che abbiamo avviato ha, poi, un deciso connotato generazionale. Inutile negare che la necessità di recuperare il vuoto generazionale che si è creato non solo nel sindacato, costituisce un obbligo, non tanto per superare un limite organizzativo, quanto per essere in grado di rappresentare nuovi bisogni, di rispondere ad aspettative lontane dalla nostra tradizione, che, se private di un riferimento, di un soggetto ove potersi rappresentare, si infrangerebbero negli scogli della società gerontocratica, quale è la nostra, a tutti i livelli.
Da alcuni mesi abbiamo avviato un lavoro sulle politiche giovanili, di cui parleremo nella giornata di domani. E’ da quel lavoro che dovremo attingere per costruire i gruppi dirigenti del futuro e per fare questo non vi è il rischio di prefigurare chissà quali scontri generazionali. Dentro questo progetto c’è posto per tutti e c’è bisogno di tutti, soprattutto per sostenere un’esperienza che deve consolidarsi sul campo.
Il nostro progetto di rinnovamento si fonda, soprattutto, sulla conoscenza, sui saperi. Non è più l’epoca del sindacalista tuttologo, bisogna studiare, formarsi, in un rapporto stretto tra formazione teorica ed esperienza sul campo. Per questo ribadisco quello che ho già detto nei mesi che hanno preceduto il congresso: il varo del Piano Nazionale di Formazione Sindacale costituisce un vincolo e una discriminante per la selezione dei nostri quadri, sostenendo quelli di base, dei luoghi di lavoro, che chiamiamo a svolgere funzioni impegnative con la contrattazione di secondo livello; investendo sui giovani dirigenti sindacali, anche attraverso la formazione di eccellenza, come il master promosso con l’Istituto Superiore Formazione, giunto alla sua seconda edizione, che replicheremo appena concluso quello in corso di svolgimento.
Rappresentare tutto il mondo dei lavori del Terziario comporta avere una visione unitaria dell’organizzazione. Se il nostro baricentro fosse esclusivamente spostato sulla grande Distribuzione, non potremmo che avere un’organizzazione prevalentemente centro-nordista, poiché il core business del settore è a Milano, in Lombardia, nel Centro-Nord.
Perderemmo di vista che esiste una area grande del Paese, il Mezzogiorno, dove la crisi agisce attraverso una concatenazione dagli effetti sociali ancora più drammatici che nel resto del Paese. Nel Sud i nostri settori sono mediamente tutti in crisi, con la fuga della GDO, il fallimento delle politiche per il turismo e l’abbandono dei servizi, con effetti sociali dirompenti, soprattutto, i relazione agli ex-Lsu, vittime delle ripetute promesse elettorali. Ma questa crisi settoriale sta dentro la crisi del Mezzogiorno, anch’esso tradito dalle promesse, che, a sua volta, sta dentro la crisi più generale del Paese. L’effetto “matrioska” è drammatico, perdere un posto di lavoro nel Mezzogiorno non è la stessa cosa che nel resto del paese. Ma la battaglia per l’occupazione si intreccia con quella per la legalità, contro le mafie che tengono prigioniero il mercato e negano prospettive di sviluppo.
La Filcams non può non assumere questa battaglia come una priorità del proprio progetto e per definirne obiettivi e tappe il congresso deve impegnare tutti noi a realizzare entro quest’anno la Conferenza nazionale sul mezzogiorno, quale inizio di un percorso che dovrà mobilitare tutta l’organizzazione.
Infine, vogliamo una Filcams con lo sguardo sul mondo che viviamo. Già il settore distributivo, quello del turismo ci hanno portati a misurarci con la dimensione internazionale delle politiche sindacali ed è per questo che verso la politica internazionale dedicheremo un impegno maggiore. Vorrei, per questo, ringraziare i nostri ospiti, rappresentanti delle Federazioni Internazionali e dei paesi dell’Europa e degli altri continenti presenti.
Il nostro impegno internazionale avrà due aspetti. Il primo, finalizzato a rafforzare la presenza e l’attività negli organismi internazionali della categoria, quelli europei e quelli mondiali. Questo, in funzione della necessità di rafforzare il coordinamento delle politiche sindacali in ordine all’esperienza del dialogo sociale e delle vertenze che le organizzazioni si trovano a dover gestire nei vari paesi, come nel caso recente di Carrefour. Un coordinamento sempre più necessario, anche in relazione al peso crescente che va assumendo, in Europa, la funzione della Commissione Europea, in relazione alle materie del lavoro, dei servizi, delle varie attività dei settori da noi rappresentati.
In questo quadro, assieme a Fisascat, Uiltucs e Coop abbiamo avanzato la proposta di sviluppare anche per le Cooperative di Consumatori il Dialogo Sociale Settoriale a livello europeo; la proposta è stata raccolta da UNI Europa che la discuterà nel prossimo Comitato Direttivo di UNI Europa Commerce
Il secondo aspetto, invece, deriva dalla necessità di intercettare e di rappresentare il fenomeno crescente dell’immigrazione. Il tema della presenza dei lavoratori stranieri nei nostri settori ha assunto ormai proporzioni significative, descrivendo una realtà tutt’altro che temporanea. Tanto nel settore alberghiero e della ristorazione, quanto in quello dei servizi alle persone, ma, ormai, in via crescente nello stesso settore distributivo, il mercato del lavoro è sempre più multietnico.
Come deve rispondere la Filcams (e l’intero sindacato) a questo fenomeno, preoccupandosi di assistere gli immigrati che lavorano nei nostri settori nelle pratiche del permesso di soggiorno e stampando i contratti nelle diverse lingue straniere? Certamente, sono tutte cose che debbono essere fatte, già le facciamo e continueremo a farle, con ancora più impegno.
Ma il tema è un altro e non possiamo tardare a coglierlo in tutte le sue implicazioni. Questo nuovo mondo che avanza ci parla della necessità di ridefinire su basi multietniche il nostro soggetto della rappresentanza, ci dice che la sfida è la costruzione del sindacato multietnico, che è qualcosa più dell’ingresso di qualche compagna o compagno straniero nei nostri organismi. Anche in questo caso, la sfida parte dalla testa, dal pensiero, dalla necessità di comprendere che siamo di fronte ad una sfida culturale, che non ci chiedere di annullare le diversità, ma di unirle senza confonderle e distinguerle senza separarle. Significa –dunque- cominciare a pensare la contrattazione in funzione di queste diversità, rispondendo a bisogni contingenti, ma anche indotti da identità culturali diverse, che possono impattare con i processi sociali e del lavoro, chiedendo non solo di essere accolte, ma di essere riconosciute come diritti di cittadinanza, a partire dal primo, per il quale anche la Filcams si batte, il diritto al voto per chi di fatto è parte integrante della vita economica e civile del Paese.
Ma un sindacato multietnico non è soggetto che rimuove le ragioni dell’immigrazione, che sono nella alta diffusione della fame, delle malattie, delle guerre, dell’analfabetismo. Un sindacato multietnico è un soggetto che fa proprio l’impegno politico e civile per combattere e rimuovere le cause che generano quelle condizioni e questo sarà un segno che connoterà il nostro impegno internazionale, il sostegno alla cooperazione per lo sviluppo, il sostegno ai sindacati che si battono per la libertà e la democrazia nei paesi ove essa viene negata.
In occasione dell’8 marzo abbiamo aderito al progetto “l’Africa cammina con i piedi delle donne”, perché ancora una volta –in queste aree del mondo- sono le donne oggetto delle maggiori violenze ed ingiustizie, ma, ancora una volta è dalle donne che si libera la maggiore energia per alimentare la speranza del cambiamento.
La natura del nostro fare sindacato ci colloca nel crocevia della globalizzazione.
Ci occupiamo di consumo e non possiamo rimuovere la grande contraddizione prodotta dall’iniqua ridistribuzione della ricchezza mondiale, che nel terzo millennio fa si che lo spreco conviva col dramma dell’alimentazione, della fame e della sete nel mondo (anche per questo aderiamo alla battaglia per difendere l’acqua quale bene pubblico e non merce di scambio).
Ci occupiamo di turismo e sul lavoro viviamo la ricchezza dell’incontro di culture, costumi, etnie diverse, ma scopriamo anche il rovescio della medaglia nei paradisi patinati, fino alla schiavitù minorile.
Ci occupiamo dei servizi alle persone e scopriamo, nell’incontro con tante collaboratrici domestiche, tante colf, l’intensità di storie personali che racchiudono spesso il dramma di comunità intere, offese dalle guerre e dal fallimento di nobili speranze, persone intente a riscattare orgoglio e dignità nell’ammirevole impegno professionale.
Tutto questo muove una coscienza, la nostra coscienza, intenta a guardare sempre il volto ferito di questa umanità e ci fa sentire di essere a posto con noi stessi solo combattendo questa errata declinazione della globalità, dal fronte che presidiamo quotidianamente.
Anche per questo vogliamo rivolgere a Gino Strada, all’organizzazione Emergency tutta la nostra solidarietà e siamo felici di poter festeggiare oggi l’avvenuta liberazione dei tre operatori italiani, tenuti ingiustamente prigionieri la scorsa settimana.
Care compagne e compagni,
c’è qualcosa di nuovo nell’aria, anzi di antico! E’ il valore della confederalità, è la Cgil, per noi è la Filcams, consegnataci da chi l’ha costruita in tempi lontani, quando tutto era molto più difficile, dai “sovversivi” che la preziosa ricerca condotta dal Ce.Mu. ha riportato fra noi, nelle immagini e nel volume che troverete in cartella.
Dobbiamo restituirla a chi verrà dopo di noi, più forte, nel corpo e nella mente. Siamo sulla buona strada: 372.268 iscritti, siamo la seconda categoria fra gli attivi e vogliamo immetterci subito nella corsia di sorpasso. E’ il risultato del vostro lavoro, per il quale vi ringrazio a nome di tutta la Filcams. E’ il risultato del lavoro delle compagne e dei compagni che con questo congresso concluderanno la loro esperienza in Filcams, che io saluto e ringrazio a nome di tutti voi.
La Filcams è tutto questo, vita di donne e uomini umili, ai quali la storia ha bussato alla porta e loro, quella porta, l’hanno spalancata, senza chiedere nulla in cambio, che non fosse la certezza di avere messo una piccola pietra per costruire il futuro. Noi vogliamo rifiutare l’idea che cambiare non si può, perché ormai è così.. Il cambiamento è frutto della volontà, non della possibilità. Magellano non avrebbe scoperto il Nuovo Mondo, né Amstrong sarebbe sbarcato sulla luna.
Il futuro sostenibile è davanti a noi, dipende da noi, dobbiamo solo non aver paura dei nostri dubbi, perché i dubbi sono l’anticamera delle nostre certezze, soprattutto di quelle che non ti fanno rimpiangere di aver dedicato la vita al sindacato, ad una missione che parla di pace, di giustizia, di dignità delle persone.
Buon lavoro a tutti noi!