9/6/2010 ore: 0:00

Intervista Claudio Storti, esperto di gestione e sviluppo delle risorse umane e formazione

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Claudio Storti esperto di Gestione e sviluppo delle risorse umane e formazione, al corso per dirigenti donne organizzato dalla Filcams Cgil ha tenuto una lezione su “Gli stereotipi e il genere come si formano e come le aziende gestiscono le lavoratrici”.

Differenza uomo-donna, dove vogliamo arrivare? Quali gli elementi imprescindibili da non trascurare nella differenza donne e uomini?

Non c’è nessuna intenzione o voglia di omologare donne e uomini. Spesso è la fase temporale, il periodo storico in cui ci troviamo che amplifica o diminuisce alcune differenze uomo/donna.
Nel periodo in cui ho avuto i miei figli i pediatri sostenevano che l’allattamento al seno doveva essere di breve durata, tre o quattro mesi al massimo. Quasi a voler aiutare l’emancipazione della donna, in atto in quel periodo. Adesso l’allattamento al seno viene prolungato il più possibile.
Durante i lavori di gruppo parlando delle giovani generazioni, sembra che la differenza uomo donna si sia attenuata. Il rischio però è che si perda l’elemento di differenza, l’omologazione rischia di far trascurare l’elemento di forza della donna.
Non bisogna, invece, confondere i ruoli.

Come stanno cambiando le aziende rispetto alle donne? Sempre che un cambiamento ci sia…

Un cambiamento delle aziende verso le donne c’è, soprattutto perché, non valorizzare la donna è un rischio anche per l’azienda stessa.
Quando le aziende si presentano ai clienti si pongono in maniera differenziata uomo-donna, l’azienda deve tenere conto di questa differenza e trovare strumenti differenziati.
Le assicurazioni, per esempio, pur sapendo che le statistiche affermano che le donne hanno meno incidenti stradali, non fanno differenziazioni tra uomini e donne, forse per lo stereotipo “donna al volante pericolo costante”. Non percependo, in questo modo, le occasioni date dalle differenze di genere.
Per stare sul mercato le aziende devono fare attenzione alla differenze di genere, anche al loro interno.
Le aziende dovrebbero trovare, per esempio, una strumentazione per la gestione delle maternità al proprio interno, se pur non programmabili, potrebbe essere definito un piano organizzativo.

C’è un differente approccio verso le donne tra aziende italiane e straniere?

Le aziende italiane sono più rigide e meno flessibili. In Italia solo adesso iniziamo a sperimentare orari di lavoro diversi mentre negli altri paesi sono più avanti.
E comunque da noi lo standard è il full-time, le otto ore; le altre modalità, come il parttime sono state introdotte molto più tardi.

E le lavoratrici, anche loro hanno degli stereotipi che possono ripercuotersi su di loro?
Certamente. Da quello classico “preferisco un capo uomo che un capo donna”, oppure nei confronti di altre donne lavoratrici “lei ha fatto carriera, ma chissà come ne ha risentito la famiglia”. Il problema è che spesso la diversità viene vissuta come una mancanza e non come un vantaggio “competitivo”.
La donna, per esempio, è lei stessa che a volte ha una visione autolimitante in caso di maternità, preoccupata in anticipo della reazione del capo alla notizia della gravidanza, angosciata dall’idea di non ritrovare, al proprio rientro, della stanza o del proprio lavoro.
Con un po’ di accettazione e un po’ di fatalismo. Il problema è che spesso non vengono esplicitate le esigenze, credendo di sapere già cosa pensa l’altro.

Un Consiglio alle lavoratrici sindacaliste?
Dare valore alla diversità, valore al singolo.
Non è facile: ampliare le vedute, uscire dagli schemi tradizionali della contrattazione, per proporre qualcosa di nuovo, che potrà anche essere vincente.
Ma la sindacalista deve anche lavorare su di se e all’interno della Filcams, sarà più facile poi tradurre il tutto alle aziende.