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Intervento F. Martini XVI Congresso CGIL, 6/05/2010

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XVI Congresso CGIL
Rimini, 5/8 maggio 2010

Intervento di Franco Martini, Segretario Generale FILCAMS CGIL

Qualche giorno fa, era il 1 maggio, in molte delle nostre città i sindaci hanno autorizzato l’apertura degli esercizi commerciali e la stessa cosa era già avvenuta in occasione del 25 aprile.
La Filcams, assieme alle Camere del Lavoro e la Cgil delle regioni interessate, si è mobilitata contro quelle decisioni, proclamando lo sciopero della categoria, innanzitutto per difendere il valore storico e culturale di quelle ricorrenze, architravi della nostra democrazia e della formazione della coscienza civica e politica.

Ma quelle decisioni parlano anche di altro e chiamano in causa molte delle cose che stiamo discutendo in questo congresso, offrendo un terreno concreto alla prova di coerenza alla quale siamo chiamati, per dimostrare che questo congresso non è stato solo una palestra per dare sfogo alle dinamiche interne dei nostri gruppi dirigenti.

La pesante crisi che sta vivendo il terziario, la prima Grande Crisi del settore, determinata innanzitutto dal crollo significativo dei consumi, non dice solo che la crisi è ben lontana dall’essere un ricordo del passato, ma, soprattutto, che difficilmente potrà essere superata, lasciando le cose come stanno, senza mettere in discussione modelli di sviluppo consolidatisi negli anni.
Oggi, il terziario, è diventato la più grande fabbrica di precariato, mettendo in discussione il teorema secondo il quale il suo sviluppo avrebbe compensato la riduzione dell’industria manifatturiera ed il conseguente assorbimento dell’occupazione. Il terziario è diventato oggi uno dei principali luoghi dell’incertezza esistenziale, dell’assenza di futuro, per gran parte di chi vi lavora, soprattutto per le nuove generazioni, la più grande fetta dei suoi addetti.

La prima ingiustizia contro la quale ci troviamo a combattere, contro la quale tutta la Cgil è chiamata a combattere, è che non tutti i lavoratori sono uguali davanti alla crisi. Le immagini che hanno preceduto l’inizio dei nostri lavori congressuali ci hanno riportati a quell’ennesimo gesto disperato dei lavoratori costretti a salire sul tetto di Termini Imprese, per gridare al Paese che l’indotto della grande fabbrica manifatturiera non potrà essere la scoria, il prezzo da pagare, per salvare il salvabile. Ma quel gesto parlava anche a noi, al sindacato, alla Cgil, per dire che le imprese di appalto, i lavoratori dei servizi terziarizzati, i contratti a termine, così come le donne delle imprese di pulizia o delle mense scolastiche, che non sanno mai se vedersi rinnovato un pezzo di futuro ad ogni cambio d’appalto, come pure le giovani ed i giovani ragazzi sparsi nelle centinaia di migliaia di studi professionali, non sono altra cosa, non sono lavoratori di serie b, figli di nessuno.
Stare insieme dentro un sindacato confederale significa che il valore dell’universalità dei diritti non è tema da contorno programmatico, ma pratica concreta e quotidiana della contrattazione. Non possiamo accettare che la crisi alimenti il conflitto nel nostro mondo, fra poveri e un po’ meno poveri! Questo significa che agli aiuti che si chiedono per il futuro di settori strategici, come quello dell’auto, ad esempio, deve corrispondere un’altrettanta determinazione per rivendicare analoghe risorse per difendere i lavoratori privi di tutele, dagli effetti della crisi, a partire dall’estensione e generalizzazione degli ammortizzatori sociali. Così come, quando chiediamo al Governo le risorse per coprire gli aumenti previsti dai contratti pubblici, dobbiamo mettere sullo stesso piano il diritto delle donne delle imprese di pulizia a veder assicurate le risorse per rinnovare gli appalti di servizi.

Ma la crisi del terziario ci parla anche dell’impossibilità di riprodurre i modelli che hanno caratterizzato il suo sviluppo ed impone la nostra capacità di affermare un nuovo progetto, culturale, prima ancora che sindacale.
Quanti di noi sanno cosa si nasconde nella pancia di un grande centro commerciale? La diffusione della precarietà, per il ricorso esasperato alla flessibilità del lavoro, al lavoro part-time, è la manifestazione più esplicita, quella che più si tocca con mano. Ma l’abnorme diffusione di un sistema distributivo fondato sul mito dei grandi formati, ha generato una distorsione profonda nelle politiche del consumo di massa e alimentato gravi contraddizioni sociali, che sommano alle vecchie, nuove e moderne ingiustizie. E noi rischiamo di assistere passivamente alla riproduzione all’infinito di queste contraddizioni, che si scaricano poi sul lavoro e sulla contrattazione. In alcuni casi, forse, le assecondiamo, abbagliati dalle luci ingannevoli delle vetrine.

Il paradosso è rappresentato dalla chiusura che importanti catene distributive hanno fatto e stanno facendo dei loro punti di vendita in molte città e la contestuale apertura di nuovi grandi formati distributivi, a poche centinaia di metri da quelli appena chiusi. Ma nei nuovi non si fa altro che riprodurre quelle moderne ingiustizie, che hanno accompagnato la crisi di molte catene distributive.
E noi cosa diciamo? Forse, ci facciamo incantare dall’idea, molto cara agli amministratori pubblici, che aprendo indiscriminatamente nuovi centri commerciali, cresce sicuramente l’occupazione? A Termini Imprese non sarà un centro commerciale ad assicurare il futuro lavorativo a chi produceva automobili, perché dentro quei modelli distributivi il lavoro a tempo pieno non esiste più, e due part-time non fanno due occupati, così come, a mezzo lavoro non può che corrispondere mezza esistenza, meravigliandoci poi, che i giovani non possono mettere su casa e famiglia!
E qualcuno ha mai pensato che dentro quei centri commerciali l’80% degli occupati sono donne? E che per mantenerle a lavoro bisognerà pensare che quelle donne fanno quattro mestieri in uno: mamma, moglie, figlia e poi anche dipendente del Centro Commerciale? E che per tenerle a lavoro, soprattutto quando si chiede loro di lavorare anche la domenica, perché sembra che questa sia la modernità, bisognerà pensare a fornire quei “non luoghi” di adeguati servizi sociali? E’ mai possibile che un amministratore possa autorizzare la costruzione di un centro commerciale che preveda l’area di parcheggio per i figli dei clienti e non preveda nell’area urbana che ospita quel centro commercialeb una struttura pubblica, un asilo nido, per i figli di chi lavora nei negozi? E poi ci meravigliamo che fatto un figlio, il 27% delle donne non tornerà più a lavorare. Visto che vogliamo difendere la Costituzione, cominciamo da qui, dal diritto al lavoro di tutti, donne e uomini.

La contrattazione di categoria cerca di difendersi come può, ma è evidente che questo è terreno della contrattazione confederale, territoriale, che tenga insieme i vari pezzi della nostra \rappresentanza, come lo è il tema degli appalti, dove non è più possibile che ognuno pensi di difendersi da solo. Dobbiamo finalmente riunificate la nostra battaglia per la trasparenza, per la regolarità e legalità degli appalti, alla quale è legata la battaglia per i diritti e la dignità delle persone costrette a lavorare nelle aziende in appalto.

Da qui nasce la nostra piattaforma, il futuro sostenibile del lavoro terziario, una piattaforma della categoria, che parla un linguaggio confederale. Perché la sostenibilità del lavoro terziario è innanzitutto quella sociale, diritto delle donne al lavoro, diritto dei giovani ad un futuro, ma anche degli anziani a fare la spesa, che non può significare sempre più e solamente prendere l’auto e andare in periferia.; la sostenibilità è ambientale, perché lo sviluppo di un modello distributivo fondato sull’iperconsumo, consuma ambiente e territorio, abbandona le città, i centri storici, la cultura e produce rifiuti, non solo culturali, ma anche materiali, come quelli da confezionamento; sostenibilità del lavoro, perché non è più accettabile che la non autosufficienza economica del lavoro (come è il part-time) possa essere la condizione per far vivere un settore così importante della nostra economia.

Chi ha autorizzato le aperture il 1 maggio ed il 25 aprile è chi potrà o vorrà autorizzarle anche per tutte le domeniche dell’anno. E’ l’idea che la liberalizzazione sia la ricetta giusta, in un settore che chiede, invece, nuovi equilibri per valorizzare non solo beni di consumo, ma anche e soprattutto beni relazionali fra le persone.
Per questo chiediamo a tutte le strutture confederali di aprire con noi un fronte negoziale con Regioni e Comuni, sulle nuove regole del settore.

Questa è la confederalità che ci piace, quella che da voce ai più deboli.
Questo è il nostro stare in campo, altro che far rientrare dalla finestra quello che non si è voluto far entrare dalla porta.
Lo stare in campo è la nostra responsabilità verso centinaia di migliaia di donne e uomini invisibili, che vivono oggi la solitudine prodotta dalle moderne ingiustizie e che hanno nella Cgil l’unico riferimento per dare voce ai loro bisogni ed alle loro speranze.


Rimini, 6 maggio 2010